1936 –1938 Tempo d'imparare l'arteLuciano è troppo preso dalla novità della scuola, dai compiti a casa, dall’impegno con cui segue la maestra. Non può dedicare attenzione agi avvenimenti politici interni ed esterni che pur in quegli anni si sviluppano convulsi.Mappamondo, bandierine e geopoliticaTuttavia la scuola un po' sopperisce costringendo i ragazzi a seguire le battaglie in Abissinia. Mettono le bandierine sulla carta geografica, man mano che le truppe del generale Badoglio avanzano. In casa si parla dell’Africa anche per un’altra ragione. Lo zio Daniele, uno dei fratelli della mamma - detto frer perché fa il fabbro ed il maniscalco - è partito per l’Africa. Il nazismo che nel frattempo si è rinforzato con la militarizzazione nel ‘36 della Renania, firma con l’Italia, ancora tutta esaltata dalla conquista dell’Impero, il trattato dell’Asse. Francia e Spagna sembrano andare in direzione opposta. Un Fronte Popolare con socialisti e comunisti vince le elezioni e va al governo sia in Spagna che in Francia. In gran Bretagna sale al trono Edoardo VIII. Queste novità tuttavia non dureranno a lungo. L’amore per la bella americana porterà lo stesso anno Edoardo a rinunciare al trono.Povero zio Daniele, classe 1911. Lui sarà costretto a vivere
direttamente tutti i grandi avvenimenti che si svilupperanno sullo scenario
geopolitico mondiale. Credo che n’avrebbe fatto ben volentieri a meno.
Avrebbe preferito non conoscere altri continenti, ma rimanere a ferrare
cavalli nel suo piccolo paese bergamasco. Anche Luciano, quando torna a
Villa d’Adda dai nonni, sente con nostalgia la mancanza di quell’attività
cui aveva assistito con interesse. Non vedrà più i cavalli
o i muli o gli asini nel cortile attaccati alle inferriate della finestra
in attesa, mentre lo zio batte sull’incudine un ferro di cavallo rovente
di colore giallo-rosso. Non vedrà le scorie distaccarsi dal ferro
battuto, mentre si appiattisce e s’incurva. Non vedrà fare con uno
speciale attrezzo i buchi quadrati sul ferro - che ha ormai raggiunto la
sua forma finale, ma che rimane molle come burro - da dove passeranno i
lunghi chiodi che lo fermeranno nello zoccolo. Non sentirà più
lo stridere della cheratina mentre fonde al contatto del ferro rovente
per gli ultimi aggiustamenti di forma. Fermo il garretto stretto tra le
gambe sopra un grembiule di cuoio, mentre il padrone del cavallo ed altri,
amici e curiosi, cercheranno di tenerlo calmo.
Da grande, a Milano, avrò modo di aggiornare i miei ricordi di
scuola visitando una famosa mostra di Picasso al Palazzo Reale. I volti
urlanti, le mani spezzate in un tetro color cinerino racconteranno la tragedia
di Guerni-ca dove gli aerei nazisti inaugurarono la tecnologia del bombardamento
a tappeto dei civili. A Toledo ci sono andato per una rapida visita en
tourist, to-gliendo un giorno dal viaggio d’affari, probabilmente per quel
ricordo. In effetti l’Alcazar è ancora là che domina la città,
ma più nessun ricordo dell'assedio. Per mantenere io il ricordo
della visita, portai con me uno spadino dipinto che funge da tagliacarte
ed un candelabro di legno che fa ancora mostra di se sulla mia scrivania,
trasformato in portalampada. Quel candelabro mi ha in-segnato come si possa
risparmiare su tutto. E’ dipinto in oro, ma solo su mezza faccia. Quella
che normalmente era rivolta al muro, non è dorata.
La radio era entrata in casa mia solo in quegli anni. Era una bella
Radio Marelli. Una grossa scatola di legno di radica, con un frontale traforato
da cui s’intravedeva una tela che nascondeva l’altoparlante. Tre manopole
sotto un vetro illuminato con su scritto ben chiaro le varie stazioni.
Una manopola per accendere e per il volume, l’altra per cambiare da onde
medie, ad onde lun-ghe, ad onde corte. La terza per la sintonia. Allora
per fortuna tutto era molto più semplice di adesso. A parte le scariche,
sempre numerose, era facile sintonizzarsi su una stazione, radio Milano
I, o Radio Roma II, o Radio Genova. Il loro nome era ben in evidenza. Con
la manopola ci potevi girare attorno la lineetta verticale rossa senza
dover subire, come capita ora, l'indisponenza di stazioncine che a grande
volume si intromettono appena tu con cautela giri la manopola della sintonia.
Il progresso è sempre progresso, si dirà. Anzitutto le dimensioni,
non più quei cassoni di allora. Vi è la FM, la Modulazione
di Frequenza, che prima non c’era. Chi sa più cosa sia od usa la
AM anche se si trova ancora come surplus sugli apparecchi d'oggi? Vi sono
migliaia di stazioni che si possono ricevere. Vi è la sintonia digitale,
se uno è pronto a spendere un po' di più. Vi è l’RDS
per seguire, se sei in auto, sempre la stes-sa stazione anche se cambia
la frequenza, mentre ti sposti da un paese all’altro. Sarà. Eppure,
vuoi mettere le care vecchie grosse, ingombranti radio di allora?
Nello stesso mese si conclude la guerra civile in Spagna con la vittoria
di Franco. Qualche mese dopo lo zio Daniele può finalmente ritornare
a ferrare cavalli, asini e muli a Villa d’Adda. Ma per quanto tempo? Quante
volte, tornato sfibrato dalle varie guerre, sperduto in paesi lontani e
sconosciuti, Russia compresa, dirà: “La classe del’11 è stata
la più sfortunata di tutte. Tutte le ha fatte le guerre, proprio
tutte.” Chissà se si sarà poi pentito d’avere anche lui dipinto
sui muri del paese, nel ’30, quando andò assieme ai coscritti alla
visita militare: “W il 1911, classe di ferro.”
