Intervista all'autore, Ugo Lucio Businaro
Un saggio sul Progresso. Non è un po’ retrò? Non sa di ritorno all'ingenuo positivismo ottocentesco?
Forse quello è stato il punto di partenza. Non tanto quando ho cominciato seriamente a riflettere sul progresso, ma all'inizio della carriera professionale. Allora avevo ingenua e completa fiducia nella ineluttabilità che le scoperte sulla fissione dell'atomo avrebbero portato energia a basso costo per tutti. Bastava conoscere la fisica e la matematica per partire. Con un po’ di soldi e di buona volontà saremmo arrivati rapidamente alla realizzazione di centrali nucleari. Poi, man mano che procedevo scoprivo le difficoltà. Le imputavo, tuttavia, non tanto all'ingenuo approccio quanto al nostro italico provincialismo. In altri Paesi, con mentalità e strumentazioni sociali più adeguate le centrali si realizzavano. E come!
Poi, prima che esplodesse la crisi nucleare, lasciai il settore. Troppo nuovo per le nostre provinciali mentalità. Entrai in quello dell'auto.
Un bel salto, non c’è che dire, dal nucleare all’auto. Già così disilluso dal progresso?
Non proprio. Era quello un momento in cui nell’auto vi erano sfide (energia ed ambiente) che richiedevano un più accelerato sviluppo innovativo. Ci entrai con lo stesso entusiasmo e fiducia che si potessero fare grandi passi in avanti. Questa volta il mio approccio partiva dall'alto, dal prodotto - dal sistema globale - per definire attraverso la pianificazione gli obiettivi di innovazione, le cose da fare, le linee direttrici di ricerche sulle parti componenti per arrivare ad innovare il tutto.
Nel caso nucleare le idee di ricerca erano ben chiare e le difficoltà mi sembrava provenissero solo dall'alto, dal sistema socio-economico. Nel caso dell'auto mi accorsi presto che non basta porsi obiettivi chiari perché ne segua un programma di ricerca con cui raggiungerli rapidamente. Là era il tutto che resisteva alle spinte di cambiamento dal basso, qui era un po’ il contrario.
Riflettendo, non potevo non considerare le mie due esperienze come due sconfitte. Da qui il cercare di capire cosa non aveva funzionato nell'approccio all'innovazione che pensavo fosse razionale. Se poi ho messo su carta le riflessioni sul progresso, non mi pare proprio di essere stato mosso dallo stesso spirito di glorificazione caratteristico del positivismo ottocentesco. Volevo invece cercare di capire se esistesse un modo per affrontare il problema che non fosse altrettanto semplicistico, che tenesse conto della complessità del sistema - della interazione del tutto sulle parti e viceversa - e che permettesse un approccio ragionato al problema di gestire il progresso tecnologico.
Se non è ingenuo positivismo è tuttavia la ricerca di una visione positiva. Può indicare ora un approccio che non sia semplicemente riconoscere la complessità del fenomeno?
Intanto ho capito meglio le ragioni e le speranze dei riduzionisti, quelli che pensano che il vero problema per capire il mondo sia trovare le leggi elementari - magari un'unica legge - da cui tutte le altre derivano. Ho capito l'importanza dell'analisi, di rompere il complesso nelle sue parti per cercare di capirlo. Ma poi, se si cerca di ricostruire il complesso dalle leggi elementari - fare, e non solo conoscere - le cose si complicano.
Per affrontare razionalmente il fare, occorre allora l'approccio contrario che premia il tutto, l'approccio olista?
Purtroppo no. Per modificare il tutto occorre agire sulle parti componenti e la visione globale non serve molto per capire come ottenere i cambiamenti voluti.
D'altra parte anche se ci si limita al solo problema del conoscere, l'analisi ha i suoi limiti. Non ci permette - se il sistema è sufficientemente complesso - di predirne i comportamenti globali partendo dalle leggi che governano le parti. Basta pensare ai sistemi viventi. In questo caso è vero che le approfondite conoscenze sul DNA, offrono grandi speranze di operare per risolvere problemi dati. Ma non sono da trascurare le preoccupazioni sulle conseguenze impredicibili.
D’altra parte, se vincesse la razionalità riduzionista, il futuro finirebbe per non avere incognite. Siamo preparati ad accettare un visione deterministica del futuro? Non dimentichiamo che il nostro specifico interesse è, più che la conoscenza per la conoscenza, la conoscenza per ridare fiducia nell’azione dell’uomo come costruttore. Mal si concilierebbe questa fiducia con una visione deterministica, anche se di nuovo tipo.
Avrebbero quindi ragione gli ecologisti, i verdi, quelli che vogliono lasciare fare alla natura?
Se mi fossi convinto di questo avrei subito smesso di scrivere un saggio sul Progresso. No, a me sembra che una speranza di approccio razionale ci sia. Credo si possa uscire dal dubbio e nel contempo risolvere il paradosso tra attività conoscitiva ed azione - tra la conoscenza che si basa sull’analisi che distrugge il sistema separandone le parti e l’attività creativa che deve invece cogliere le forme globali del sistema ed in esse inserirsi.
Una nuova ricetta sul progresso?
Non esageriamo. Una ipotesi ragionata, sì. L’ipotesi è che il processo conoscitivo-attivo sia quello tipico del gioco.
