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 recensioni critiche dei film dell’ultima stagione

 

- ROSE E ROSPI, L'AMERICA PIOVE DAL CIELO (American Beauty e Magnolia) F.Losavio) 

- THE  BLAIR WITHC PROJECT: Ovvero il fuori campo come morte (F. Patrizi)

- AL DI LA’ DELLA VITA di Martin Scorsese: La morte controllata (F. Patrizi)

- IL MISTERO DI SLEEPY HALLOW di Tim Burton (F. Patrizi)

- LA NONA PORTA di Roman Polanski: Un discorso sulla luce (F. Patrizi)

 

ROSE e ROSPI, L’AMERICA PIOVE DAL CIELO

di Francesco Losavio
 
American Beauty e Magnolia

I due film americani più premiati di questa stagione sono un’occasione pere alcune riflessioni sullo scrivere un film a Hollywood.

Sinossi

American Beauty e Magnolia, ovvero Shakespeare e Freud (aggiornato da una rilettura di Jung), ovvero ancora completa e assoluta finzione, ovvero Hollywood.

Scrivere / Shakespeare 

Shakespeare e Freud, il discorso-cinema hollywoodiano non riesce a fare a meno di queste eredità culturali, sono la radice di ogni sceneggiatura americana, lo strato profondo di quello che vediamo sullo schermo. La “potenza” di un buon film di Hollywood nasce, quindi, nella scrittura. E questa potenza ad altissimo voltaggio è generata dal “sub-text”, dal sotto testo, da quello che c’è dietro le parole, ciò che “realmente” i personaggi dicono parlando di altro… ovvero la grande lezione dei dialoghi Shakespeariani.

American Beauty

Nulla è ciò che appare. La “normal life” di Lester/Spacey, protagonista di American Beauty, è solo una maschera congelata che nasconde pulsioni distruttive. Tutti interpretano un ruolo, fingono, si nascondono in una finzione necessaria, “conditio sine qua non” per vivere dei rapporti sociali normali. E se qualcuno getta giù la maschera per svelare la verità… allora è destinato alla distruzione; così Lester, ennesimo personaggio tragico del cinema americano. Lester è un “morto” che parla, e ci racconta la sua storia (come in Sunset Boulevard), è colui che ha visto la verità che sta dietro le cose. Ma il prezzo da pagare per sfuggire alle maschere, è morire. Noi spettatori moriamo con lui, vediamo con lui la verità, cioè viviamo una catarsi, ovvero il luogo del tragico (non a caso i due ragazzi Jane/Birch e Ricky/Bentley vedono nella morte la bellezza, perché solo nella morte è la verità), American Beauty è una tragedia “Shakespeariana”.

Freud/Jung

 A essere coinvolti in questo corto circuito non troviamo più re o principi ma il nucleo della nostra società, la famiglia. Famiglia significa conflitto padre-figlio, ma anche libido repressa, desiderio inconscio, frustrazione, impotenza, quello che sta dietro l’apparenza, dietro la maschera. In America non si riesce più a prescindere dalla psicologia, ogni rapporto tra i personaggi sembra essere prima “analizzato” e poi scritto. Dopo Freud il dramma moderno americano non è stato più lo stesso, e Jung e la teoria dell’inconscio collettivo ha contribuito ad accentuare questo aspetto, universalizzandolo.Per cui quello che Lester scatena è un abisso che rischia di risucchiare tutti, la normalità potrà tornare solo con il sacrificio di chi ha aperto la falla, di chi ha risvegliato ciò che era represso: nell’ultima scena non è solo il colonnello Fitts a premere il grilletto, ma attraverso un abile montaggio, tutti i personaggi del film. 

Magnolia

In Magnolia il discorso è molto simile e allo stesso tempo molto diverso. Al centro delle nove storie che si intersecano è sempre il rapporto genitori-figli; la “potenza” della sceneggiatura è ancora una volta nel “sub text”; ma la tecnica di scrittura di Anderson è molto più raffinata di quella del regista Menders. L’autore di Boogie Nights scardina lentamente la maschera dei rapporti sociali tra i suoi personaggi, attraverso un lavoro di sgretolazione/rivelazione. Il sotto testo è profondamente sepolto all’inizio del film, tutti i personaggi sono coinvolti nel loro ruolo, nella loro finzione… ma più la storia va avanti e più affiora qualcosa da dentro di loro. Anderson “scopre” i suoi personaggi per gradi, fino a mettere in scena un climax dove sono tutti “nudi”, senza più protezione, la verità che stava dietro l’apparenza esplode “distruggendo” tutto (“Ora che ci siamo detti la verità che ne dici se non ci vediamo mai più!” urla uno dei personaggi del film). Ma, sebbene diverso nei contenuti, i punti di riferimento sono anche qui la scrittura tragica di Shakespeare, e le teorie psicoanalitiche del novecento. American Beauty e Magnolia sono due variazioni dello stesso tema, ma vediamo più da vicino le sceneggiature. 