La Moneta ed il quaderno della spesaJ.M. Keynes scriverà nel ’36 un trattato destinato a diventare famoso, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta.Luciano fin da piccolo aveva imparato che niente si butta, che anche un centesimo può essere prezioso. Gli sghei, le palanche, i danè. Tanti nomi nei vari dialetti per una merce rara e preziosa. In quegli anni Luciano non è il solo a percepire l’importanza della moneta. A casa il valore del soldo lo de-duceva dallo sforzo necessario per convincere la mamma a dargli cinque centesimi per comperare una manciata di borole, parola milanese per indicare le caldarroste. Se aveva voglia di una mela, gli veniva dato un soldino - di quelli che ce ne vogliono venti per fare una lira - per andarla a comperare da Gigetto che teneva un carrettino in pianta stabile con un po' di frutta, proprio nella strada all’angolo con piazzetta San Lorenzo. Un po' più soldi gli veniva-no dati per delle commissioni dal droghiere o dal salumiere, non senza infini-te raccomandazioni di star attento ai soldi ed al resto, di non perderli. Molta gente del paese andava dai negozianti con un quaderno e faceva segnare. Poi una volta la settimana, quando arrivava la paga del marito, passava a saldare il conto. Qualche volta saltava alla prossima settimana, ed il droghiere o il macellaio, od il fruttivendolo, magari brontolando, chiudeva un occhio e continuava a far credito. In ogni casa vi erano una quantità di quei libretti, di vario colore o con una diversa etichetta. Uno per ogni negozio. Ma non a casa mia. I miei non erano certo ricchi, ma mio padre ci teneva, per quanto fatica facesse, per quanto dovesse rovistare nel borsellino, a mostra-re di non aver bisogno di credito. Era un artigiano affermato, cui non mancava niente. Al massimo, se mi mandavano per commissioni ed in quel momento non c’erano spiccioli in casa, mi diceva di dire che poi sarebbe passato papà o mamma. C’era sempre qualche cliente di mio padre con un conto in sospeso. Appena passava in negozio a saldare, subito qualcuno o lui o la mamma andava a saldare il debito. In ogni caso i rapporti del piccolo Luciano con i negozianti erano ottimi.
Con tutti, ma specialmente con il sciur Brusa, il salumiere. Anche perché
spesso la lista da ricordare delle cose da comperare era lunga e Luciano
aveva altro per la testa. Ecco un ricordo di quelle corse per la spesa.
Palanche, giocattoli e gelatiMa torniamo ai soldi, sempre argomento buono per imbastirci discorsi sia da parte dei grandi sia dei piccoli. Ed alcuni romanzi usciti in quegli anni ne confermano l'importanza. Nel 1936 John Dos Passos pubblica un roman-zo dal titolo Un mucchio di quattrini. Una visione diversa del mondo e del rapporto con i soldi la darà un anno dopo John Steinbeck con il romanzo Uomini e topi.Per parte mia davo importanza ai soldi soprattutto quando insistevo per averne per togliermi qualche desiderio. Anche se piccolo, non era facile ottenere i soldi necessari. Così occorreva sviluppare strategie di marketing op-portune. Pare che da piccolo ne avessi escogitata una che aveva il suo effetto. L’episodio non lo ricordo direttamente, ma mi è stato raccontato poi dalla mamma e confermato da mia sorella Lia. Ogni tanto venivo preso da forti dolori allo stomaco. In particolare dopo aver ottenuto diniego sul soldo per andare a comperare una pesca od una pera. Pare che dal dolore mi sdraiassi su due sedie. Cominciavo in cucina. Poiché nessuno sembrava darmi retta, spostavo le sedie sulla soglia tra la cucina e la bottega. Qui i lamenti aumen-tavano per superare il rumore della lima. Poi, se nessuno ancora interveniva, le sedie venivano spostate in avanti al centro della bottega. I lamenti crescevano di tono, finché qualcuno finalmente coglieva il disperato appello. Mio padre mi chiedeva se volevo un poco d’acqua. Scossa negativa di testa. Mi chiedeva allora se non era il caso di chiamare il dottore. Scossa negativa ancora più energica. Il povero padre non sapendo più a che santo votarsi, metteva una mano in tasca e ne estraeva un soldo che aveva già in precedenza preparato, quando faceva finta di non sentire la manfrina del lamento. Un soldo avrebbe fatto cessare il dolore? Io allungavo la mano sem-pre da sdraiato e facevo una faccia interrogativa. Chissà? Mio padre allora mi allungava la moneta di rame. Medicina miracolosa. Saltavo sulla sedia e correvo fuori da Gigetto. Tutto finito appena la pera o mela veniva presa a morsi. Ma anche con questo trucco non potevo esagerare. Non c’erano trucchi che tenessero per soddisfare i desideri che affollavano la mente quando mi fermavo a guardare la vetrina del negozio di giocattoli, lo stesso di cui varcavo la soglia solo per comprare con pochi centesimi le palline di creta. Per fortuna c’era Gesù Bambino che ci pensava lui a Natale. Ma questo valeva solo quando ero piccolo, prima di scoprire chi fosse in realtà. Pro-babilmente i genitori si sobbarcavano la spesa anche perché valeva la pena vedere come i piccoli fossero creduloni. Ad esempio, un anno Gesù Bambino mi portò un cavallino che sembrava vero e che forse veniva dal paese di Lilliput. Mangiava dei piccoli mucchietti di fieno che mio padre gli avvicinava al-la bocca. Poi dopo avere ruminato e fatto dei rumorini di pancia scaricava il risultato della digestione alzando la coda. Ma il comportamento avveniva solo se mio padre era là vicino. Io non riuscii mai, da solo, a fargli mangiare nien-te. E sì che provai anche con zollette di zucchero. Un Gesù Bambino in carne ed ossa arrivò un giorno sotto forma di una vecchia zia di mia mamma, dama di compagnia di una vecchia contessa. Non si era mai vista prima. Mia mamma le mandava ogni tanto una cartolina a Milano per mantenere i collegamenti. Un giorno