Mi sono servito della metafora di un gioco in cui le regole cambiano mentre si gioca. In fondo, proporsi di modificare il sistema - di innovare il mondo degli artefatti - in modo razionale non vuol dire farlo progredire in modo determinato. Si vuole solo che alla fine si possano pesare i vantaggi realizzati nelle direzioni desiderate. L'importante è vincere la partita. Si può vincere in modo più o meno brillante, purché si vinca. Per questo esistono tattiche e strategie che vanno apprese. E l'una e l'altra cambiano strada facendo, mentre il gioco procede. Tanto più se è un gioco auto-organizzante in cui cambiano le regole perché il sistema che vogliamo modificare non sta fermo, reagisce.
Per giocare bene occorre conoscere le regole del gioco e prepararsi al loro cambiamento. Si può imparare a giocare a scacchi, ma non basta imparare le regole (l'equivalente delle leggi elementari per i riduzionisti). Per vincere occorre, mentre la partita si sviluppa, saper cogliere le forme, le globalità, la bellezza del gioco che si sviluppa. Il bravo giocatore è un miscuglio di comportamenti riduzionisti (esprit geometrique) ed olisti (esprit de finesse).
Né riduzionismo né olismo, ma semmai una loro combinazione con in più l'idea di gioco. Ma come si impara a giocare al progresso?
Osservando come si comportano altri sistemi complessi sotto i nostri occhi, e generalizzare il loro comportamento a tutti i sistemi complessi ed aperti. E molto si può imparare da un sistema ampiamente studiato, il sistema del vivente.
Imparare da Darwin?
Non solo da Darwin, ma dalla più complessa visione dell'evoluzione biologica che ne è seguita. Dallo studio della descrizione del progresso del vivente che danno paleontologi, biologi, microbiologi, viene naturale trovare analogie, tessere corrispondenze. Capire ad esempio come avviene il processo di creazione di nuove specie - l'isolamento geografico di popolazioni, o il trasporto di femmina gravida in un nuovo ambiente o l’interazione di specie vicine nello stesso ecosistema - porta immediatamente ad analogie nella storia dell'innovazione tecnologica. Io stesso, se ho dato un qualche contributo allo sviluppo dell'innovazione dell'auto, forse l'ho potuto fare proprio perché provenivo da un settore del tutto diverso. E la strategia aziendale, quando ha voluto assicurarsi la generazione di idee innovative forti, non ha forse favorito l'isolamento dei laboratori di ricerca centrali in un ambiente separato e diverso da quello della produzione? Si veda, per fare un solo esempio, il caso dei Central Laboratories della General Electric.
Del resto la potenza del paradigma dell'evoluzione biologica è ben chiara negli studiosi del processo di sviluppo delle conoscenze scientifiche e dell'innovazione tecnologica. Basta pensare a Popper ed al meccanismo da lui descritto - generazione di teorie / confutazione / nuove teorie - per il progresso delle conoscenze scientifiche. E' un darwinismo semplice. Difficile poi non trovare analogie tra i paradigmi di Kuhn ed il processo di speciazione biologica. Ma anche in uno studioso più specificamente del sistema tecnico, come Bertand Gille, non mancano i riferimenti alle analogie biologiche e paleontologiche.
Un proficuo confronto interdisciplinare, dunque. La ricetta sarebbe guardare alla biologia per capire come gestire il progresso, la tecnologia?
Solo perché il sistema vivente è stato molto ben studiato. Ma poi occorre chiederci perché mai la dinamica del sistema vivente dovrebbe servire da paradigma per un sistema completamente diverso come il mondo degli artefatti. In effetti colpisce l’analogia della dinamica con cui i diversi sistemi si sviluppano. Sia utilizzando un filtro di lettura della storia polarizzato - per via del punto di vista particolare limitato con cui la si guarda (storia della scienza, storia della tecnica, storia dell'arte, ecc. ) - sia utilizzando approcci più omnicomprensivi, sempre si nota uno schema di sviluppo analogo a quello con cui si sviluppa il mondo del vivente: crisi, espansione, maturità, saturazione, nuova crisi, nuova partenza del ciclo. Da ogni crisi o rivoluzione successiva, nasce una nuova capacità di guardare o costruire un mondo che nel frattempo è diventato più complesso, ma anche più intelligente, più capace cioè di gestire situazioni complesse grazie ad una più elevata capacità di gestire informazioni. Una caratteristica comune all'evoluzione biologica verso esseri sempre più complessi in parallelo ad uno psichismo crescente.
Che cosa può accomunare due sistemi così diversi come il mondo della biologia e quello degli artefatti?
Li accomuna l'essere ambedue sistemi complessi aperti, che scambiano cioè informazioni, materiali ed energia con l'ambiente. Sistemi formati da sotto-sistemi formati da sotto-sistemi, ciascuno con una propria identità e finalità, in grado di reagire direttamente con l'ambiente esterno oltre che con gli altri sotto-sistemi del sistema cui appartengono.
Occorre chiederci: che cosa, in questa complessità e varietà di comportamenti delle parti, caratterizza il sistema come un tutto? Che cosa fa sì che un sistema aperto e complesso, malgrado le trasformazioni interne ed esterne, riesca a mantenere una sua individualità, unitarietà? Il fatto di avere una struttura, una gerarchia, un'organizzazione, di rispondere ad progetto?
Se si riesce a definire - diciamo topologicamente - la classe dei sistemi aperti e le loro caratteristiche, non dovrebbe destare meraviglia che poi si scopra un loro unitario comportamento dinamico. Ecco allora come l'esame di un sistema particolare che appartenga a quella classe possa diventare paradigmatico.
Ma basta il fatto che il sistema del vivente ed il mondo degli artefatti siano ambedue dei sistemai aperti?
