1930 –1935 All'inizio erano i giochiIn quegli anni dovetti imparare a crescere, a parlare, a giocare, a curiosare tutt'intorno. Furono anni cruciali per il malvagio destino del mondo. Ma io non me n'accorsi. Furono gli anni che consolidarono la dittatura russa e diedero inizio ad altre. In Cina inizia la guerra civile tra la nuova Armata Rossa ed il Kuomintang di Chang Kaishek. Una nostra futura conoscenza appare sulla scena anche lui nel ’30. E’ Ho Chi Minh che fonda il partito comunista indocinese. Nel ’35 Mao Tse Tung termina la lunga marcia di 10000 km. Partiti in 90.000, sono arrivati in 10.000.Paesi lontani, si dirà. Forse allora, senza né televisione né Internet. Ma chi avrebbe detto che da quell’inizio si sarebbe arrivati al Libretto Rosso di Mao che qualche effetto ebbe anche dalle nostre parti? Nel ’31 ha inizio anche l’espansionismo del Giappone che occupa la Manciuria togliendola alla Cina. L’evento è coperto da una patina di romanticismo mettendo a capo dello stato fantoccio, il Manciukuo, l’ultimo imperatore cinese del film di Bertolucci. Il mondo in un antico conventoDifficile che arrivassero quelle notizie in un paese, nella campagna milanese, dove le vecchiette si alzavano alle cinque per andare a messa e dove i fondi del caffè già usato venivano messi a seccare sulla finestra per usarli un’altra volta, magari mescolati con la cicoria. Mio padre, veneto e sempre pronto a motti di spirito (sempre i soliti, diceva mia madre), quando gli offrivano una tazzina di caffè diceva: “Dei nostri fondi”, oppure, “Più ciaro te vedo più speso te ricordo” e con la voce sottolineava speso. La padrona di casa rideva e gli rispondeva in milanese. “El ga semper voia de schersà lu, sciur Ugo”.In ogni caso io avevo tutt’altro da fare che pensare agli avvenimenti mondiali. Io dovevo crescere. La casa dove svolgevo questo compito faceva parte di un complicato intreccio di case. Anticamente doveva essere stato un convento od un'abbazia. La parte in cui abitava la mia famiglia era forse la vecchia chiesa del convento. La facciata era a capanna come quella di una chiesa ed era la parte terminale della piazzetta San Lorenzo. Ad angolo con la facciata della casa, a sinistra guardandola, vi era un alto muro forato da un portone di legno, molto grande, chiuso in alto da un arco di pietra gialla con una chiave di volta da cui s’intravedevano ancora i resti di un qualche stemma. L'arco era coperto da due file di tegole. Il portone, a due grandi ante, dava su un primo cortile molto grande. Di solito solo un'anta era aperta. L'altra era tenuta chiusa da una spranga di ferro orizzontale che formava un triangolo tra la porta ed il muro del pilastro. Quella spranga era alta abbastanza da essere usata dai ragazzi come attrezzo da ginnastica. Mani attaccate alla sbarra, piedi in alto sopra la testa e … oplà … dall’altra parte. Ecco fatta la capriola. Magari, prima di completare la capriola, con le gambe sopra e la testa in giù, si restava un poco a guardare il panorama. A sinistra del portone una gran parete senza finestre. Ottima per farci rimbalzare la palla quando si giocava da soli. Proseguendo in senso orario, una parete con due porte di un magazzeno vuoto e poi una, stretta ed alta, che racchiudeva un antro buio che i miei usavano come ripostiglio. Nella parete di fondo della corte, si vedevano quattro colonne coperte da un architrave orizzontale da cui partivano le tegole di un tetto che copriva un portico delimitato dalle colonne. Sopra il tetto si alzava la facciata di una casa con ampie finestre aperte sulla corte. Sotto il portico a destra la grande finestra della camera dei miei genitori e poi la finestra della cucina di Attilio, un mio coetaneo. In mezzo al portico si apria un tunnel con volta a botte da cui si intravedeva un’altra corte. Sulla parete sinistra del tunnel era una fontana da cui tutte le famiglie che abitavano nel vecchio convento prendevano l'acqua. Di fronte, la porta dava nella cucina di Attilio la cui madre si sentiva ogni giorno battere con la mezzaluna sul tagliere. Un vecchio tagliere di legno con un'enorme fossa centrale dal gran battere giorno dopo giorno, anno dopo anno. Un bel trito di lardo, aglio e verdure per la zuppa della sera. A quella