Perfezione/Imperfezione

American Beauty ha sicuramente più equilibrio, lo script di Alan Ball è tecnicamente perfetto (e per questo ha vinto l’Oscar), quasi un “classico”; Magnolia è verboso, a volte retorico, prolisso, ma il tessuto narrativo costruito da Anderson è più seducente. Nella sua discontinuità Magnolia ha dei momenti di cinema davvero straordinari, dei “punctum” illuminanti che compensano altri momenti più stanchi, ma è questa discontinuità a renderlo più accattivante (“La perfezione stanca” direbbe Rohmer).

Rose e Rospi

Tutti e due i film, inoltre, sono costruiti sulla “rivelazione”; ed entrambi risolvono questa “figura narrativa” in un immagine singolarmente simile, un fiore: la rosa rossa in American Beauty, figura sensuale e morbosa, ma anche di equilibrio e di bellezza perfetta (la normalità e allo stesso tempo la sensualità che si nasconde dentro); e la Magnolia, un fiore che dal bocciolo si schiude, aprendosi in tutto il suo splendore diffondendo un odore acutissimo (lo stesso movimento narrativo svolto dal film).Ma mentre in American Beauty è sempre la rosa che si sfalda in una pioggia di petali… in Magnolia a cadere dal cielo è una violenta tempesta di rospi (di biblica memoria).Due grandiose idee visive che inquadrano i due film su due livelli diversi, uno individuale e l’altro universale… sono entrambe due immagini di “caduta”, ma il merito di Anderson, scrittore e regista di Magnolia, è quello di spiazzare lo spettatore, svegliarlo per un attimo, non c’è catarsi in Magnolia ma straniamento.

Finzione

Magnolia e American Beauty sono due ottimi esempi di un cinema di certo interessante e coinvolgente, un cinema “potente”, spettacolare e profondo, che riesce a sembrare sempre diverso pur parlando sempre della stessa cosa, è in questo la straordinarietà del cinema americano.Un cinema che rispetto a quello europeo si pone sempre come finzione, difficile definire un personaggio di un film americano come “reale”, può rinviare alla realtà, ma in sé è sempre un personaggio, un elemento della finzione. I film americani nascono sempre da meccanismi narrativi, mai dalla realtà stessa… ma nonostante questo riescono sempre a dirci tantissimo su quella realtà. “L’America non esiste, io ci sono stato” recita la battuta di un film di Resnais.

