Recensione di “CAHIERS DU CINEMA” de La Stanza de figlio

 

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Moretti ha preso, come dicono i nostri uomini politici, una grave decisione. Scompare il personaggio che si diverte, con il casco, chiacchierone e girovagante, ballerino folle e cantante sulla sua Vespa: l’eroe del cambiamento italiano abbandona oggi il one-man-show e le sue “bouffoneries”(divertimenti, ironie…)  autobiografico-politiche per consegnarci “un film della maturità”, prodotto saggio e neutro che potrebbe essere firmato da qualcun altro tanto bisogna ingegnarsi a cercare il suo marchio, la sua firma. Che spunta di rado, insieme al suo naso qua e là, in forma di autocitazione manifesta, con i gesti ormai tipici ripescati dalla sua filmografia, come se Moretti avesse scelto i cassetti della Stanza del figlio per riporre i suoi vecchi giocattoli smessi, e ironizzare sul proprio corpus antologico.

Sola ossessione per sopravvivere in seno a questa rivoluzione dettata dalla saggezza: lo sport. Ma anche lì, tranne il travelling-jogging inaugurale che si chiude in una danza krishna dall’esultanza macchiettistica, è inconsistente. È mimato, commentato, sognato, evocato, ma lo si pratica poco.

Che resta, allora del personaggio Moretti ? è scomparso? Sì e no: si è invecchiato, è mutato.

Indossa d’ora in avanti la pelle di un padre di famiglia, marito felice e responsabile di due figli grandi. Ma se la sceneggiatura gli ha cucito addosso un costume di un grigio così passe-partout (adatto a tutto), è sicuramente per perderlo meglio. Poiché, recluso volontario in casa, è un labirinto che l’appartamento, i suoi colori, lo studio da analista tratteggiano e le sue camere disegnano. E qui regna, dedalo obbligato, un Minotauro, invisibile, ma terribilmente efficace, che va a divorare  suo figlio vestito con una sweat-shirt rossa da vittima designata, lasciando la sua camera vuota , museo di ricordi, polo di attrazioni contraddittorie fino a che una giovane Arianna viene in extremis a salvare a famiglia dalla melanconia e a tirarla fuori dal tunnel della notte del dolore. 

Film dalla scrittura che scorre liscia a dispetto della tragicità del soggetto (come rendere il lutto del figlio? Sopportare l’intollerabile?), Moretti non ha solamente scelto il ritegno per gusto stilistico o volontà di verismo. Inasprendo il tono di quello che figura come un dramma familiare, dopo tutto sceneggiato, la sua sobrietà, evidentemente, nasconde un altro progetto. Quello che è sprofondato nell’abisso è, a colpo sicuro, non tanto suo figlio quanto la propria infanzia. “Voglio tornare indietro”, ripete spesso Moretti-Giovanni (abbiamo afferrato il simbolismo dei nomi propri), che, benché sia un analista, e di una certa bravura (siamo invitati a verificarlo; lo testimoniano i suoi clienti), non saprebbe uscire da solo dal circolo vizioso della sofferenza di quella perdita. Andare indietro nel tempo, contravvenire al suo flusso e a quello che della Storia, si fa immediatamente sentire all’individuo come un’alienazione brutale, rivoltante, ecco il dramma di cui l’eroe deve elaborare il lutto.  
Come dice Godard nel suo film in competizione « un giovane, sappiamo quello che è; un vecchio anche, ma un adulto? Un adulto non è niente”. Questo niente, assenza di definizione, stasi prolungata, ecco il pivot intorno al quale gira Moretti. Questa costrizione spiega forse ciò

che l’ha obbligato, a dispetto della sua presenza cronica sullo schermo, a presentare un film senza padrone. Una volta abbandonato il divano, il punto di vista non si nutre più dei monologhi e dei deliri così familiari negli altri film; la cinepresa, leggermente spostata, si posiziona d’ora in avanti dalla parte dell’ascolto titubante, neutralizzante, de-drammatizzante, dell’analista. Lo psichiatra non rimanda qui al Freud egittologo, decifratore di enigmi esemplari, come Hollywood spesso lo ha adoperato, ma ad una funzione più modesta. Lo psichiatra Moretti non risolve nulla, non guarisce; abbandona gli abiti del missionario, la sottana del prete de La Messa è finita, il costume da campione di pallanuoto di Palombella Rossa, ha un mestiere, il suo compito è quello di restare in disparte.