scese dal tram, attraversò il paese con due grossi pacchi e fece suonare rumorosamente il campanello della porta della bottega spingendo avanti i pacchi. Nei pacchi c’era una ma-gnifica bambola di porcellana con vestiti ottocenteschi, per mia sorella Lia, una scatola di soldatini di piombo ed una nave per me. Mai visto niente di simile. Saranno costati un occhio della testa, era il commento di tutti coloro che nei giorni seguenti poterono vedere i giocattoli. Invece era stata la vecchia contessa a dire alla dama di compagnia che poteva scegliere quello che voleva dai vari giocattoli che erano rimasti spersi per la casa. I soldatini di piombo rappresentavano una fanfara militare completa. Capobanda, tamburini, flauti, trombe, tromboni, grancassa, tuba, corni inglesi. Per fare le fusioni più precise, le figurine erano fatte a pezzi. Ad esempio le teste si potevano togliere dal collo, gli strumenti musicali solidali alle braccia si potevano togliere dalle spalle. Mi divertivo non solo a mettere in fila la banda ma anche a scambiare le teste e gli strumenti dei suonatori. Allora non sapevo neanche cosa volesse dire, ma erano pezzi da vero antiquariato, roba da asta di Christie’s. Peccato siano spariti nel nulla, forse persi in uno dei tanti traslochi voluti o forzati. La nave era altrettanto straordinaria, od anche di più ai miei occhi di bambino. Era di latta come usava allora. Pezzi di latta verniciati e tenuti insieme da linguette che si ribadivano dopo averle fatte passare in apposite asole. Dalla pancia della nave si apriva uno sportellone da cui usciva una specie di pontile con su un aereo. Da lì, aiutato da me, l’aereo poteva volare per la casa. I soldatini di piombo erano una rappresentazione del mito asburgico,
della marcia di Radetsky, e forse rappresentavano la nostalgia della nobiltà
milanese per il mondo ordinato dei discendenti di Maria Teresa. La nave
era opera recente. Rappresentava una portaerei? Forse. Ma l’aereo era nasco-sto
nella pancia. Forse era proibito persino pensare a realizzare portaerei
come giocattoli dopo che Mussolini aveva strategicamente deciso che l’Italia
tutta era una grande portaerei immersa nel Mediterraneo e che quindi era
inutile dotare la flotta di portaerei. Così almeno ci dicevano a
scuola. La mia portaerei non avrebbe in ogni caso potuto cambiare le sorti
della battaglia della Sirti, perché nel frattempo l’avevo smontata.
La vendita dei prodotti della campagna veniva fatta dai figli, all’epoca
ormai tutti grandi. Il più piccolo, zio Luis, detto il Toletta,
era appena tornato dal servizio di leva. Era tornato con grandi idee, fare
il sensale di bestiame, cavalli e mucche. Per questo mestiere occorreva
a volte disporre di soldi per fare qualche buon affare. Comperare con pochi
sonanti e correnti un bel ca-vallo da vendere poi con calma ad un prezzo
molto più alto. La nonna Anto-nietta, la regiura, era tuttavia più
pronta ad incassare soldi da mettere nella calza che ad estrarne per rischiose
avventure commerciali. Ricordo i litigi del Toletta con la madre e la fatica
per farsi prestare dei soldi. Alla fine ci riusci-va. Ed ebbe ragione lui
molto più spesso di quanto ebbe torto. Aveva una grande capacità
di riconoscere un cavallo, forse anche per l’amore che nutriva per gli
animali. Più che per gli uomini. Zio Luis sarà l’unico dei
figli a non sposarsi.
Ghiaccio, progresso tecnologico e brevettiForse è per quel ricordo del gelato fabbricato in casa del nonno che ho dato retta, tanti anni dopo, ad un ricercatore che lavorava al Centro Ricerche da me diretto, quando mi propose di investire soldi e risorse per produrre del gelato metallico, descrivendomi le meraviglie della tixotropia per aumentare le caratteristiche di resistenza delle leghe d’alluminio da usare nelle testate dei motori. Il piccolo Luciano, senza saperlo, aveva assistito ad un processo di trasformazione denominato tixotropia. Durante la fase di solidificazione, l’azione di rimescolamento continuo operato dalla pala dell’albero motore del-la gelatiera e completato dallo zio con la pala di legno, rompeva i cristalli di ghiaccio impedendo che crescessero troppo. Quei micro-cristalli rimanevano tali anche dopo, anche se, come si fa oggi, si mette il gelato nel freezer e lo si estrae dopo parecchio tempo. La tixotropia impedisce che diventi tutto un blocco di ghiaccio. Ma io allora non sospettavo che stessi assistendo ad un complesso processo fisico-chimico dal nome greco. E penso che non lo so-spettassero neanche i miei zii.Un altro legame con il gelato, anzi con il ghiaccio, lo ebbi da grande in America. Stavo seguendo in un'estiva località del New England un corso di technological forecasting (in italiano, previsioni tecnologiche, suona meno suggestivo). Lo studio del passato, d'esempi storici di sviluppo di tecnologie, serviva per insegnare a fare previsioni. Il tutto infiorato da banalità o spirito-saggini americane del tipo: è difficile fare previsioni specialmente sul passa-to. Oppure, lo sviluppo di una nuova tecnologia richiede 10 % d’ispirazione e 90% di sudore. Detta così non fa ridere, ma se pensate che in inglese sudore si dice perspiration… Tra i vari esempi vi fu quello del ghiaccio. L’America è un continente che si estende dai freddi polari ai caldi tropici. Nei paesi del Nord come il Canada ed il New England non era difficile realizzare delle ghiacciaie per conservare meglio i cibi nella stagione calda. Bastava racco-gliere la neve che scendeva abbondante d’inverno ed accumularla in qualche grossa buca in cantina. Ma in Florida o nella Carolina, dove andavi a prendere la neve? Allora la creatività si mise all’opera. D’inverno si segavano dei blocchi di ghiaccio dalla superficie dei numerosi laghi ghiacciati dei dintorni e si spedivano