Occorrerà anzitutto capir bene che cosa sia un sistema aperto e come lo si caratterizza. Poi verificare che il mondo degli artefatti sia veramente tale. Solo allora prenderà forza l'affermazione della condanna al progresso come la nostra sfida principale. Ma non vorrei anticipare…
Mettendo insieme le varie idee mi sembra che ci siano tutti gli elementi ora - un modello, una metafora - per procedere più sistematicamente nel capire anzitutto come si sia sviluppato il mondo dei prodotti. Ed anche in questo caso, come per l'evoluzione biologica, possiamo usare diversi punti di vista: guardare da lontano, attraverso i tempi - come un paleontologo - le linee generali dello sviluppo dei prodotti; o cogliere gli aspetti di cambiamento nella nostra scala di tempi - come un biologo - per capire sul nascere il sorgere di nuovi prodotti o le loro modifiche, con la speciazione; od infine - come un microbiologo - scendere alla base stessa del progresso tecnico, cercando di comprendere i meccanismi della innovazione tecnologica.
Ed è questo percorso, guardare al mondo dei prodotti con ottiche temporali diverse , che ha cercato di seguire nel suo saggio?
Sì. Ho cominciato con esaminare la paleontologia dello sviluppo degli artefatti. E guardando attraverso la storia della tecnica è difficile non notare la dinamica fondamentale di cui dicevo: verso una complessità crescente in parallelo con la crescita delle conoscenze sia pratiche che scientifiche.
Ma allora, se è cresciuta la complessità dei prodotti, l'uomo moderno che li usa deve essere più intelligente che nel passato?
Mi pare difficile pensare che l'uomo moderno sia più intelligente dei contemporanei di Platone, anche se riesce a guidare un jet supersonico. Se si confrontano le opere di pensiero, filosofia, arti, non si nota vi sia stato nella storia un grande sviluppo delle capacità intellettuali dell’uomo. Platone è un gigante intellettuale che non sfigura rispetto ai suoi moderni colleghi.
Qual è allora il trucco?
Una prima riflessione importante la creatività. Gli animali per modificare l'ambiente a loro favore non mancano certo di creatività. Quello che tuttavia distingue l'uomo è la capacità di trasferire esperienze e conoscenze ai posteri, in qualche modo impacchettandole, così che si possano usare senza dovere ogni volta ricominciare da capo. Si può imparare in poche ore a fare oggetti di plastica senza conoscere niente di chimica organica. Le conoscenze relative sono impacchettate nei materiali e nelle macchine oltre che nei manuali di istruzione.
Ma anche questa di vedere il progresso come una costruzione complessa che trova via via modo di semplificare le tappe future attraverso l'impacchettamento in mattoni - usati come semplici elementi di costruzione mentre in realtà sono essi stessi sistemi complessi - non l'ha certo inventata l'uomo. Sembrerebbe esistere una logica della conoscenza e dei prodotti della sua applicazione, simile alla logica del vivente di cui parlano i biologi per cui gli esseri viventi si costruiscono attraverso una serie di impacchettamenti (aminoacidi, cellule, organi).
Un'altra caratteristica generale del progresso, sarebbe allora quella dell'impacchettamento delle conoscenze?
Certo. Ma qui esce fuori un'altra riflessione. Se questo modo di procedere verso complessità crescenti - semplificando l'uso delle conoscenze pregresse impachettandole - vale per gli artefatti, non dovrebbe valere anche per la scienza, per la filosofia, le arti? Per la scienza l'idea è accettata. Esiste un progresso della scienza che si costruisce via via sulle conoscenze passate, anche attraverso delle rivoluzioni scientifiche - i paradigmi di Kuhn - che semplificano e rendono più coerente il quadro. Ma si può parlare di progresso per le arti, per la filosofia?
Estendere il concetto del progresso alle arti? Mi sembra suoni un po’ eresia.
Qui usciamo dal mio seminato. Tuttavia, sia pure in modo fortemente speculativo una riflessione mi sembra si possa fare alla luce delle caratteristiche della dinamica di sistemi aperti complessi, a struttura gerarchica, formati da sottosistemi fatti di sottosistemi. Innanzi tutto generalizziamo il concetto di prodotto. Non solo gli artefatti per uso pratico ma quelli per uso edonistico o speculativo di pensiero: arte e filosofia.
Guardando al sistema aperto uomo e suoi prodotti si può identificare una struttura gerarchica. Al livello più basso troviamo il sotto-sistema homo faber che opera per applicare le conoscenze scientifiche od empiriche attuali. Al livello superiore, il sotto-sistema uomo scienziato che utilizzando i prodotti resi disponibili dal sotto-sistema inferiore e vincolato dalle ideologie esistenti (paradigmi scientifici inclusi), espande la frontiera delle conoscenze scientifiche. Infine il sotto-sistema uomo filosofo (o teologo?) che cerca di comprendere le basi stesse del pensiero umano.
Ciascuno dei sotto-sistemi dovrebbe avere un suo ciclo di rivoluzione innovativa. I tempi corrispondenti dovrebbero essere tuttavia diversi: più brevi quelli dell’innovazione tecnologica, intermedi quelli dei paradigmi scientifici. E perché allora non considerare che esistano anche cicli innovativi socio-culturali? Naturalmente con durate più lunghe del ciclo. Verrebbe così a cadere l'apparente contraddizione che nel mondo della filosofia e delle arti si ricominci ogni volta da capo.
Ma vorrei fermarmi qui con la speculazione sul progresso delle arti. Torniamo alla paleontologia della tecnica.
