L’ESORCISTA

di Francesco Patrizi

Torna nelle sale il film che negli anni settata suscitò scandalo  e che aprì una nuova strada nel genere horror. A distanza di anni, il film di Friedkin può essere apprezzato in tutta la sua modernità e in tutta la sua profondità.

Ne L’Esorcista una ragazzina, posseduta dal demonio, viene legata al letto e per tutto il film il prete che deve esorcizzarla combatte contro il maligno nascosto dentro la giovane vittima. Gran parte della vicenda si svolge nella camera da letto della ragazzina.

L’aspetto più intrigante e rivoluzionario del film stava proprio nel creare l’angoscia, il terrore, la tensione all’interno dell’ambiente familiare. La minaccia non viene dall’esterno (l’assassino, il folle, il maniaco), ma dall’interno, dai meandri della psiche, se vogliamo. L’angoscia si radica nell’effetto di estraniazione, nella paura che il familiare d’un tratto diventi sconosciuto, estraneo, non più rassicurante, ma minaccioso.

La dinamica psichica del film presenta questo mutamento nell’ambiente familiare. La minaccia si materializza non in un luogo esterno oscuro (come può essere una casa abbandonata, un vecchio cimitero…), ma nella cameretta della ragazzina; l’ambiente accogliente e caldo diventa freddo (letteralmente sottozero). E la figlia, l’essenza stessa della familiarità, diventa un’estraneità  minacciosa.

L’angoscia come dimensione interiore, l’idea che dentro di noi possa abitare un'altra entità: secondo la psicanalisi, il terrore nasce dalla paura che l’Altro invada la nostra proprietà, l’Altro percepito come scissone dell’Io, il  lato oscuro, l’inconscio. Il terrore che attraversa L’Esorcista è quello di perdere ciò che abbiamo vicino, ciò a cui teniamo, la paura che ciò che ci è familiare d’un tratto riveli una faccia nascosta, spaventosa, come il volto della ragazzina Regan, interpretata da Linda Blair, che d’un tratto smette di sorridere alla mamma, la guarda come se fosse un’estranea e la schiaffeggia.

E, ad anni di distanza, si riesce a vedere più lucidamente nella ragazzina indemoniata – che incita i preti esorcisti a violentarla, che si toglie la verginità con un crocefisso, che aggredisce la madre – un discorso latente sullo stato nevrotico di una dodicenne che vive traumaticamente il conflitto di crescita, il suo diventare donna, la scoperta della sessualità.

Il film si muove su un piano psicanalitico e insinua, dietro la storia della possessione demoniaca, una deviazione mentale, la proiezione di uno scontro tra la figlia e la madre più che tra il bene e il male.

Anche il giovane prete esorcista, l’altro protagonista del film, vive un conflitto irrisolto con la vecchia madre morta; e durante l’esorcismo la rivede in Regan e risente la sua voce lamentosa che lo accusa di non essere stato un buon figlio: più che uno scherzo del maligno sembrerebbe una proiezione del senso di colpa del prete, che non a caso, alla fine del film, si suicida prendendo il demonio dentro di sé.

L’Esorcista è un film sottile che forse, a monte, nella doppia figura del prete e della ragazzina, ritrae un conflitto generazionale.

Un conflitto di crescita

Il film presenta diversi piani di lettura nascosti e stratificati. Innanzitutto bisogna tener conto che buona parte del film si svolge in una clinica; le analisi a cui viene sottoposta Regan sono le scene più forti, crude e violente del film. La scena della TAC, ad esempio, anticipa visivamente le possessioni demoniache della ragazzina: Regan viene legata, immobilizzata ed “esorcizzata” dalle macchine.

È bene tener conto che è dopo queste cure che si manifesta “il maligno”. Si potrebbe prendere per buona la lettura psicanalitica che viene messa in bocca al dottore quando parla con la mamma: il problema di Regan è da relegare allo sviluppo adolescenziale. La sua è un’autosuggestione.

Durante la prima visita, Regan si spazientisce e si ribella alle analisi per altro fastidiose e dolorose. Non c’è nulla di strano. Il dottore rivela alla mamma che la piccola gli ha detto “tieni lontane le tue dita dalla mia maledetta fica!”. Una frase chiave, che rivela forse la lettura più profonda del film.

Precedentemente avevamo assistito ad un dialogo sul letto di Regan, quel letto che diventerà poi fulcro del film; ebbene, Regan chiede alla mamma se ha fatto l’amore con il regista, con il suo nuovo amante; la mamma nega tutto, dice che sono solo amici e le chiede come mai le è venuta in mente una simile idea; Regan risponde che aveva origliato e che aveva sentito “dei versi”; insomma, la figlia aveva immaginato che la mamma stesse facendo l’amore con un uomo che non era il padre.