Costruito essenzialmente per accumulo di dettagli discreti, che il montaggio mette in successione quasi meccanicamente e senza sorprese, il film ostenta un dubbio vagamente allucinato di costruzione. Al apri di una sceneggiatura, che rifiuta la violenta casualità del reale (come la ricerca disperata di Moretti nel negozio di articoli per l’immersione riguardo alla valvola dell’ossigeno difettosa), il personaggio della Stanza del figlio confessa la sottomissione al vibrato di un basso continuo. La sua chiave? Quale, se non la figura del cerchio concentrico? L’ammonite fossile che ruba suo figlio, dalle schematiche spirali su un poster nella camera, la maggior parte delle ossessioni dei suoi pazienti, di cui la funzione allegorica è manifesta, ma anche numerosi flash-back ricostruiti e che quasi contravvengono alla regole della scrittura tradizionale, tutto questo gira intorno e accentua la vertigine della “surplace”.

Stanza del figlio: “stanza” in italiano designa la camera, ma rinvia anche, come Moretti ci ricorda in un’intervista, ad un genere poetico e più in generale ad una versificazione che trova la sua etimologia nel solco che traccia pazientemente il coltivatore, un zig zag dall’andamento apparentemente infecondo. Quando sulla spiaggia, liberata da Arianna dal demone della melanconia, la famiglia traccia, sconvolta, delle circonvoluzioni erratiche, non rende omaggio alla supremazia paranoica di El di Buñuel. Al contrario, è la sabbia calpestata - l’arte poetica di tutto il film- stranamente dalle impronte di più persone, che chiude il dramma: aggrapparsi alla circolarità infernale non significa ritrovare la luce, non ancora, suggerisce questo pseudo happy end, nel riscrivere, punto per punto, piano per piano, il disastro. Di cui è il resoconto. Si può chiudere la porta della camera dai tesori attraenti, ma morbosi. 
Padronanza del dolore, accettazione conclusiva e rinnovata dell’irreversibilità del tempo, è ad una morale a metà strada tra la psicanalisi e lo stoico dubbio di sé che ci invita Moretti. Resta il fatto che non siamo sicuri che questo ritorno all’esaltazione delle antiche virtù ci sia di qualche aiuto. Alcuni, ben ferrati nelle sedie dell’emozione, in ammirazione per l’evidente prodezza narrativa, nondimeno ci accusano di scetticismo: dalla camera dell’adolescente alla spiaggia dell’eternità ritrovata, non assistiamo forse allo spettacolo di un artista stanco di dover testimoniare lo smarrimento del presente? Secondo noi, manca all’autore di questa superba dimostrazione, l’essenziale del suo talento: l’insolenza del dubbio, la gioia intaccabile della critica dei tempi. Finito il secolo, tutto questo si sarebbe già arenato sul greto? 

Moretti a pris, comme disent nos hommes politiques, une grave décision. Exit l'amuseur encasqué, bavard et mobile, fou dansant et chantant sur sa Vespa : le héros de la relève italienne délaisse aujourd'hui le one man show et ses bouffonneries autobiographico-politiques pour nous livrer "un film de la maturité", produit sage et neutre qui pourrait être signé par un autre tant il faut s'ingénier à chercher sa griffe. Et lorsqu'elle pointe encore son nez ici et là, c'est sous forme d'autocitations manifestes, gestes déjà typiques tirés de sa filmographie, comme si Moretti avait choisi les tiroirs de La Chambre du fils pour y remiser ses vieux hochets hors d'usage, et ironiser sur son propre corpus anthologique. Seule obsession à survivre au sein de cette révolution dictée par la sagesse : le sport. Mais là encore, hormis le travelling-jogging inaugural qui se boucle en une ronde krishna à la liesse de pacotille, il est frappé d'inconsistance. On le mime, on le commente, on le !
rêve, on l'évoque - on ne le pratique plus guère.
Que reste-t-il alors du personnage Moretti ? A-t-il disparu ? Oui et non : il a vieilli, il a mué. Il endosse désormais la peau d'un père de famille, mari heureux et responsable de deux grands enfants. Mais si le scénario lui a taillé un costume d'un gris aussi passe-partout, c'est assurément pour mieux le perdre. Car, reclus volontaire à domicile, c'est un labyrinthe que l'appartement, ses couloirs, son cabinet d'analyste attenant et ses chambres dessinent. Y règne, dédale oblige, un Minotaure, invisible mais terriblement efficace, celui-là même qui va engloutir son fils en sweat-shirt rouge de victime désignée, laissant sa chambre vide, musée des souvenirs, pôle d'attractions contradictoires jusqu'à ce qu'une juvénile Ariane vienne in extremis sauver la famille de sa mélancolie et l'extirper du tunnel de la nuit de la douleur.
Film à l'écriture délibérément lisse en dépit du tragique de son sujet (comment faire le deuil de son enfant ? endurer l'intolérable ?), Moretti n'a pas seulement choisi la retenue par goût stylistique ou volonté de vérisme. Durcissant le ton de ce qui figure un drame familial après tout scénarisé, sa sobriété, d'évidence, camoufle un autre projet. Ce qui s'est ainsi abîmé dans l'océan est à coup sûr moins son fils que sa propre enfance. "Je veux retourner en arrière", répète à plusieurs reprises Moretti-Giovanni (on aura saisi la symbolique appuyée des noms propres), qui, tout analyste qu'il est, et de qualité certaine (on est invité à le vérifier ; ses clients en témoignent), ne saurait en bonne logique sortir seul du cercle vicieux de la souffrance de cette perte-là. Remonter le temps, déroger à son écoulement fatal et à ce qui de l'Histoire se fait soudain sentir à l'échelle de l'individu comme une aliénation brutale et révoltante, voilà le véritable drame dont le héros !
doit faire le deuil.