Può spiegare meglio cosa intende per paleontologia della tecnica?
Non è solo il guardare lo sviluppo dei prodotti e della tecnologia su archi di tempo lunghi. In analogia con la paleontologia biologica si tratta di scoprire quali sono i phyla tecnici principali, le ramificazioni filetiche successive. In realtà è in gran parte un lavoro da fare. Si possono dare oggi solo alcune indicazioni generali.
I primi paleontologi ebbero certamente il problema di alternative nel classificare gli esseri viventi. Oggi vale altrettanto per chi cercasse di dare una classificazione del mondo degli artefatti. Con quali criteri definire che cosa caratterizza un ramo filetico tecnologico? Quali le alternative? Si può ad esempio considerare la funzione svolta dal prodotto. Così, lo sviluppo del phyla arma per procurarsi il cibo può risalire fino alla clava per poi scendere all'arco, alla balestra, al fucile. Oppure la funzione strumento per scrivere, partendo dallo stilo per la tavoletta d'argilla arrivare fino al computer odierno passando magari attraverso la penna d'oca.
Questi tentativi di raggruppamenti filetici dei prodotti possono essere interessanti e divertenti. Ma soprattutto devono essere utili, e lo sono se ci aiutano a prevedere quali saranno gli sviluppi futuri, quali phila si svilupperanno e quali finiranno in un cul de sac.
Può essere più utile cercar raggruppamenti filetici diversi da quelli della funzione utilitaria. Per esempio può essere utile distinguere anzitutto prodotti per uso individuale da quelli per uso collettivo. I secondi (ad esempio le strade) possono aver avuto un effetto di strutturazione dell'ambiente più importante dei primi (ad esempio i calzari).
Può essere interessante d'altra parte classificare i prodotti in funzione della loro durata. Non solo la loro vita utile, ma tutto il tempo richiesto perché possano ritornare ad essere cenere. Un prodotto che al termine della vita utile necessiti di tempi lunghissimi prima di essere completamente riassorbito nell'ambiente, può vedersi pregiudicato il futuro. La difficoltà principale nel fare accettare l'energia nucleare è proprio dover assicurare d'immagazzinare e controllare per migliaia d'anni i suoi rifiuti radioattivi.
Qualche esempio dell'emergere di linee filetiche nuove?
Mi sembra particolarmente interessante sottolineare il settore dei servizi. E' una linea filetica che risale anch’essa alle origini della civiltà. Tuttavia si può notare ora un progressivo raggruppamento di servizi diversi in un unico prodotto che potremmo definire come invisibile. Si veda ad esempio lo sviluppo del package tours. E' un prodotto se non altro perché ha un prezzo, vi è una concorrenza. Ma non ha la visibilità tridimensionale, che so, di un'auto. Che futuro avranno questi prodotti invisibili o soft in rapporto ai prodotti hard? E' possibile imparare qualcosa sul loro ruolo futuro rintracciando le origine filetiche secondo questa loro peculiarità?
Lo sviluppo filetico contrapposto alla caratteristica dinamica dei sistemi aperti?
Non vedo perché. Il sistema degli artefatti, considerato nella sua globalità, ha anch'esso il comportamento dinamico caratteristico dei sistemi aperti. Le linee filetiche potrebbero servire a scomporlo in sotto-sistemi - i vari phyla tecnologici - ciascuno con un proprio sviluppo. Ma molto è ancora da fare in questa direzione.
Molto di più si può invece dire sulle caratteristiche del progresso tecnologico guardandolo più da vicino, così come la biologia ha fatto per lo studio degli esseri viventi. Lo sguardo globale, paleontologico, dell'evoluzione tecnologica ci ha mostrato come il sistema aperto della innovazione tecnologica sia diventato sempre più un sistema complesso formato da sistemi di sistemi, ciascuno con funzioni sempre più specialistiche. E ciò ha portato a sistemi separati per la produzione dei pacchetti di conoscenze, di invenzioni, di innovazione tecnologica vera e propria. Le parole ricerca di base, ricerca applicata, sviluppo sono entrate nel vocabolario comune. Uno studio più ravvicinato porta dunque ad esaminare come si sviluppa il processo conoscitivo ed inventivo in ciascuno di questi sistemi e come la palla passi poi da un sistema all'altro per arrivare infine alla introduzione dell'innovazione tecnologica nel sistema produttivo.
E vi è lo stesso tipo di dinamica per la ricerca di base, per quella applicata e per lo sviluppo vero e proprio?
Sarebbe difficile non aspettarselo dopo quanto si è detto. In ogni caso lo studio dettagliato del processo innovativo ha mostrato che è proprio così. Quello che è interessante notare è la complessa rete di interdipendenze tra i vari sistemi e come influenzi l'andamento del processo stesso. Ad esempio la separazione, anche fisica oltre che culturale, tra chi si occupa di ricerca di base, chi di ricerca applicata e chi dello sviluppo produttivo, fa si che il passaggio del testimone da uno all'altro sia possibile solo quando i tempi sono maturi. Come nello sviluppo biologico molte sono le invenzioni e poche quelle selezionate. Ma le invenzioni non selezionate diventano importanti - immagazzinate in memoria - non solo per un possibile futuro uso, ma perché entrano a far parte del patrimonio di conoscenze generali.
Il processo innovativo procede sempre dalla ricerca di base, a quella applicata, allo sviluppo?