fontana Luciano, appena cresciuto quel tanto per arrivare al nottolino, si abbeverò spesso. Si attaccava con una mano al rubinetto, metteva sotto la testa con la bocca aperta. Con la manica poi si asciugava la faccia. Da lì si entrava nella seconda corte. Questa mostrava ancora molto bene di essere stata il chiostro dell'antico convento. Forse a suo tempo il colonnato chiudeva la corte su tutti e quattro i lati. Ora invece solo tre. L'ultimo era aperto e dava sulla corte di un’altra proprietà da cui era diviso da una rete. In fondo si vedevano, dietro un muro, le grandi piante di un giardino di una villa nobiliare. Un vecchio pappagallo ogni tanto da quegli alberi prendeva il volo e borbottando parole incomprensibili veniva a vedere cosa succedeva da noi. Il colonnato era su due piani. Al pian terreno grosse colonne cilindriche alte almeno quattro metri d’arenaria giallastra, racchiudevano un orto curato dal vecchio signor Luigi che abitava con la moglie, la signora Gesuina, in due stanze cui si accedeva da una porta che apriva sul colonnato. Al piano superiore, il colonnato era formato da colonne sempre d’arenaria, ma più piccole con un parapetto molto alto che sconsigliava ai ragazzi di camminarci sopra, per le difficoltà di saltarvi su. Il porticato dietro le colonne era molto ampio, almeno dieci passi. Ci si poteva correre e giocare a volontà. Il pavimento al pian terreno era lastricato da grosse lose di pietra grigia e fredda. Al piano superiore era di legno. E lo s’intuiva molto bene anche senza alzare la testa per guardare le travi, dal rumore e dal rimbombo. La combriccola di ragazzini e ragazzine che abitavano nel vecchio convento e cui Luciano si aggregò appena fu in grado di muoversi da solo, era solita giocare sia nel portico in basso sia in quello di sopra. Si può dire che il porticato era loro dominio incontrastato, così come la prima corte, e la piazzetta, e un po’ anche l'orto. Coltivato a dire il vero in modo trascurato e con sufficienti angoli pieni di sterpaglie perché ne godessero i bambini. Dei tre lati del porticato quello più utilizzabile, quello che assicurava maggiore 'privacy' ai ragazzi (vale a dire meno disturbo da passanti adulti) era quello di sinistra in fondo, che terminava in un muro che non aveva aperture salvo una porta che dava non si sa dove e comunque sempre chiusa. Anche quello di destra non aveva aperture, se non per la scala che saliva al piano di sopra. Qui però si era disturbati dal passaggio. Nel porticato in mezzo ai due era ancor più difficile sostare a giocare, perché vi si aprivano due porte, del signor Luigi e di un'altra famiglia. La stessa cosa si poteva dire anche per il porticato al piano di sopra. Tutto questo valeva per i giochi in cui i ragazzi stavano un po’ fermi. Per lo scorrazzare invece non c'era certo limite all'uso dello spazio, come del resto si poteva intuire dalle grida, ogni tanto, degli inquilini. Frastornati dal fracasso, quando proprio non ne potevano più, uscivano sulla soglia di casa a urlare o implorare urlando che la smettessero, se no, se no... lo dicevano ai genitori. Quello spazio per giochi era del resto attrezzato con tutti i servizi importanti per i bisogni corporali dei ragazzi. Intanto vi era la fontana nel tunnel che univa le due corti. Poi vi era la latrina in fondo al porticato di destra. Quante volte anch’io la utilizzai. L’aspetto della latrina non era molto attraente. Quasi sempre. Per i maschietti la cosa non destava eccessive preoccupazioni. Si restava sul limitare della porta, si stringeva il pisello e si lanciava la parabola della pipì il più lontana possibile verso il foro centrale contribuendo un po’ anche alla pulizia riuscendo a rimuovere per l'impatto cinetico del liquido alcune dei pezzi solidi che vi stazionavano. Indeterminazione quantistica e realtà localeParabola, impatto cinetico... fu così che ebbi le premonizioni per gli studi di fisica che avrei fatto da grande.In quegli anni si doveva respirare nell’aria che la Fisica stava facendo grandi progressi. Sono anni in cui si pongono le basi per le più sconvolgenti applicazioni future. Nel ’30 Dirac combina fisica quantistica e relatività e prevede che accanto al nostro mondo vi sia un antimondo. Guai se