Da un punto di vista psicanalitico, possiamo dire che la figlia comincia a vedere nella madre “una donna che fa l’amore”, una rivale che, proprio perché la considera “piccola”, le impedisce di crescere, di diventare a sua volta donna.

Quando la madre chiede alla figlia di poter comunicare con il “capitano” immaginario che le “abita” dentro, questa entità si rifiuta. Potremo dire che la personalità psicotica di Regan si scinde. Esternamente vuole bene alla mamma e si considera ancora una bambina, interiormente odia la madre e si sente donna.

La soglia di passaggio

Regan non a caso ha dodici anni; non è una bambina e non è un’adolescente, si trova in una fase di sviluppo, ibrida, in una zona di passaggio.

E la zona di passaggio, il “limen”, la soglia, secondo l’antropologia moderna, rappresenta quella fase della vita dell’individuo in cui si cambia identità, si passa dall’identità vecchia all’identità nuova, si entra in società, si ricopre un ruolo, si addomestica la sessualità irrequieta e irrazionale della fase preadolescenziale. Durante questo passaggio, l’identità vecchia lascia il posto alla molteplicità: prima di costruire la nuova identità, si vive in una zona franca, in una zona limite, dove tutto è possibile, dove l’identità si frantuma e il singolo non si percepisce più come unità, ma come molteplicità indistinta.

La dodicenne Regan sta attraversando questo “limen”, sente dentro sé molteplici identità, deve diventare donna e vede nella madre e nelle istituzioni, dei simboli di castrazione. Il “capitano” che abita dentro di lei, lo sdoppiamento della sua personalità, è l’oggettivazione di questa ostilità; quando Regan chiede al suo “capitano” se la mamma è bella – domanda ancora tipica del mondo infantile – il “capitano” – ovvero la parte femminile adulta – si rifiuta di rispondere!

L’omicidio poi del regista, che si scopre essere stato gettato dalla finestra da Regan (viene infatti trovato ai piedi delle scalinate che conducono alla casa), è l’eliminazione del sostituto del padre; bisogna tener presente che la ragazzina ha voluto punire la madre e privarla dell’uomo con cui faceva l’amore.

Il fatto che Regan abbia detto al dottore di tener lontane le dita dal suo sesso – una paura ossessiva dello stupro - va relazionato al fatto che il regista risulta poi essere salito in camera dalla ragazzina in un momento in cui erano da soli in casa e che in lei sia scattato il desiderio-paura di stupro; la scena, così come viene immaginata nel corso del film (poiché non è mostrata), potrebbe essere stata presa da un manuale di psicanalisi: il sostituto del padre, l’oggetto del desiderio della madre, si fa avanti; Regan, che vuole competere con la madre, desidera di essere posseduta da lui e allo stesso tempo lo uccide per privare il genitore del potere sessuale.

In una delle prime scene di possessione demoniaca, Regan si era definita, per bocca del maligno, una “troia!”; poi aveva si era rivolta alla madre appellandosi “quella stracciacazzi di tua figlia”: una maniera abbastanza palese di esternare in faccia al genitore la propria sessualità repressa.

Inoltre la celebre scena della ragazzina posseduta che si colpisce il sesso con un crocefisso rappresenta lo stato avanzato, palese e violento di questo discorso: è il desiderio inconscio di perdere la verginità.

Il conflitto madre-figlia

In una scena successiva, Regan posseduta si ritrova da sola in camera con la mamma e, come dire, regola i conti; fa chiudere la porta, le scaglia contro degli oggetti (come in una normale lite familiare!) e la scaraventa a terra con uno schiaffo.

Dopo aver ricevuto lo schiaffo, dopo essere stata picchiata, la madre si rifiuta di riconoscerla, dice che quel “coso” non è sua figlia e non entra più nella cameretta. Lo schiaffo ha la valenza di un gesto di ribellione, di un affronto, e il livido resta per tutto il film sul volto della donna, segno di questo conflitto irrisolto.

Dietro allo scontro con il demonio si nasconde quello tra la madre e la figlia.

Quando sopraggiungono i due esorcisti, la ragazzina li provoca sessualmente: con il turpiloquio insinua che il vecchio prete è impotente e invita il prete più giovane a possederla carnalmente. Durante l’esorcismo tira fuori la lingua ammiccando eroticamente. Insomma, il possedimento demoniaco nasconde un discorso parallelo, più profondo, su una ragazzina che vive il suo sviluppo ormonale traumaticamente e su una madre che non accetta che la figlia stia diventando donna.

Lo sceneggiatore e il regista cercano sempre di rendere credibile l’ipotesi della psicosi, della turba mentale, dell’isteria. D’altra parte possono essere state le stesse cure mediche, così simili all’esorcismo(!), a scatenare la fase avanzata della nevrosi di Regan.