Nel passato certamente non è stato sempre così. Molte delle innovazioni furono basate solo su conoscenze empiriche. E per qualche settore produttivo è stato così fino a tempi recenti. Quando la conoscenza scientifica si incontra con quella pratica si hanno vere e proprie rivoluzioni tecnologiche, si sviluppano settori industriali nuovi. E' stato certamente così per la chimica e l'elettrotecnica nell'800. Oggi è difficile trovare un settore in cui l'innovazione tecnologica non abbia le sue radici nelle conoscenze scientifiche di base. Questo tuttavia ha portato ad una specializzazione crescente ed alla strutturazione di cui parlavamo prima. Vi è comunicazione tra ricerca di base, applicata e sviluppo, ma contemporaneamente anche separazione organizzativa. Il che porta a dinamiche particolari nello sviluppo tecnologico con fenomeni ciclici. Se poi si considera la settorializzazione del mondo produttivo e la interazione con fenomeni socio-economici - ciascuno con dinamiche e tempi propri - difficile non aspettarsi fenomeni ciclici. Quello che è interessante è che sembra consolidarsi una visione di onde cicliche tecnologiche ed economiche della durata di circa mezzo secolo. Questo, in certo modo, facilita la previsione di scenari di sviluppi tecnologici futuri.
Lei si riferisce alle onde di Kondratiev, dal nome dell'economista russo che le ha identificate?
Sì, ed ogni ondata è stata caratterizzata da un grappolo di innovazioni tecnologiche caratteristiche. Ora ci dovremmo trovare nella fase iniziale di un'ondata caratterizzata dalla diffusione delle tecnologie informatiche ed elettroniche.
Mettendo tutto assieme, mi sembra di capire che lei sia ottimista sul fatto che, partendo dalla conoscenza approfondita della evoluzione del sistema tecnico - dalle caratteristiche del suo comportamento, incluso le onde cicliche - si possa predire il suo futuro ed in qualche modo governarlo.
Certamente, osservando l’evoluzione tecnologica, attraverso lo studio della paleontologia del sistema tecnico e della biologia del processo innovativo, molto si può apprendere per predire le strade più probabili in cui essa si svilupperà, e da qui determinare delle strategie migliori per chi ha come mestiere di sviluppare le opzioni tecnologiche. L'obiettivo di pianificare la ricerca o se si vuole di gestire il progresso è meno irrealistico di quanto si possa pensare, sempre che si sia in grado anche di capire il particolare momento storico in cui si opera. La comprensione del sistema globale è importante non solo per chi opera ai vertici del sistema stesso, ma anche per lo specialista. In particolare, il ricercatore industriale, per rendere le sue scelte di ricerca più efficaci, deve disporre di una chiave di lettura del progresso del sistema tecnico che gli permetta anzitutto di capire se i tempi sono maturi o meno per certe innovazioni. Ad esempio, il vivere un periodo di transizione tecnologica è particolarmente stimolante per il ricercatore, perché molte porte sono aperte all'innovazione. Ma occorre essere in grado di comprendere se si sia o meno in un periodo di transizione.
E l'idea del gioco di cui parlava all'inizio, come entra in questo processo di pianificazione del progresso?
Ho insistito nel dare l'idea della ineluttabilità del progresso secondo un certo schema qualitativo, sempre uguale, della sua dinamica. Ho anche insistito sul concetto di gioco perché ci assicura che il futuro è aperto, non predeterminato. Naturalmente senza dimenticare i vincoli che ogni mossa fatta pone sulle possibili alternative. Ma non possiamo non porci la domanda cruciale: è possibile pianificare il futuro, determinare cioè la strada del progresso, tra le tante possibili, e condizionare le singole mosse dei singoli costituenti, in modo che tutto il sistema proceda nella direzione voluta?
Dall’avere idee più chiare sul progresso si può allora pensare di pianificarlo?
L'arte della pianificazione è giovane ed è passata attraverso il mito della pianificazione razionale: definizione degli obiettivi generali da raggiungere, esame di una serie di progetti, scelta di quelli che mostrano dare contributi maggiori agli obiettivi.
La razionalità in rapporto ai fini dei singoli progetti scelti dovrebbe assicurare la massima probabilità di raggiungere detti fini. Ma questa aspettativa razionale può essere frustrata a più riprese, quanto più la pianificazione è volta verso il lungo termine. Ad esempio, un progetto di ricerca, portato avanti con successo, può non dare i risultati attesi, perché i tempi non sono maturi per l'introduzione dei cambiamenti nel processo produttivo. Viceversa, progetti portati avanti senza particolari priorità e successo, possono rappresentare un punto di svolta inatteso per i risultati ottenuti o per le condizioni di congiunzione con altri risultati provenienti da altri progetti, magari svolti all'esterno al di fuori del controllo della pianificazione.
L'osservazione della dinamica del processo innovativo può invece aiutare a sviluppare una diversa pianificazione, più simile a quella adottata per una partita, con strategie e tattiche, via via adattate, secondo ricette standard (tanto più efficienti quanto più esperto è il giocatore) ed invenzioni sul campo. Ad esempio, si può agire sui pacchetti di informazione a disposizione dei vari sistemi che entrano nel processo innovativo. Si può accrescere la probabilità di speciazione per trapianto di ricercatori portatori di patrimoni di conoscenze nuove, da un settore all’altro. Si può agire sulla selezione per facilitare il passaggio di invenzioni rischiose.
Più che di una pianificazione razionale si tratterebbe quindi di predisporre alternative che favoriscano il naturale sviluppo del processo innovativo in atto. Ma siamo sicuri che la direzione in cui sembra andare il cosiddetto progresso ci vada bene, sia socialmente accettabile?