i blocchi nei paesi del Sud su velieri specializzati a quel trasporto. E poiché il mercato va curato, sviluppato, la merce resa affidabile e co-stante di qualità, la forma dei blocchi venne standardizzata, doveva avere spessore e lunghezza costante. Ma siccome il freddo varia da inverno ad in-verno non sempre lo spessore del ghiaccio era quello desiderato. Così l’inventiva umana tornò ad intervenire. Se lo spessore era sottile s’innaffiava il lago per far crescere il ghiaccio. Tutto questo darsi da fare sviluppò occu-pazione e commercio. Ma poi arrivò Carl von Linde, arrivò il progresso tecnologico con la fabbrica del ghiaccio. Il commercio sparì, molta gente perse la-voro nel Nord, i velieri dovettero andare a caccia di balene con il capitano Achab. In compenso nel Sud nacquero delle fabbrichette come quella di Ponte San Pietro. Un po' di lavoro per loro. In Italia il progresso tecnologico doveva rispondere anche alle esigenze dell'autarchia. Anche gli animali furono chiamati a contribuire allo sforzo comune. All’appello risposero le mucche di mio nonno donando il latte alla patria. Lanital, la lana artificiale derivata dal latte, brevettata nel ‘36, fu messa in commercio un paio d’anni dopo e propagandata con grande fanfara patriotti-ca. Mia madre, sensibile al richiamo dell’amor di Patria, sferruzzò un golfino celeste per mia sorella Lia. Era bello a vedere. Purtroppo Lia pensò di mette-re subito alla prova la qualità della lana derivata dal latte. Anticipando gli spot TV sui detersivi, sporcò il golfino. Dopo il lavaggio con acqua e sapone - non c’erano allora né omini bianchi né blu - le maniche arrivavano quasi a terra, il lucido del pelo s’era perso. Lia rifiutò di metterlo. Non per questo la tecnologia fascista arrestò il processo di ricerca di nuovi materiali. Ed arrivarono anche nel settore delle biciclette. Non più ma-nubri, pedivelle, mozzi d’acciaio, ma d'una nuova lega a base di stagno, lo zama. L’acciaio serviva per i carri armati o per gli otto milioni di baionette. Un vantaggio dello zama rispetto all’acciaio era che non andava nichelato o cromato, perché non si arrugginiva. L’aspetto era tra l’alluminio e lo stagno. Tuttavia c’era un problema, a parte l’aspetto estetico poco soddisfacente se paragonato all’acciaio cromato o anche solo nichelato. Se ti capitava di andare su una buca con la ruota e di cadere per terra, ti ritrovavi con mezzo ma-nubrio in mano. Qualche cliente spiritoso veniva nel negozio di mio padre spingendo a mano la bicicletta infortunata, dicendo che era stato lui, il sciur Ugo, ad inventare lo zama. Chissà quanti soldi faceva con tutti quei manubri da cambiare. Se il cliente aveva difficoltà ad affrontare la spesa del manubrio nuovo, mio padre tirava fuori tutta la sua capacità inventiva e riparava il ma-nubrio. Infilava un pezzo di tubo tra i due tronconi e lo fermava con dei ribat-tini. Lì almeno, dove era la giunta, non si sarebbe rotto più. Mio padre tuttavia rimpiangeva i tempi in cui i materiali non erano un problema e lui aveva potuto costruire biciclette da corsa superleggere. Si vantava di averne costruito una che pesava otto chili, mentre una bici normale ne pesava venti. Quelle da corsa in commercio ne pesavano tredici-quattordici. La sua ultra-leggera, realizzata con telaio d'alluminio, l’aveva da-ta ad un corridore perché partecipasse alle gare domenicali propagandando le biciclette costruite da lui. Allo scopo aveva fatto ricamare a grandi lettere sulla maglietta del corridore la scritta Cicli GIOIA, Vimercate. Gioia era la marca scelta da mio padre forse anche per l’assonanza con Gloria, marca al-lora famosa di biciclette. Nonostante la leggerezza della bicicletta su cui cor-reva, il corridore della scuderia di mio padre (era l’unico cavallo della scuderia) non vinceva mai. Anzi, non terminava neanche mai la gara. Succedeva sempre qualche guasto alla bici. In particolare si rompeva quasi sempre la catena. Mio padre insospettito, una domenica seguì la corsa. Scoprì così l’atleta fermo sul ciglio della strada, sudato e stanco, alle prese con la catena per spezzarla. Fu licenziato in tronco. La scuderia chiuse. I cicli Gioia si con-tinuarono a vendere per la qualità ed il prezzo, non perché vincevano le gare. Le etichette adesive che mio padre incollava sul telaio, le ha ritrovate mio nipotino frugando in un vecchio cassetto. E le ha incollate con grande soddisfazione della nonna sulla parete del frigorifero: Cicli Gioia, Vimercate. Mio padre non smise mai di cercar di migliorare il prodotto bicicletta.
In fondo lui era un inventore. Aveva sempre qualche idea brillante per
la testa. Con scarsa partecipazione di mia madre che vedeva solo il lato
negativo del tanto lavorare per inventare nuove idee e brevettarle. Il
tempo dedicato a fare dei prototipi era tolto a lavori più produttivi,
le spese per il brevetto erano considerevoli. Tuttavia lo spirito avventuroso
e veneto ebbe una bella rivincita sul conservatorismo bergamasco di mia
madre. Riuscì a prendere un bre-vetto che rendeva molto più
affidabile il freno delle biciclette sportive. Vendet-te il brevetto per
la bella cifra di cinquemila lire. La radio diffondeva la canzone Se potessi
avere mille lire al mese.
Preso dall’euforia del successo del freno, mio padre inventò
un cambio per bici da corsa. Purtroppo l’idea l’aveva avuto anche un altro,
sempre veneto, che riuscì a brevettare un’idea quasi identica un
paio di mesi prima di lui. Spionaggio industriale? Mio padre anche vent’anni
dopo, ogni volta che vedeva una bicicletta con il cambio Campagnolo, ormai
diventato uno stan-dard, non poteva trattenersi dal dire: “Se fossi arrivato
due mesi prima, sa-remmo diventati milionari.” Aveva quasi preso la fortuna
per i capelli e gli era sfuggita.
