HANNIBAL

di Francesco Patrizi

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Nell’ultimo film di Ridley Scott, sceneggiato da David Mamet e da Steven Zaillan, Hannibal Lecter è diventato un esteta abbastanza ordinario. Il personaggio che avevamo conosciuto ne “Il silenzio degli innocenti” e nel romanzo di Thomas Harris, era un esteta di ben altra levatura, che amava creare con i corpi dilaniati messi in posa delle opere d’arte, delle “nature morte/vive”.

Nell’ultimo film il personaggio è stato estremamente ridimensionato, appiattito, e lo si comprende anche prendendo in esame un piccolo inserto in flashback, la scena della scarnificazione del volto di Verger (interpretato da un irriconoscibile Gary Oldman) che racconta: “l’idea di scarnificarmi mi sembrò divertente”! La grave pecca sta nel mostrare un Hannibal Lecter che asseconda passivamente il deviato e annoiato ricco omosessuale nei suoi giochi pericolosi, che si limita a dare in pasto ai cani i brandelli di faccia  che Verger si toglie da solo con un pezzo di vetro. Hannibal ne esce quasi come un moralista che punisce l’eccentrico compagno occasionale.

Il problema forse sta proprio qui, aver fatto di Hannibal un moralista. Intendiamoci, il personaggio, sin dalla sua prima comparsa, inquietava proprio perché era un placido borghese, amante dell’arte e della buona conversazione, fervido declamatore di una morale tutta sua.

Il fascino di Hannibal attingeva al mondo del marchese de Sade, un mondo dove tutto è possibile, dove l’espressione dell’eros, totalizzante, assoluta, che investe i bisogni fisiologici come quelli puramente intellettuali, si manifestava nel cannibalismo.

Hannibal Lecter riduceva l’etica ad un’estetica, sostituiva il giusto con il bello, con il piacere, con il godimento, e il cannibalismo si intrecciava allusivamente all’arte della seduzione e della conversazione. Parlare per fagocitare l’altro, divorarlo con i propri discorsi, ridurlo da interlocutore ad ascoltatore, plagiarlo e mangiarselo.

Dispiace vedere in quest’ultimo film questa dimensione così svilita; si prenda ad esempio l’ultimo incontro di Hannibal con l’agente Clarice Starling, dove viene messa in scena in maniera semplicistica e scontata la relazione tra il bacio e il morso (nella sequenza, Hannibal finge di mordere Clarice invece la bacia)…forse ispirata all’aforisma “il bacio è un morso che ha imparato l’educazione”…

Hannibal, in origine, era un dandy che, alla maniera dei personaggi di Sade o di Lautrémont, faceva della propria vita un atto artistico, lasciava libero l’istinto più nascosto e più arcaico dell’uomo; in lui leggevamo quel residuo dell’uomo precedente alla civilizzazione, il regresso all’orgiastico, al furore irrazionale, al “dionisiaco” nietzschiano.

Si potrebbe vedere in Hannibal il riflesso del percorso delle arti della fine del secolo – i suoi cadaveri mutilati possono ricordare i cuccioli imbalsamati o le mucche sezionate viste nelle mostre d’arte contemporanea, o ancora le esperienze estreme del bondage, del piercing, della mutilazione, degli artisti che fanno del corpo umano un’opera a sé, il “luogo” dove si incontrano realmente l’arte e la vita, l’umano e il non umano. (Si prenda in proposito la citata automutilazione di Verger, suggerita da Hannibal, vero autore del volto sfigurato del ricco miliardario, “opera d’arte vivente”).

Questo percorso artistico (qui grossolanamente accennato) giunge all’abbattimento della divisione tra il gesto artistico e l’esperienza sensoria, tra il fare e l’essere un’opera, tra la rappresentazione e la vita.

Hannibal poteva rientrare in questa dimensione sperimentale.

Il personaggio visto in questo ultimo film, invece, non è più un “artista”, ma un esteta passivo che sorseggia cocktails, passeggia per Firenze e cura una biblioteca.

Non è più un serial killer psicopatico, sovvertitore della morale e della giustizia, ma è animato da un buon senso e da un opportunismo che non hanno nulla di strano o di malsano: si difende dal commissario cattivo che vuole acciuffarlo per la ricompensa, scampa ad un’esecuzione architettata dal cattivo Verger (che si vuole vendicare, anche se abbiamo visto che Hannibal si era limitato a suggerirgli di scarnificarsi la faccia) e aiuta l’agente Clarice mangiando il cervello dell’agente cattivo che l’ha cacciata dal F.B.I. …insomma, i cattivi sono le vittime.

Hannibal non pratica più il suo cannibalismo irrazionale, istintuale.

Se i suoi omicidi ricordavano il gesto surrealista gratuito, immotivato e amorale – e proprio per questo libertario, anarchico, poeticamente “rivoluzionario” – oggi sono motivati dalla vendetta, sono premeditati, giustificati. Persino condivisibili.

Hannibal non ha più una fame selvaggia, ma una razionale e civilissima sete di giustizia.

 

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