Non si può escludere che la società reagisca alla sensazione di rischio globale, bloccando l’ulteriore evoluzione del sistema tecnico attuale. Se ciò avverrà, andrà considerato come una pausa nello sviluppo del progresso tecnico, pausa che potrà durare anche decenni, ma non essere eterna. Non si vede infatti come l’uomo possa bloccare anche gli effetti di ritorno di quanto ha già fatto per modificare l'ambiente, effetti che lo costringeranno a continuare nella modifica almeno fintanto che non abbia raggiunto l’equilibrio di quello che sarà il suo ecosistema definitivo. Tanto vale quindi non illuderci di potere congelare la situazione attuale che non è di equilibrio naturale, e chiederci invece quale sia il modo migliore per procedere con il progresso tecnico evitando rischi eccessivi di disastri ecologici.
Ma non siamo già ora a rischio di modifiche disastrose del nostro ecosistema?
Non vi sono ragioni per cui l’uomo non debba lui e le sue opere sottostare come gli altri esseri viventi alle leggi dell’evoluzione e quindi alla necessità di adattarsi all’ambiente, di vivere in equilibrio con il proprio ecosistema. Ma quale ecosistema? La terra intera? Il sistema solare? Più ampia la definizione, maggiormente detto ecosistema va visto come un insieme complesso di ecosistemi che interagiscono tra loro, organizzati a vari livelli con effetti di retroazione dovuti ai cambiamenti di uno sull’altro che si manifestano su scale di tempi enormemente diverse: dal secondo, ai milioni di anni. Da questo punto di vista è molto verosimile che l’uomo sia una specie ancora allo stadio iniziale del suo inserimento ed adattamento al proprio ecosistema. Non vi sono apparentemente ancora limiti alla sua fantasia inventiva ed alla applicazione per costruire un mondo di oggetti artificiali con cui modificare a suo favore l’ambiente.
Se si accetta l’idea dell’ineluttabilità del progresso, chi ha maggiori responsabilità nel cercare di gestirlo, il ricercatore, il progettista, il politico?
Certamente la responsabilità tende a divenire più diffusa coinvolgendo non solo i tecnici, i ricercatori ed i progettisti. Tuttavia, dire che tutta la società partecipa alle scelte ed al processo di identificazione, progettazione e realizzazione del cambiamento tecnologico non porta molto lontano se non si riesce a definire i ruoli per i vari attori.
Ad esempio, credo che debba crescere la responsabilità sociale nel definire le specifiche dei prodotti da realizzare. Ed anche qui occorre intendersi. Sarebbe un errore che venissero definite specifiche troppo dettagliate che finiscono per identificare il tipo di soluzione stessa. Prendiamo il campo dell’energia. E’ giusto che la società ponga dei limiti (ad esempio sull’inquinamento) ma sbagliato che identifichi una particolare soluzione (ad esempio il solare) come quella da perseguire. Ci può essere progresso solo se si lascia spazio al meccanismo fondamentale di generazione alternative e di selezione.
In ogni caso la maggiore complessità del sistema tecnico ed il maggiore impatto sull’ecosistema rende più difficile sia il mestiere del progettista, sia svolgere adeguatamente il ruolo dell’utente – rappresentato magari dal politico – nel definire specifiche e limiti. Dovremmo parlare di una complessificazione del processo progettuale stesso che si gerarchizza aggiungendo livelli che potremmo definire di meta-progettazione (la progettazione delle specifiche e degli obiettivi di cambiamento desiderato) che non possono essere affrontati a cuor leggero. E’ stato ad esempio un errore immaginare che si possa intervenire sulle scelte progettuali mediante referendum come è avvenuto per il nucleare.
Rimane tuttavia il sospetto che i tecnici, a tutti i livelli - sia della ricerca che della progettazione - proprio perché parte del sistema produttivo, abbiano una visione troppo specialistica, troppo a favore del progresso qualunque sia la direzione che prenderà.
E’ vero. Ma è in atto un processo di cambiamento, che andrà ulteriormente sviluppato, del ruolo del ricercatore e del progettista. Ad esempio deve essere ricuperata la capacità dell’ingegnere di essere progettista globale in un sistema tecnico la cui complessità ha portato a eccessiva suddivisione di competenze e specializzazione. La preoccupazione di cui lei parla è giusta se il tecnico diventa sempre più uno specialista, un progettista di componenti da inserire in un sistema non oggetto di progettazione. Ad esempio, se si progetta e si innova l’auto, ma non il sistema del traffico.
E’ necessario pertanto riconoscere che il livello della progettazione esplicita e dell’innovazione deve comprendere sistemi sempre più ampi. Per fortuna gli sviluppi delle tecniche stesse di progettazione – mi riferisco alla banalizzazione crescente delle conoscenze specialistiche rese possibili dalla rivoluzione informatica - dà più spazio al progettista per occuparsi di sistemi più complessi.
Di nuovo la tendenza ad impacchettare conoscenze per rendere possibile affrontare problemi più complessi usando come mattoni le conoscenze impachettate?
Pur insistendo sull'importanza di non sviluppare un atteggiamento che limiti il ruolo dell'ingegnere a quello dello specialista, va detto che la novità del problema richiede lo sviluppo di specializzazioni nuove, di tipo interdisciplinare. Lo sviluppo di queste specializzazioni è un modo di impacchettare le conoscenze per rendere più semplice l'attività del progettista. Quindi da una parte nuovi pacchetti di conoscenze banalizzate utilizzabili dal progettista globale, dall’altra la necessità di sviluppare dei pacchetti nuovi.