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THE BLAIR WITHC PROJECT

Ovvero il fuori campo come morte

 di Francesco Patrizi

 Il film rimanda, a prescindere dalla consapevolezza degli autori, all’essenza stessa del fuori campo cinematografico. Senza entrare nel merito della trama, si può considerare “The Blair Witch Project”  come un piccolo saggio (involontario) sulla dialettica campo/fuori campo. Per fuori campo si intende tutto ciò che non rientra nell’inquadratura, tutto ciò che è escluso dalla visibilità, ma di cui si avverte la presenza. Nel film in questione il fuori campo relativo, cioè il proseguimento spazio-temporale logico, deducibile e intuibile, dell’inquadratura (ad esempio il percorso lasciato alle spalle, cosa c’è dietro i cespugli o nel buio…) lascia il posto ad un fuori campo assoluto, astratto; un fuori campo “agente” che si denota come minaccia oscura, come indeterminatezza, come morte. In contrapposizione, l’inquadratura si valorizza come “luogo protetto”, come “cerchio magico” dove la visibilità coincide con la conoscenza e con la vita. Il fuori campo assoluto, ovvero lo spazio non visto che incombe sull’inquadratura, è stato valorizzato dai vari registi, nel corso della storia del cinema, come allusione a ciò che non si può conoscere (vedi il cinema di Tarkovskij), come negazione e limite della ratio (vedi Kubrick), come rovesciamento linguistico (vedi Bunuel), come luogo della mente (vedi Bergman), come trascendente (vedi Bresson)... In “The Blair Witch Project”, ma il discorso è valido per il genere thriller in sé, il fuori campo assoluto, nella sua scarna essenzialità e nella sua elementare funzionalità, implica delle riflessioni sulla natura semantica dell’immagine cinematografica come luogo del visibile, gettata nella relatività, nella provvisorietà del divenire storico; l’inquadratura come ricreazione fittizia e ordinata del mondo, come volontà e auto-rappresentazione del logos. Spazio teorico in contrapposizione dialettica con il fuori campo considerato, nella sua valenza originaria, come “limite” della conoscenza e, quindi, della vita, come il lato oscuro insopprimibile, come l’inconscio dell’inquadratura-logos. Al di là dei dibattiti sull’evento spettacolo, “The Blair Witch Project” può implicare delle riflessioni sul tema della morte come “ciò che non si può vedere”, una considerazione che, rapportata alla nostra civiltà dell’immagine, suggerisce implicazioni di carattere antropologico e filosofico (l’immagine è la vita!). Per chi sa vedere il cinema come un’espressione dei tempi, “The Blair Witch Project” rappresenta una testimonianza interessante, un’opera in cui, involontariamente quanto inevitabilmente, si rispecchia la società del ventesimo secolo.

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AL DI LA’ DELLA VITA di Martin Scorsese

La morte controllata

 di Francesco Patrizi.

 L’oggetto simbolico su cui verte l’ultimo film di Scorsese è il Corpo. Un Corpo in decomposizione, malato, forse già morto, proiettato inesorabilmente verso la dissoluzione, il cupio dissolvi. I corpi degli emarginati, dei malati, dei barboni, si trascinano per le strade avviluppati da una fotografia tutta giocata sui contrasti tra il nero assoluto e i lampi di luce improvvisi; una fotografia che riesce a far rispecchiare i corpi sull’asfalto bagnato, dotando ogni singolo corpo di un suo doppio, di un suo fantasma, un’intuizione visiva che ci introduce ad una lettura profonda del film: i corpi rappresentano, per sineddoche, il tessuto urbano, la città considerata alla stregua di un organismo vivente, malato, agonizzante. La scena onirica in cui Nicholas Cage ripesca le anime sprofondate al di sotto dell’asfalto rende bene l’idea visiva della città come organismo che fagocita, inghiotte e sputa fuori. Un mondo dove non c’è traccia di al di là o di redenzione, dove la spiritualità sta tutta nella coscienza di questo eterno limbo immanente. L’idea del film ci presenta un medico di guardia, Cage, il quale, per motivi di coscienza, decide di espiare le sofferenze altrui: il vero climax del film è nella scena in cui Cage si sostituisce all’infartuato (il padre della ragazza di cui è innamorato); quello spostare meticolosamente sul proprio corpo i fili che controllano il battito cardiaco dell’uomo mostra con inequivocabile chiarezza lo scambio simbolico tra i due personaggi e la loro sotterranea simbiosi: l’uno, Cage, combatte per salvare la propria vita, l’altro, l’anziano, lotta per morire. Ma a ben guardare i pensieri ad alta voce del malato sono, in realtà, i pensieri di Cage, e, quindi, sue sono le conclusioni che lo portano a scegliere la morte alla lotta per la vita: in questo consiste lo scambio simbolico tra i due personaggi, Cage si serve del malato per “morire”, per ottenere una morte con libera scelta, con determinazione, volontariamente, non come una resa, ma come una vittoria. Cage conquista il sogno dell’uomo moderno: la morte “controllata”, sottomessa! Il film ci parla di un istinto di sopravvivenza (quella spinta istintuale e incontrollata che anima la vocazione contrastata di Cage) estremamente vicino, affine e compenetrato con un lucido cupio dissolvi, una insolubile tendenza all’autodistruzione. Più che un discorso sulla vocazione della medicina o uno spaccato sociologico, il film restituisce una visione del mondo dove la morte non è il “dopo”, la “fine”, ma la condizione di un atemporale e sospeso girovagare.