Il prete: un doppio di Regan

Il personaggio del giovane prete va a completare questo discorso: è uno psichiatra, è in crisi depressiva e può considerarsi un probabile suicida.

Nello scontro tra la figlia e la madre, si inserisce lo scontro, di tutt’altra valenza, tra il prete e la vecchia madre greca, uno scontro difficile, complesso, incentrato sulla frustrazione del figlio che deve rispondere al genitore del proprio fallimento.

La madre, quando giace sul letto dell’ospedale con i polsi legati - in una posizione simile a quella di Regan posseduta - caccia via il figlio incolpandolo: “perché mi hai fatto questo?”.

Sia la madre, in ospedale, che Regan, in camera, scongiurano poi il prete di scioglierle i lacci ai polsi.

La scena anticipa, non solo visivamente, lo scontro con la ragazzina indemoniata. L’esorcismo che lo impegnerà nella seconda parte del film va considerato nell’ottica di questo conflitto esistenziale che investe il rapporto con la vecchia madre, con la fede vacillante, con la crisi interiore.

La personalità psicotica del giovane prete proietta, durante l’esorcismo, la propria angoscia e il senso di colpa che lo attanaglia, nel demonio e riascolta in lui la voce lamentosa della madre morta che lo accusa.

 

Il letto-ring

L’aspetto che accomuna i due scontri, Regan e la mamma e il prete e sua madre, è il letto della ragazzina.

La cameretta dell’infanzia per Regan si rivela la gabbia che la tiene letteralmente imprigionata, legata, all’età pre-adolescenziale; per il prete, il luogo ha la medesima valenza simbolica: in questo posto mitico dove si consuma il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, rivive l’origine del conflitto con la madre. Il prete non sta esorcizzando Regan, ma la sua personale ossessione di fallimento, la sua “crisi di crescita” irrisolta.

La “camera dei bambini” è il luogo di scontro dove l’uno è chiamato a fare i conti con il passato e l’altra a fare i conti con l’immediato futuro.

Il regista trasforma scenograficamente il letto in un ring. Il giovane prete asciuga il sudore della fronte di Regan come si fa con un pugile; non a caso il prete stesso è un pugile e lo scontro finale, a terra, con il demonio, è una violenta scazzottata.

Gridando “prendi me”, il prete trasporta il demonio su se stesso e si getta dalla finestra concludendo la storia.

Il suo è un suicidio in piena regola e lo si capisce anche dalla reazione del prete amico che lo soccorre e in lacrime lo confessa in una pozza di sangue.

Il giovane prete era un aspirante suicida, non risolve il rapporto con la madre, con il passato.

Così come Regan, liberata dal demonio, non risolve la sua crisi di crescita. “Non ricorda più niente” dice la mamma all’altro prete che è venuto a salutarle mentre sono in partenza dalla casa. Vediamo Regan, vestita come una bambina, che pur non conoscendo il prete, gli si lancia al collo e lo bacia sulla guancia. Se da una parte si può leggere la scena come il ringraziamento verso la religione che l’ha salvata – poiché Regan per un attimo fissa il colletto del prete, come se riconoscesse inconsciamente in lui il suo salvatore – azzardando una lettura più intrigante e psicanalitica, può aver riconosciuto, nel colletto – non nella persona, ma nel feticcio -  l’uomo che l’ha “posseduta” violentemente al termine dell’esorcismo, il suo marito simbolico, il suo “uomo”. Lo slancio conclusivo, così inaspettato e immotivato con quel bacio infantile sulla guancia, ci dice che la ragazzina non ha superato ancora la sua fase di crescita.

Una possibile lettura

Sia chiaro che questa lettura psicanalitica è provocatoriamente insinuata nel film per bocca dei dottori e del prete.

Il discorso sul demonio, nonostante tutto, è tenuto ai margini; visivamente crea delle suggestioni – in ultima analisi, sempre rapportabili ad allucinazioni soggettive – ma sembra più essere un pretesto, una provocazione.

L’esorcista è un film complesso che naturalmente non si esaurisce in questa lettura; basti considerare la figura della madre, che è un’attrice di professione e che meriterebbe un discorso a parte; i continui ammiccamenti cinefili (l’ispettore che vuole portare al cinema il prete…), ma anche il discorso sociale, lo sguardo sul disagio cittadino reso nella prima parte del film; i riferimenti alla politica e alla gerarchia interna della chiesa; e l’ironia del film che si sta girando sull’occupazione studentesca, che comunque va a relazionarsi all’altro scontro generazionale madre-figlia (la madre, attrice, interpreta la parte di una professoressa che aderisce alla rivolta studentesca – nella vita ritrova lo scontro non in piazza, ma nella cameretta della figlia, nelle profondità della psiche – e non sa come affrontarlo).

Ad anni di distanza, grazie ad un distacco critico e storico, è forse più facile cogliere la ricchezza di un film come L’Esorcista.