Se ho ben capito, oltre al recupero di capacità progettuale globale dei tecnici, crescono anche le responsabilità di scelte progettuali dei non addetti ai lavori. Rimane da risolvere il paradosso di una diffusa responsabilità progettuale mentre sempre più complessi - e quindi difficili da capire - diventano i prodotti e la loro interazione con l'ambiente.
Il dubbio che solo chi sa «costruire » (nelle varie fasi, dalla ricerca alla progettazione, alla realizzazione) possa partecipare effettivamente alle scelte progettuali è più che legittimo. E c’è il rischio che se la società - impaurita dal dubbio dei disastri ecologici - rinuncia ad essere parte del sistema progettuale, si può arrivare a condizioni di blocco dello sviluppo del sistema tecnico. La cosa non è da escludere.
E' importante capire come la suddivisione tra chi sa costruire e gli altri, sia falsa o transitoria, e come tutti gli uomini - dagli artisti agli scienziati, agli ingegneri - siano dei costruttori. E quindi, come la responsabilità delle scelte coinvolga ciascuno di noi.
Anche i filosofi sarebbero dei progettisti?
Perché no? Anzi possiamo generalizzare ed includervi gli artisti. L'uomo sa elaborare e trasformare materiali, forme e conoscenza per fini diversi: utilitaristici (migliorare le condizioni di vita materiale), con la realizzazione di prodotti; edonistici (migliorare il fruimento estetico della vita), con le opere d’arte; epistemici (migliorare la conoscenza di sé e del mondo), con le opere della ragione. Il processo con cui l'uomo compie l'elaborazione creativa è fondamentalmente unitario malgrado le diverse finalità e la specializzazione professionale che lo porta a concentrare, durante la propria esistenza, lo sviluppo delle capacità di elaborazione per uno solo dei tre fini.
L'esperienza che stiamo vivendo di una forte transizione tecnologica mostra che gli atteggiamenti dell'uomo-costruttore (nelle sue varie manifestazioni) cambiano. I processi di elaborazione tendono da analitici a diventare più di sintesi, le diverse culture ad incontrarsi. Basti pensare, nel campo della ricerca, all'importanza - per definire gli obiettivi stessi della ricerca - che sta avendo la costruzione di scenari tecnologici. L'immaginare cioè dei prodotti futuri - per i bisogni della società futura - che saranno resi possibili dallo sviluppo delle conoscenze scientifiche. Lo scienziato costruisce delle utopie scientifiche, così come i filosofi concepiscono utopie umanistiche. Ed è forse proprio un segno della transizione anche il recente riemergere dell'attenzione per le utopie, sia di un tipo che dell'altro.
Se si identifica un crescente ruolo da parte dei non addetti ai lavori per la progettazione sarà in ogni caso opportuno che questa fondamentale unitarietà dell’uomo costruttore venga sottolineata per abbattere separazioni culturali che lo sviluppo storico ha portato ma che non sono necessariamente definitive.
Confesso che l’idea di far intervenire dei filosofi nelle scelte tecnologiche mi lascia perplesso.
Non solo i filosofi, ma tutta la società. E per rendersene conto bisogna saper guardare a cosa sta avvenendo nel mondo dei prodotti. I prodotti che usiamo sono molto spesso progettati indipendenti uno dall’altro, ma poi nel loro uso si aggregano, diventano componenti di un sistema. Allora bisogna innalzare di un livello il processo progettuale. E qui la società deve intervenire in tutte le sue componenti a definire come si vuole il sistema che sarà l’aggregato di prodotti. E’ una meta-progettazione il cui risultato saranno le specifiche nuove per i prodotti che dovranno fare da componenti nel sistema d’uso. Forse è presto per dirlo, ma credo che qualcosa del genere avverrà per l’automobile. Si dovrà progettare il sistema traffico e da lì derivare nuove specifiche per tutti i suoi componenti, auto inclusa. Del resto, molto è già avvenuto in questa direzione con gli standard imposti per legge su consumi ed emissioni.
Ma oltre a doverci occupare esplicitamente dei sistemi in cui i prodotti finiscono per interagire, possiamo dire che la coscienza dell’effetto che i prodotti hanno sul nostro modo di vivere, sul nostro futuro, dovrà in qualche modo esplicitarsi in una coscienza del prodotto stesso. Il progettista, immedesimandosi nel prodotto da sviluppare non potrà non porsi dei problemi ontologici, come se il prodotto si dovesse chiedere, chi è, perché viene sviluppato ed usato. Solo in questo modo mi sembra si potranno risolvere i crescenti paradossi che la società pone allo sviluppo tecnologico. Ad esempio, si vuole energia abbondante ed a buon mercato, ma contemporaneamente le centrali dovrebbero essere invisibili e contrarie al secondo principio della termodinamica. Come nella società reale anche i cattivi hanno una loro funzione, così non si potrà pensare di avere solo prodotti buoni, prodotti senza alcun rischio nel loro uso o nella loro diffusione.
E non è detto che nel futuro non ci si debba anche preoccupare seriamente della intelligenza dei prodotti. Non credo che allora la soluzione possa essere quella immaginata da Butler, nel suo Erewhon, di distruggere tutte le macchine.
Le sue conclusioni mi sembrano vadano nel senso di dire che non si può arrestare il progresso, ma che si può pensare in qualche modo di gestirlo.