Lo zio Luis detto il Toletta, abitò da solo fino alla morte cinquant’anni dopo, nella vecchia casa di villa d’Adda, rimasta tale e quale come ai tempi della nonna. Il giorno delle esequie nello stanzone che precedeva la stalla, attaccata ad un gancio al soffitto, mascherata da fitte ragnatele era là, lei, la poltrona a rotelle, con i tubi d’ottone attaccati alle ruote lisci e senza una grinza. Lavoro minorileIo non partecipavo granché alle invenzioni. A me erano riservati compiti molto più di routine, ad esempio riparare gomme bucate o pulire ed oliare biciclette sporche. E poi dovevo andare a scuola. Poi dovevo giocare. Inoltre, secondo mia madre, non avevo molta attitudine al lavoro manuale. Se mio padre mi dava da limare un qualche pezzo chiuso nella morsa, e poi lui se n’andava alla chetichella per qualche affare urgente al bar da Emilio, mia madre dalla cucina capiva subito che la musica era cambiata. Al violino non vi era più Paganini, ma uno che raspava sulle corde. Più o meno quello era l’effetto che facevo io, secondo lei, quando limavo. Il padre-Paganini veniva così colto in fallo per quelle sue brevi scappatelle al bar. Io in compenso rice-vevo uno scappellotto, perché non avevo ancora imparato come si tiene la lima.Le cose che racconto, dette oggi, sarebbero da telefono azzurro. Io a-vevo sei anni quando cominciai a fare il garzone part-time nella bottega pa-terna. I cicli GIOIA oggi verrebbero boicottati, perché realizzati sfruttando il lavoro minorile. Altri tempi, allora. Io ero considerato un esempio di bravo ra-gazzo che non solo studiava, ma aiutava il babbo in bottega. E poi, a dire il vero, il regime non era così ferreo. Ci scappava la mancia di qualche cliente impietosito. Vi erano pause, vi era la possibilità che il babbo ti facesse qualche giocattolo, come il famoso triciclo. La bottega era una grande sala cui si accedeva da una porta a vetri pu-re molto grande. Sulla stessa parete della porta vi era una vetrina. Biciclette nuove erano appese lungo due pareti, quella di destra in cui vi erano le porte che davano nella cucina e nel tinello e quella di fondo in cui vi era la porta che dava nelle camere. Sull'altra parete un grande scaffale a vetri pieno di componenti e pezzi per biciclette con di fronte un bancone di legno. Sui muri dietro le bici si vedevano dei cartelli pubblicitari. Uno soprattutto colpiva la fantasia di Luciano Un ragazzo in bici con le gambe larghe che correva felice, evidentemente in discesa, e, sotto, la grande scritta PIRELLI. Finito di mangiare Luciano cercava di sgattaiolare dalla cucina nella bottega e da qui, dalla porta principale, fuori. Suo padre, se non vi era qualche cliente che magari stava trattando l'acquisto di una bici o di un copertone nuovo, era di là nel locale dell'officina e lui poteva pensare di svignarsela senza farsi notare. Come quella volta, tornato dal fare una commissione dal salumiere. Dopo che si era soffermato sulla spranga del portone a fare una capriola, riuscirà a raggiungere gli amici che urlano nella seconda corte? Era da là che filtravano delle voci interessanti per Luciano. Voci fanciul-le con risa e grida. Decise di terminare l'esercizio (che da grande ripensan-doci avrebbe definito come una variante brianzola dello yoga), per avviarsi da quella parte. Purtroppo per lui, proprio in quel momento suo padre si affacciò sulla porticina della bottega che dava nel cortile: "Ah, sei là tu. Se hai smesso di svolgere i compiti, vieni qua. C'è una gomma forata da riparare." Anche se di malavoglia, il lavoro andava fatto. Non si discuteva nem-meno. Si poteva temporeggiare, sì, trovare qualche scusa per rimandare. Ma alla fine andava fatto. Tanto valeva allora farlo subito. Più presto si sbrigava, più presto avrebbe potuto raggiungere quelle voci. Tanto più che Attilio doveva essere anche lui ancora in casa, a sentire dalle urla della madre che si lamentava, perché aveva sporcato d’inchiostro il quaderno. Attilio non era certo un genio a scuola e fare i compiti a casa era dura. Luciano vide subito la bicicletta che abbisognava del suo intervento. Era quella bici da donna con la gomma davanti a terra appoggiata al muro. La prese, la rovesciò tenendola dritta con il sedile ed il manubrio appoggiati a terra. Poiché era un modello sportivo, la cosa più semplice per riparare una foratura era di togliere la ruota. Bastava svitare i due dadi galletto e la ruota usciva dalla forcella. Si sarebbe potuto farlo anche senza togliere la ruota, ma poi era più difficile esaminare la camera d'aria per trovare il foro. Se fosse stata la ruota posteriore di una bici con carter allora smontare la ruota sarebbe stato troppo difficile, e la riparazione andava fatta con la ruota al suo posto. Meno male che era la ruota davanti di un modello sportivo. Tutto molto più rapido e semplice. Tolta la ruota, Luciano prese i tre ferri fatti apposta (tecnicamente si dovrebbero chiamare estrattori, ma tutti lì a Vimercate capivano se si diceva semplicemente i ferri. Se da grande avesse fatto il chirurgo chissà se avrebbe adoperato gli stessi ferri?) Agendo tra il cerchio ed il copertone riuscì a sollevare quest'ultimo fino a farlo uscire dal cerchio. Poi con la mano a poco per volta estrasse la camera d'aria. Nel frattempo, Attilio doveva avere finito i compiti. Si sentì aprire la por-ta della sua cucina, l'unica stanza che avessero al pian terreno, stretta e lun-ga. Attilio, si fermò a guardare dalla parte di Luciano. Non parlò, ma visto che era impegnato, si girò dalla parte opposta e sparì verso le voci. Luciano gonfiò la camera d'aria, la fece passare, un tratto per volta te-nuto teso tra le due mani, dentro una bacinella d'acqua, fin che dalla gomma emerse un filo di bollicine. Con una matita copiativa che si trovava sempre da qualche parte, e che inumidita con la lingua vi lasciava indelebili segni viola, fece un circoletto attorno al foro. Poi passò di nuovo tutta la gomma per es-sere sicuro che quello fosse l'unico foro. Asciugò con la manica della maglia la gomma attorno al punto segnato, prese un pezzo di carta vetrata e grattò la superficie attorno al foro. Un po’ di mastice attorno, e poi l'attesa di un mi-nuto. Nel frattempo con la forbice ritagliò una pezza pregommata, dandogli forma tonda. Le voci, ora che si era aggiunto Attilio, arrivavano più forti e stimolanti. Luciano aveva fretta di finire, ma il lavoro andava fatto bene, altrimenti c'era il rischio, dopo