s’incontrano. De Broglie conferma che ci dobbiamo abituare ad una visione duale del mondo, corpuscolare ed ondulatoria: le particelle sono anche onde e le onde anche particelle. Nel ’31, gran convegno internazionale a Roma dove si cominciano a delineare le teorie del nucleo, della radioattività. Come in astronomia ci si era dilettati a prevedere che esistevano pianeti non conosciuti (è proprio nel ’30 la conferma dell’esistenza dell’ultimo pianeta Plutone, predetto nel 1915), così i fisici cominciano a divertirsi al gioco di predire particelle ed antiparticelle sconosciute. Comincia Pauli, un fisico svizzero, con una particella senza massa e carica elettrica difficile da catturare, ma molto importante per la costruzione delle teoria nucleari cui Fermi darà nome di neutrino. L’anno dopo è un inglese, Chadwick a predire uno dei componenti fondamentali del nucleo, il neutrone. Sempre in quell’anno cominciano le verifiche che queste nuove particelle esistano davvero. Blackett scopre il positrone, l’antiparticella dell’elettrone. Con lui c'era un giovane fisico italiano, Occhialini. Bruno Rossi fa vedere che in realtà siamo bombardati con continuità da sciami di particelle, i raggi cosmici. Occhialini, tornato in Italia da professore, avrò il piacere di conoscerlo anni dopo da studente. Lo rivedo percorrere avanti ed indietro in tenuta che ora si direbbe casual il corridoio dell’Istituto di Fisica in via Saldini a Milano. Più di tutti i suoi colleghi aveva l’aria stralunata del vero esploratore di mondi sconosciuti. Una volta scoperte, sarà bene farne qualcosa delle particelle nucleari. Si inventano le prime macchine acceleratrici. E. O. Lawrence in America costruisce il primo ciclotrone e Van der Graaf il primo acceleratore lineare che si avvantaggerà poi del generatore di altissime tensioni sviluppato da J.D. Cockcroft in Inghilterra. O. Stern si diverte a misurare le velocità delle singole molecole. Anche se allora le mie erano solo premonizioni dell’inconscio, ho sempre
pensato di essere stato fortunato a crescere mentre la Fisica penetrava
nel microscopico.
Tornando alla latrina in fondo al chiostro, a dire il vero la situazione non era sempre tale da richiedere parabole ed impatto cinetico. Ogni tanto una delle donne che abitavano nella corte arrivava con due secchi d'acqua che riversava con forza nell'interno e qualche volta poi completava l'opera con l'aiuto del mozzicone di scopa di saggina che stazionava in permanenza appoggiata al muro. In ogni caso, ai ragazzi la latrina serviva allo scopo. Anzi, permetteva per giunta giochi di destrezza e d’abilità. Enrico Fermi sempre nel ’34, senza tuttavia riuscire a dare la giusta
interpretazione al fenomeno, riesce assieme ai ragazzi di via Panisperna
ad avere la fissione dell’uranio bombardandolo con neutroni. La teoria
delle forze che tengono assieme le particelle che formano i nuclei viene
completata da un fisico giapponese, H. Yukawa e darà la stura alla
ricerca delle cosiddette particelle elementari. Servono nomi nuovi. Ecco
che appaiono i mesoni accanto ai protoni, neutroni, elettroni.
Mentre i destini politici del mondo si sviluppavano su direzioni perverse,
il piccolo Luciano in quel castello lontano dal mondo cresceva e giocava,
giocava e cresceva. Il ricordo più lontano che ho di lui, è
di un piccolo bambino che girava nelle corti del vecchio convento con una
lunga tunica bianca. Più tardi, la mamma mi spiegò il perché
di quella tunica, facendo riemergere ricordi che apparentemente erano stati
rimossi dal mio inconscio, mantenendo in superficie solo quello del piccolo
antico romano che correva e giocava assieme agli altri bambini. Luciano
era un po' incontinente sia davanti che dietro. Come tutti i bambini tra
uno e due anni. Di più, secondo la mamma. Il problema oggigiorno
sarebbe di facile soluzione. Pannolini di carta usa e getta, uno dei simboli
della civiltà consumistica. Allora i pannolini erano ricavati da
vecchi asciugamani, avvolti attorno alle parti da coprire e proteggere,
fermandoli con le famose spille da balia. I pannolini sporchi andavano
prima puliti scaricandone il contenuto, poi messi a bagno con la candeggina,
ed alla fine fatti bollire con della cenere per l’imbiancamento e l’igiene.