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IL MISTERO DI SLEEPY HALLOW di Tim Burton

Il retroterra della fiaba 

di Francesco Patrizi

 Tim Burton rivisita la fiaba con il gusto della parodia colta e con l’occhio puntato sulle radici antropologiche del genere fantasy, non solo per il misto di credenze pagane, di stregoneria e di cristianesimo che sorregge lo spirito della vicenda, ma, più che altro, per le intuizioni visive. Sin dalla prima scena, la testa mozzata nel campo di grano si richiama ai riti propiziatori della “cultura contadina”; la scena poi dell’albero che “partorisce” il cavaliere senza testa rimanda a quel miscuglio di credenze tipiche delle subculture arcaiche che considerano la terra come un organismo vivente e pensante in tutto omologo all’uomo, da cui il campo da arare e seminare come un corpo e il bosco visto come incognita, luogo di smarrimento, limbo sospeso tra la vita e la morte, ovvero come metafora della sessualità. Assai colta e attenta è la scelta dell’albero che partorisce il cavaliere, come un ventre malato, minato da un’infezione ovarica; la malattia, nel sistema semiologico della fiaba, allude sempre ad una colpa; nella rielaborazione allegorica della subcultura arcaico-contadina, la malattia-colpa comporta una sospensione del tempo e delle leggi della natura. La colpa che possiamo evincere dalla storia non è tanto quella di aver turbato il riposo eterno del cavaliere, quanto quella, molto più metaforica e allusiva, di aver “usato” un criminale per coprire i propri loschi intrighi! (come a dire: alla comunità fa sempre comodo individuare in un criminale sanguinario e irrazionale, e, in questo caso, soprannaturale, il capro espiatorio delle colpe della buona borghesia!). L’intuizione visiva di Tim Burton è quella di considerare, alla stregua delle credenze arcaiche, la terra omologa all’uomo; le riesumazioni operate da Jhonny Depp hanno tutta l’aria di una biopsia, di un’analisi del tessuto carnoso corroso dal male; i cadaveri riportati alla luce sono “rigetti” del corpo-terra, le infezioni da studiare e da estirpare.Il film si presenta, soprattutto, come una rilettura antropologica e etnologica competente delle tradizioni popolari e del genere fiabesco. Tim Burton ha colto lo spirito profondo del genere fantasy con occhio postmoderno, ovvero, con la capacità di valutare, rievocare e re impiegare criticamente un retroterra culturale ricco e stimolante.

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LA NONA PORTA di Roman Polanski

Un discorso sulla luce

 di Francesco Patrizi.

 Più che la storia in sé, che lascia in secondo piano, se non proprio esclude tentazioni di letture simboliche, a Polanski interessa filmare la luce. Gli scorci delle città, gli interni, le vedute, sono mostrati più volte sempre con tonalità differenti e con stati d’animo differenti, come a dire che la fotografia, l’intensità e il calore della luce siano il vero “specchio dell’anima”. Sono la fotografia e il montaggio, quest’ultimo capace di rendere un tempo assolutamente sospeso, a rendere lo smarrimento del detective interpretato da J. Depp come una più generale, profonda e metaforica perdita di prospettive. La scena più rappresentativa è forse quella in cui il detective, seduto all’interno di un caffè parigino, osserva dalla vetrina del locale l’uomo che lo sta pedinando; il passaggio dal giorno al crepuscolo, il cambiamento di luce e il momentaneo colpo di sonno del protagonista (da leggere in chiave simbolica come il passaggio dalla visione razionale al regno del sogno!), capovolgono la situazione: la vetrina da trasparente è diventata auto riflettente, l’esterno non è più visibile e la luce rende l’ambiente diverso da come era prima, da rassicurante e protetto, a inquietante e pericoloso. La vicenda narra della ricerca di una chiave d’accesso che permetta di trascendere la quotidianità per accedere a poteri soprannaturali.  L’attività che impegna il detective per tutto il film è scovare, dentro immagini simili, le sottili e inavvertibili differenze, gli scarti, i segnali. Un discorso che si riflette nel tessuto visivo del film, il quale ritorna su luoghi uguali per riproporli sotto una luce differente. Polanski tralascia l’andamento della storia per trasferire l’inquietudine alla fotografia, che rende ogni colore indefinito e mutevole. Dietro alla storia luciferina, l’ultimo film del regista polacco nasconde l’idea di un mondo inafferrabile e in eterno, irrefrenabile, cambiamento.

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