Non è un compito semplice, tuttavia. Bisogna saper comprendere i cambiamenti radicali che la crescente complessità del mondo degli artefatti sta producendo, e soprattutto saper applicare lo schema fondamentale dell’innovazione anche a livelli di complessità ben superiori a quelli cui siamo abituati. Se dall’aggregazione dei prodotti emergono dei prodotti-sistema di cui quelli sono componenti occorrerà saper esplicitare il processo innovativo al livello dei prodotti-sistema. Se si devono sviluppare alternative su cui poi il sistema antropo-sociale eserciterà selezione, queste richiederanno risorse e sperimentazioni di dimensione appropriata e tempi lunghi. Poiché le risorse per definizione sono sempre scarse non sarà facile decidere di privilegiare progetti di grande mole e fortemente rischiosi in termini di successo finale.
Esempi di grandi progetti che si inseriscono in un piano di cambiamento delle linee di sviluppo del progresso?
Forse perché la mia prima parte di vita professionale si è svolta nel settore dell’energia nucleare, mi sembra che si possa rivendicare che il progetto Atomo per la Pace è stato un progetto di questo tipo ed ha anche sviluppato metodi organizzativi nuovi adatti alla gestione di simili progetti strategici.
Non mi pare che quella dell’energia nucleare sia stata un’esperienza da porre come modello.
E perché no? Io non credo che la storia sia finita. Semmai il progetto è stato portato avanti ad una scala non sufficientemente grande per affrontare tutti i problemi, in particolare il problema del trattamento ed immagazzinamento dei rifiuti radioattivi. Forse si è troppo presto passato dalla fase di sperimentazione a quella di mercato. In ogni caso lo sviluppo dell’energia nucleare ha mostrato come sia fondamentale sperimentare su grande scala. Molti dei problemi che la società odierna ritiene urgenti, ed in particolare la preoccupazione del progressivo inquinamento ambientale, richiedono lo sviluppo di idee innovative e la sperimentazione in piena scala. Sto pensando ad esempio al riciclo dei rifiuti (incluso quelli gassosi), alle energie rinnovabili, al problema del traffico urbano. Tutti problemi su cui si sta operando con un’ottica troppo limitata, senza il coraggio di sviluppare idee veramente innovative, spaventati forse dalla scala delle soluzioni stesse.
Immagino lei ritenga che uno studio approfondito del progresso, di come si sviluppa, delle sue caratteristiche, possa aiutare ad avere idee innovative e coraggio per svilupparle.
Proprio così. Immodestamente, penso che le riflessioni riportate nel libro supportino questa convinzione. A titolo di esempio mi sono divertito ad indicare alcuni mega progetti non troppo convenzionali.
In ogni modo, le linee di pensiero su cosa si debba intendere per progresso e come il processo innovativo sia caratterizzato può servire anche per rileggere la storia di casi. Almeno a me è servito a capire meglio le mie due esperienze professionali – quella nucleare e quella nell’auto. Il caso nucleare ha messo in evidenza il ruolo dei grandi progetti di sperimentazione prototipale. Il caso dell’auto è interessante perché ha visto l’innesto delle conoscenze a base scientifica in un settore a base prevalentemente empirica. E l’impatto rivoluzionario dell’incontro tra empirismo e scienza è destinato a destare sorprese nei prossimi anni.
Nel sottotitolo si parla di partita a scacchi con il futuro. Qualche ipotesi per vincere la partita?
L'ipotesi per il futuro che faccio, è che i tempi siano maturi per una massiccia utilizzazione di risorse pubbliche per progetti innovativi nelle opere pubbliche, in tutti i settori. Se così fosse è tempo per una strategia nuova nella partita per il progresso da parte del sistema antropo-sociale: una strategia che intenda accelerare invece che ritardare i cambiamenti innovativi. A molti sembrerà - in un momento di preoccupazione crescente di evitare interventi che modificano i delicati equilibri ecologici - un appello eretico. Tuttavia, se il sistema è in fase di stallo pre-crisi, non è illudendoci di ridurre le azioni umane di cambiamento, che il sistema retrocederà su situazioni stazionarie, tipo età dell'oro. Quest'ultima, intesa come condizione di perfetto equilibrio stazionario (omeostasi) di un sistema così complesso come quello sociale, è praticamente impossibile da raggiungere. Tanto vale cercare di accelerare il periodo di passaggio attraverso la crisi ad una nuova configurazione che apra una lunga era di sviluppo, in cui l'equilibrio dinamico (omeoresi) sta nel saper percorrere la strada nuova emergente dalla crisi.
E’ assurdo che proprio ora che lo sviluppo del sistema sociale mostra quanto sia rilevante il peso delle nostre scelte sul futuro della partita, si sia colti dal desiderio di non agire, di lasciare al destino più o meno ecologico di fare le scelte. Sappiamo che ciò è pura illusione. Per quanto ci si possa tutti illudere di ridurre la nostra attività, di ritornare al piccolo è bello, alla semplice vita della natura, sappiamo che la traiettoria futura dipende anche da noi. E’ un’illusione che sia possibile rinunciare ad avere un effetto in questo senso. È certo che più l’impatto del sistema antropo-sociale diventa importante, maggiore è la cautela da esercitare nelle scelte. La partita diventa sempre più complessa ed occorre essere giocatori esperti. Per questo diventa sempre più rilevante pensare - esplorare strategicamente delle alternative - prima di effettuare la mossa più importante.
In un qualche modo, per qualche strano destino, non possiamo restare fermi. Siamo condannati allo sviluppo, al progresso. Capendone meglio il perché, forse possiamo ridurre l’accenno fatalistico.