aver rinchiuso il copertone e gonfiato la gomma di trovarla a terra di nuovo dopo qualche minuto. Così, messa la pezza sul foro, rigonfiò la camera d'aria e la esplorò di nuovo nel catino, tratto a tratto, tutta, per esser sicuro che non vi fossero altri fori. Poi con la mano passò in rassegna l'inter-no del copertone. Aih! Il chiodo c'era, e l'aveva sentito. Non era un chiodo, ma una puntina da disegno. Com'era finita in strada? Qualche stupido scherzo di ragazzino nascosto poi da qualche parte a vedere la rabbia del ciclista appiedato con la ruota a terra? Ed alla fine era lui, Luciano, che ci andava di mezzo, che doveva perdere del tempo per riparare la foratura. Tolta la puntina, riesplorato tutto il copertone, per essere sicuro che non vi fossero altre magagne, inserì la camera d'aria. Prima la valvola nel foro del cerchio, poi con la mano distendere bene la camera fino a che fosse tutta inserita senza pieghe tra il cerchio ed il copertone. Poi a poco per volta, si chiudeva il copertone nel cerchio. Molto facile fino a che ne rimaneva un pezzo lungo una spanna. Qui bisognava fare un bello sforzo con il palmo del-la mano. E non sempre ci riusciva. Anche quella volta. Sfogò la sua contra-rietà, dando un calcio ad uno dei piccoli ciottoli di fiume del selciato che da quella parte della corte era un po’ sconnesso. Il sasso rotolò fino verso il tombino che raccoglieva le acque piovane proprio al centro della corte. Poi, con la ruota in mano entrò nell’officina dove suo padre aveva finito di limare. Stava ora usando il martello di legno per far entrare un rinforzo all'interno di un tubo tranciato di un telaio di bicicletta. Probabilmente il telaio si era piega-to a causa di un qualche scontro del ciclista. Per ripararlo aveva dovuto pri-ma segare il tubo, poi raddrizzarlo e poi vi doveva infilare uno spezzone di tubo all'interno per fare da ponte ai due tronconi prima di saldarli uno contro l'altro. Si spiegava così quel gran limare di prima. Aveva limato lo spezzone di tubo per ridurne il diametro e riuscire a farlo entrare, cosa che ora faceva con la mazza di legno. "Papà, non ce la faccio a chiudere il copertone sul cerchio. Prova tu." Il babbo posò la mazza di legno, prese in mano la ruota, l'appoggiò in piedi contro il banco tenendola ben ferma sotto l'ascella, poi con il palmo della mano destra, con due colpi secchi riuscì a far saltare l'ultimo pezzo di coper-tone nel cerchio. In parte perché era più forte, ma forse ancor di più perché era più esperto. "Salame, hai visto come si fa?" E ritornando la ruota al figlio, non mancò di dargli un piccolo scappellotto sulla testa, più carezza, invero, che scappellotto. Gonfiata la gomma con la pompa a stantuffo, messa la ruota nella for-cella, ben stretti i dadi a galletto, rimessa in piedi la bici ed appoggiatala al muro, Luciano senza più esitare e senza chiedere permessi al babbo, si avviò finalmente verso le voci, le grida e le risa. In quel momento da dentro ca-sa si sentì la mamma che urlava: "Luciano, Luciano! Ti sei dimenticato il salame cotto...!" Luciano non sentì o fece finta di non sentire e sparì nel tunnel che univa il primo cortile al secondo. I lavori in officina diventavano via via più impegnativi man mano che Luciano cresceva. Per esempio, lo era quello di cambiare una molletta all’interno della ruota libera nel mozzo della ruota posteriore. Era una piccola molletta in acciaio che doveva tenere tesa una piccola leva che s’ingranava in appositi solchi se si spingeva in avanti i pedali, mentre lasciava libera la ruota di girare a pedali fermi. La ruota libera era stata una grande invenzione per la bicicletta rispetto alla ruota fissa che resisteva ancora nelle piccole bici per bambini. Ma quella molletta ogni tanto si rompeva. Ed allora occorreva smontare la ruota libera, togliere le sfere e i rulli cilindrici distanziatori, rifare una molletta usando un filo d'acciaio, rimontare il tutto senza perdere sferette e rulli, e poi verificare che la funzionalità fosse ripristinata. Lavoro impegnativo anche per un ragazzo che non avesse altre idee in testa, come quando gli arrivava l’eco delle voci e delle grida dei ragazzi dalla corte. Un lavoro ancora più impegnativo era quello di montare delle ruote par-tendo dal mozzo, dai raggi, dal cerchio, dalle rondelle e dai nipples. I raggi si comperavano in pacchi neri simili a quelli azzurri degli spaghetti e contene-vano una grossa, unità inglese che significava dodici dozzine e che era rima-sta in uso come i pollici per indicare la dimensione della ruota, 28 per le bici da uomo, 26 per quelle da donna, giù giù fino a 14 per le bici da ragazzino come quella di Luciano. Forse il Fascio, che aveva dato la caccia agli inglesi-smi ed al Lei (un germanismo più che un inglesismo) non aveva considerato degno d'interesse il mondo della bicicletta. Così gli inglesismi lì erano so-pravvissuti. I raggi, inseriti prima nei fori del mozzo, andavano intrecciati tra loro, le rondelle messe tra raggio e interno del cerchio prima di avvitare il nipples al raggio. Se ti dimenticavi una rondella, poi papà se ne accorgeva e lo scappellotto era inevitabile. Luciano diventò presto bravo ed affidabile. Tuttavia, il tocco finale, quello di stringere forte i nipples (ma senza fare uscire il raggio dalla testa tonda del nipples perché si sarebbe rischiato di forare la camera d’aria), e di assicurare che la ruota fosse ben rigida e centrata, non lo imparò mai. Forse anche perché suo padre volle sempre essere lui a farlo. Faceva più in fretta, diceva, che a dover riallentare tutti i nipples per cercare di raddrizzare la ruota che ondeggiava ostinatamente quelle volte che Lucia-no aveva cercato lui di fare il lavoro di finitura. Compiti impegnativi venivano affidati a Luciano per andare a prendere pezzi di ricambio dai grossisti. Quando richiesto, almeno una volta alla setti-mana, al pomeriggio, finiti i compiti, inforcava la sua biciclettina, ruote da 14 pollici, e pedalava per i sei chilometri che separavano Vimercate da Villa Santa dove era un grossista e tornava con una sporta attaccata al manubrio e piena di pezzi comperati. Il negozio era proprio davanti al cancello d'in-gresso del parco Reale di Monza. Luciano sarebbe stato tentato di varcare quel cancello e di inoltrarsi per i viali alberati del parco, ma non c’era tempo. Occorreva ripedalare in fretta a casa. Qualche volta capitava in negozio anche una motocicletta da aggiustare.