L’operazione di togli, pulisci e cambia fatta sei - sette volte il giorno
finiva per essere impegnativa. La mamma, forse ispirata da come i cagnolini
risolvono il problema, mi faceva circolare con quella lunga tunica senza
nulla sotto.
Dittature e democraziaSuperato quel periodo della tunica, fu più facile per il piccolo Luciano che intanto cresceva e portava i pantaloncini come tutti gli altri, inserirsi nei giochi. Il primo, e quello che durò a lungo negli anni, fu nascondino. E’ un gioco adatto sia a grandi che a piccini assieme. E’ un gioco che permette l’integrazione di bambini di varia età. Il piccolo Luciano gioca in coppia con qualche bambino o bambina più grande. Viene preso per mano ed insieme si nascondono dietro a qualcuna di quelle grandi colonne. Chi è rimasto nella tana a contare - fino a 49 - comincia poi l’esplorazione, un occhio a cercare di scoprire il nascondiglio, un occhio alla tana per evitare che qualcuno alle sue spalle esca dal nascondiglio e arrivi prima di lui urlando: uno, due, tre… topa! Il gioco è universale e si gioca alla stessa maniera dappertutto. Quando all’età d’undici anni andai in Toscana lo giocavamo anche là. Solo che non si diceva uno, due, tre… topa. Si diceva uno, due, tre… tana. Dalle risate dei ragazzi in Toscana, le prime volte che io pronunciavo la formula come l’avevo imparata a Vimercate, capii che in toscano la parola topa aveva ben diverso significato. Una parola poco appropriata in bocca a dei bimbi. Ma nel milanese, il significato era quello di tana. Anche questo sta a dimostrare come Luciano crescesse isolato e lontano dal mondo.Non farà meraviglia che il piccolo Luciano fosse insensibile
ai grandi avvenimenti della politica mondiale. Non a quelli dello spirito
però, come si è visto a proposito della Fisica. Era facile
in quel mondo chiuso ritirarsi nel proprio piccolo io, trovare la pace,
lontano dai rumori del mondo. Anche se i ru-mori diventavano sempre più
forti.
All’epoca di questi ultimi avvenimenti avevo ormai cinque anni. Ebbi
il primo episodio serio di rivolta contro la dittatura paterna. Non ricordo
il motivo, ma un giorno che subii evidentemente un’ingiustizia grave da
parte dei miei – così almeno pareva a me – uscii di casa ed entrai
nella prima corte del convento, quella in cui una porta di legno portava
nello sgabuzzino dove i miei tenevano il carbone di legna per i fornelli,
il coke e la legna per la stufa, e ogni altra sorte di cose vecchie da
buttare. Ma allora non si buttava niente. Forse perché non c’era
il servizio nettezza urbana che raccogliesse anche le vecchie cose, le
casse e cassette, le scatole. O piuttosto perché, non si sa mai,
le cose possono sempre servire. Inoltre girava ogni tanto uno stracciaiolo
che raccoglieva tutto, non sdegnava niente. E ti dava anche qualche cen-tesimo
in cambio, magari dopo lunghe trattative con la massaia. Prova oggi a cercare
qualcuno che ti porti via il frigorifero ancora perfettamente funzionan-te,
ma che la moglie ha cambiato perché quello nuovo è più
spazioso o magari – ecco la eco-coscienza che emerge – perché consuma
meno o non usa quel terribile fluido che cancella l’anello di ozono per
cui tra qualche millennio saremo tutti morti, bruciati dai violenti raggi
ultravioletti del sole.