Comme le dit Godard dans le film en compétition (dont on parlera demain) : "Un jeune, on sait ce que c'est ; un vieux aussi ; mais un adulte ? Un adulte : c'est rien." Ce rien, absence de définition, stase prolongée, voilà le pivot autour duquel tourne Moretti. Cette contrainte explique peut-être ce qui l'a obligé, en dépit de sa présence chronique à l'écran, à présenter un film sans propriétaire. On a quitté le divan, le point de vue ne se nourrit plus des monologues et des délires si familiers à ses autres films ; la caméra, légèrement décalée, se place désormais du côté de l'écoute flottante, neutralisante, dédramatisée, qu'est celle de l'analyste. Le psy ne renvoie pas ici au Freud égyptologue, déchiffreur d'énigmes exemplaire, ainsi qu'Hollywood en a si souvent usé, mais à une fonction plus modeste. Le psy-Moretti ne résout rien, il ne guérit personne ; il a abandonné les habits du missionnaire, la soutane du prêtre de La Messe est finie, le maillot!
 de champion de waterpolo de Palombella Rossa, il a un métier, !
sa tâche, celle de se tenir en retrait.
Fabriqué pour l'essentiel d'accumulation de détails très discrets, que le montage fait se succéder presque mécaniquement et sans surprise, le film affiche un souci vaguement halluciné de construction. A l'égal des scénarios que crée le refus de la violence hasardeuse du réel (ainsi l'enquête désespérée de Moretti dans le magasin d'articles de plongée au sujet de la valve d'oxygène défaillante), celui de La Chambre du fils confesse sa soumission au vibrato d'une basse continue. Sa clef ? Laquelle, sinon la figure obligée du cercle concentrique ? L'ammonite fossile que dérobe son fils, de schématiques spirales sur un poster dans la chambre, la plupart des hantises de ses patients dont la fonction allégorique est manifeste, mais aussi de nombreux flash-back reconstruits et presque surprenants venant de qui s'est toujours soustrait aux règles traditionnelles d'écriture, tout cela tourne en rond et accentue le vertige carcéral du surplace.
Stanza del figlio : stanza, en italien, désigne la chambre, mais renvoie aussi, comme Moretti le rappelle lui-même dans un entretien, à un genre poétique, et plus largement à la versification elle-même, qui trouve son étymologie dans le sillon que trace patiemment le cultivateur, zigzag à l'allure apparemment inféconde. Que sur la plage, enfin libérée par Ariane du démon de la mélancolie, la famille trace, hagarde, des circonvolutions erratiques ne rend pas hommage à la suprématie paranoïaque de l'El de Bunùel. Tout au contraire, c'est davantage, foulé à même le sable, l'art poétique de tout le film, étrangement signé d'un collectif, qui clôture le drame : s'arracher à l'infernale circularité ne consiste pas seulement à retrouver la lumière, encore faut-il aussi, suggère ce pseudo happy ending, en réécrire, ligne après ligne, plan après plan, le désastre. Dont acte. On peut enfin refermer la porte de la chambre aux trésors attrayants mais morbides.
Maîtrise de la douleur, acceptation conclusive, et reconduite, de l'irréversibilité du temps, c'est à une morale à mi-chemin de la psychanalyse et du souci de soi stoïcien que nous invite Moretti. Reste qu'il n'est pas sûr que ce retour à l'exaltation de vertus antiques nous soit d'un quelconque secours. Certes, bien calé dans les sièges de l'émotion, admiratif de l'évidente prouesse narrative, nous voilà néanmoins atteint de scepticisme : de la chambrée d'adolescent à la plage de l'éternité retrouvée, n'assisterait-on pas au seul spectacle d'un artiste fatigué d'avoir à témoigner de l'affolement du présent ? Après les approximations cuisantes d'Aprile, Moretti aurait-il décidé de se travestir en philosophe ? Pour notre part, manque à l'auteur de cette superbe démonstration l'essentiel de son talent : l'insolence du doute, la joie inentamée de la critique de l'époque. Est-ce à dire que celle-ci, le siècle fini, aurait déjà échoué sur la grève ?

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