Le competenze motoristiche di mio padre erano limitate, ma sufficienti
per fare qualche intervento anche sulle moto. In particolare se il padrone
della moto era un suo affezionato cliente e l’aveva visto all’opera ed
apprezzato nel riparare le biciclette. In quei casi, se si trattava di
una moto Gilera, Lucia-no inforcava la sua biciclettina e percorreva i
quattro chilometri che separavano Vimercate da Arcore dove era lo stabilimento
e dove si potevano anche comperare pezzi di ricambio, come stantuffi, pistoni,
fasce elastiche, valvole, candele. Andare ad Arcore, alla Gilera, riempiva
d’orgoglio il piccolo Luciano. Poteva raccontare agli amici che lui sapeva
dove si fabbricavano quelle belle moto che tutti i ragazzi ammiravano.
Specialmente, quando ferme per una breve sosta, il motore continuava a
rimanere acceso ed il volano cromato a girare con regolarità. Vi
era rivalità notevole in giro tra chi possedeva - ed anche tra chi
si limitava a guardarle - la Guzzi e chi la Gilera. Luciano teneva per
la Gilera per le ovvie ragioni di cui sopra. Lui ad Arcore, alla Gilera,
ci andava. Ma doveva convenire che il volano della Guzzi era più
grande, più in mostra, dava un senso più possente di forza
e regolarità.
Giochi, cultura e telefoni bianchiQuel pomeriggio, riparata la gomma, Luciano si avviò nella seconda corte. Prima di salire al piano superiore del chiostro da dove venivano le gri-da, si fermò in fondo alla corte nella Ritirata. Scaricati gli umori liquidi, final-mente era pronto per salire di sopra. La scala con una ringhiera di ferro ave-va nel ripiano di mezzo una grande finestra che dava su quello che forse era stata la navata centrale della chiesa di cui la sua casa era l'entrata. La finestra aveva tutti i vetri rotti. Si poteva sporgere la testa stando attenti a non tagliarsi con le schegge ancora attaccate ai legni dei riquadri della finestra. Si vedeva un enorme stanzone il cui pavimento era più basso del porticato da cui iniziava la scala. In quell’enorme spazio vi erano detriti di tutti i tipi. Si di-ceva che fosse stato adibito a filanda e, forse, guardando bene tra i detriti si potevano distinguere, oltre alle macerie di mattoni e calce, pezzi di materiali di legno e ferro che tradivano l'ultima utilizzazione del posto. Da quella finestra era impossibile scendere e non si conoscevano altre entrate. Il cumulo di macerie e l'imponente strato di polvere che vi si era depositato, lo scorrazza-re indisturbato d’enormi topi, avrebbero in ogni caso tolto la voglia ai ragazzi di tentare di entrarci anche se fosse stato più facile. Ciò nonostante, ogni tan-to qualcuno di loro si fermava a guardare là dentro e a fantasticare un po’.Non quella volta però. Luciano salì di sopra di corsa. I ragazzi e le ra-gazze, d’età variabile tra i cinque e i dieci anni, stavano giocando nel lato più tranquillo del porticato, quello di fondo sulla sinistra. I passi sul pavimento a grosse liste di legno polverose e scheggiate, rimbombarono sovrapponendosi alle grida dei suoi amici. Stavano giocando a 'giramondo', quello della scacchiera disegnata per terra. I giocatori erano tutti esperti. Stavano facendo l’esercizio più difficile, quello con il sasso sul piede, attenti a non farlo ca-dere. Luciano fece un segno ad Attilio. Lasciar le bambine per fare con lui un gioco più maschile. Estrasse la mano di tasca con delle palline. Attilio capì, ma dovette aspettare che finisse il turno. Anche nei giochi di ragazzi le regole vanno rispettate. Luciano ed Attilio scesero al porticato di sotto. Il pavimento di legno era troppo scheggiato e polveroso e le palline scorrevano poco. Inoltre c’era il rischio che s’infilassero tra una e l’altra delle sconnesse tavole. Le palline erano normalmente di creta colorata. Vi erano anche palline di vetro con iridescenze interne da usare per bocciare. Le palline le vendeva il nego-zio di giocattoli proprio sulla strada di fronte. Bastavano pochi centesimi per quelle di creta. Quelle di vetro erano più care. Per fortuna c’erano le bottiglie di birra. Belle, care bottiglie di birra in vetro verde chiaro! Il collo terminava con un restringimento che tratteneva una sferetta di vetro. Faceva da tappo quando la pressione della birra la spingeva in alto. Mio padre ogni volta che alzava una di quelle bottiglie borbottava su chissà quanti soldi avrà fatto quello che aveva avuto l’idea, e l’aveva brevettata, della sferetta. Proprio delle giuste dimensioni per il gioco delle palline. Ma le bottiglie venivano riutiliz-zate. Per fortuna ogni tanto qualcuna cadeva per terra e si rompeva. Così nelle tasche dei ragazzi c’era sempre, oltre alla scorta di palline di creta an-che una o due palline di vetro verde chiaro. Ma Luciano aveva un’arma segreta. Delle sfere d'acciaio. Si chinarono sul pavimento in pietra del porticato e diedero inizio al gioco. Erano nella parte più isolata del colonnato, dove nessuno disturbava. Ogni tanto una pallina rimbalzava contro il muro. Un pezzetto di uno scalcinato intonaco si staccava. Ogni tanto un grido di gioia per la pallina colpita. Ma non durò molto. Si udirono i richiami delle mamme. Arrivò anche qualche sorella più grande a raccogliere i recalcitranti. Era ormai ora di cena. Si mangiava presto in Brianza in quei tempi. Si andava anche a letto abbastanza presto. Forse per risparmiare energia elettrica. Di mala voglia Luciano ed Attilio terminarono il gioco. A casa trovò la mamma in piedi sulla porta ad attenderlo con in mano la borsa arlecchino. "Al solito, ti sei dimenticato qualcosa dal signor Brusa. Il salame cotto. Corri a prenderlo. Un etto. E di corsa, perché si va a tavola." E così Luciano rifece la stradina di sassi. Di corsa come gli era stato chiesto e non ebbe tempo o vo-glia di fermarsi a guardarsi in giro. Doveva inoltre prepararsi ai lazzi del sciur Brusa. Quella sera dopo cena il papà avrebbe letto ad alta voce, come tutti i venerdì, la Realtà Romanzesca. La lettura, compresi commenti ed interruzio-ni per chiarimenti, durava un'oretta. Poi Luciano e Lia a nanna. I due più piccoli erano già a letto. Troppo piccoli per far parte del cenacolo culturale della Realtà Romanzesca. Luciano tardò un poco a dormire. Forse era stata la lettura particolar-mente impressionante. Avventure di un alpinista che, rotta la corda mentre stava arrampicandosi solitario su una parete, sarebbe sfracellato senza speranze giù a valle se non fosse riuscito ad afferrare una radice di qualche vecchia pianta che era riuscita tempo addietro a far crescere un qualche cespuglio lassù. Quella presa sarebbe servita a poco, perché le forze lo avrebbero abbandonato se non fosse in tempo arrivato qualcuno ad aiutarlo a risalire lanciandogli una corda. Non vi era nessuno attorno, salvo i corvi. E proprio loro, realtà romanzesca, riuscirono a salvarlo per il grosso baccano che fece-ro ruotandogli attorno in tanti, sempre di più, gracchiando a più non posso. Finché qualcuno a valle, incuriosito dal fracasso, non guardò in su con un cannocchiale e vide l'omino appeso. Quella storia gli aveva dato i brividi. La sua mente era ora piena d’immagini, di crepe nelle rocce, di strane forme contorte di radici, di sagome nere volteggianti nel cielo. Ma non erano immagini mentali, no. Luciano le vedeva là, dipinte nel soffitto alto della grande stanza in cui tutti e quattro i figli dormivano. Sua madre diceva spesso al papà che era ora di ridare l'intonaco a quelle pareti, che si vedevano strane ombre d'umidità affiorare da tutte le parti e che anche le cannette su cui era stato appiccicato l'intonaco del soffitto cominciavano ad emergere dalla calce che si scrostava. Ma non vi era tempo né soldi per farlo. E poi non ci doveva pensare un po’ anche la padro-na di casa, la contessa Casanova, che da anni non faceva fare più nessun lavoro di manutenzione, mentre non si dimenticava di riscuotere tutti gli anni l'affitto? Così, per fortuna, le ombre e le crepe erano là ad eccitare la fantasia di Luciano in quella luce incerta dei lampioni della città che riflessa e rimbal-zata da chissà quante pareti, filtrava attraverso i vetri smerigliati della porta finestra che dalla camera dei ragazzi dava su un cortiletto interno. Con gli intonaci del vecchio convento Luciano avrà un’avventura, anni dopo. Nella parete di fondo del chiostro, quella in cui più volentieri giocavano a biglie, lo stato dell'intonaco non era certo migliore di quello della parete del-la stanza da letto. L’intonaco ogni tanto veniva ripassato con una mano di bianco. Ma gli strati successivi si staccavano qua le là con l’umidità. Si intra-vedevano strane forme sotto, velate dagli strati di calce. Per esempio sembrava evidente che ci fosse un arco che probabilmente nascondeva una porta murata. A quei tempi Luciano aveva altro in mente che guardare lo stato dell’intonaco e chiedersi cosa quelle ombre nascondessero. Ma quando ci ri-tornò in quei posti, a vent’anni, dopo l’interludio toscano, s’interesserà a quel-le ombre e scoprirà qualcosa. Se si va ora nella piazzetta San Lorenzo a Vi-mercate si trova un cartello giallo che avverte “affresco del XV secolo”. La mattina non c'era tempo per soffermarsi tra le coperte a ripensare
i sogni notturni, ammesso che uno si ricordasse di aver sognato. La mamma
arrivava con poco riguardo a togliere di scatto le coperte e, dando degli
schiaffetti sul sedere: "Presto, presto dormiglione. E' tardi. Tua sorella
è già quasi pronta. Farai tardi a scuola." Nel frattempo
aveva vuotato il catino del lavabo di ferro addossato alla parete della
stanza dell'acqua sporca della so-rella gettandola nel cortiletto. E con
la brocca in mano ora riempiva il catino per lui. Un pezzo di sapone da
bucato era là ad attendere che ne facesse uso. In quella casa si
cercava di risparmiare su tutto, ma sul sapone i rimproveri per Luciano
erano proprio il contrario. "E non cercare di risparmiarlo il sapone, come
tuo solito. Perché non guardi come fa tua sorella..." Sempre lei,
sempre la sorella, sempre ad essere d’esempio. Lei era più attenta,
lei parlava in italiano e non in dialetto, lei non solo si lavava di più
e meglio, ma inoltre non si sporcava mai... Bella forza! Lei non si mescolava
con gli altri ragazzi e ragazze a giocare nella corte. Lei se n’andava
appena finiti i compi-ti dalla sua amica Mariarosa, la figlia del ricco
industriale. Di cosa giocassero le due ragazzine poi, chi sa. Giochi di
bambole. Giochi che non sporcano né le mani né i vestiti.
Infatti, quelle poche volte che la sorella si fermava a gio-care nella
corte assieme ai ragazzi, ai loro giochi 'proletari', anche per lei quando
rincasava c'erano problemi per lo sporco sulle mani, sui piedi, sui vestiti:
"Ma come ti sei conciata oggi, cosa hai fatto, anche tu come tuo fratello..."
|