Il movimento fascista si dà da fare anche nei Balcani. Nel ’34 viene ucciso re Alessandro di Juguslavia ad opera degli ustascia croati. Colpo di stato anche in Grecia ad opera del reazionario generale Metaxas che costringe all’esilio Venizelos avventuroso e spregiudicato liberale repubblicano. Così almeno lo immortala Alberto Savinio che dedicherà all’astuto cretese uno dei ritratti di Narrate o Uomini la Vostra Storia. Confesso che il fatto mi sarebbe sfuggito se non avessi letto poi il libro del Savinio. Per fortuna a casa mia il regime era democratico, salvo quegli episodi
del resto di breve durata come quello del portico. Si discuteva, si parlava,
ognuno poteva dire le proprie ragioni. Fino ad un certo punto. Pare che
i re-golamenti, non scritti ma tramandati per lunga tradizione, permettessero
a papà o mamma di mollare un ceffone se la discussione andava troppo
per le lunghe. Il regolamento tuttavia permetteva al malcapitato bambino
di piangere. Non troppo forte tuttavia, altrimenti poteva arrivare – non
so se il regola-mento lo prevedesse esplicitamente - un altro ceffone.
Mia sorella, non solo più grande ma anche più sveglia del
fratellino, riusciva spesso a sfuggire correndo per tempo in un'altra parte
della casa rispetto a quella in cui si svolgeva la scena. Io invece rimanevo
impalato, mi prendevo il ceffone, ma chiede-vo spiegazioni: “Ma perché?”
Mio nipotino Pietro, non prende più ceffoni – c’è stata un’ampia
revisione dei regolamenti. Ma se appena alzi la voce, si mette a piangere
e anche lui dice: ”E’ un’ingiustizia.”
L’isolamento nel vecchio convento favoriva lo star lontano dai rumori
del mondo. Inoltre Luciano era ancora troppo piccolo. Forse è per
questo che non s'accorse che in Sud Africa nasceva il partito nazionalista
su basi razziste. Infatti, non si può dire che non avesse una qualche
predisposizione a guardare fuori, davanti a se, a guardare lontano. Appena
cominciò a cammi-nare a quattro zampe volle arrampicarsi sulla vetrina
che campeggiava in mezzo alla facciata della vecchia chiesa e dove suo
padre esponeva le biciclette nuove. Il papà mise Luciano a sedere
in vetrina come desiderava. E la cosa ebbe successo: la gente si fermava
a vedere, rideva e qualche cliente entrava a chiedere quanto costasse la
bicicletta esposta. Fu uno dei primi contributi di Luciano agli affari
di famiglia.
Ma cosa avviene nei paesi democratici? In Spagna nel ’31 finisce la
dit-tatura di Primo Rivera e si passa ad elezioni regolari. Il paese diventa
una repubblica. Durerà molto? In ogni caso i paesi democratici hanno
da risolvere i problemi della crisi economica dopo il crollo del ’29. In
Gran Bretagna per la prima volta si forma un governo di “unità nazionale”.
Si allentano i rigidi vincoli con le terre dell’impero. Ha inizio il Commonwealth.
Nel ’35 l’Indian Act dà una nuova costituzione all’India. Ma questa
vuole la completa indipendenza che avrà solo più tardi. In
Palestina prime scintille di quello che diventerà qualche decennio
dopo un grande incendio. Vi sono incidenti. Gli arabi cercano di opporsi
alla politica inglese che favorisce l’immigrazione ebraica.
In Italia si adottano misure di protezionismo. La vita non era stata mai molto facile, né per gli operai dell’industria, né per un artigiano come mio padre. Divenne ancora più dura per tutti. Fu allora che mia madre decise di tenere alcune galline nel piccolo cortile di casa. Le galline tuttavia mal soppor-tavano il ristretto spazio. Se la porta della cucina era aperta – e spesso lo era, malgrado le raccomandazione della mamma sia a me che alla sorella - non si facevano scrupolo di entrarvi e da lì nella bottega di mio padre e da lì nella piazzetta e nella corte. La cosa però di quei tempi non faceva scandalo. Anche la signora Gesuina teneva un piccolo pollaio in un angolo della prima corte. D’altra parte la mamma pensava ai suoi due figli ed all'importanza di tenerli su con uova fresche. Al pomeriggio verso le quattro ci chiamava, mia sorella ed io, per la russumada. Prendeva il rosso dell’uovo – il bianco lo te-neva per impastare la farina per le tagliatelle – aggiungeva zucchero e sbat-teva, aggiungendo alla fine un poco di marsala. Una piccola leccornia, la russumada, che ricordo con piacere. Poi dopo la merenda di nuovo nella piazzetta od in una delle due corti per giocare con gli altri bambini. Il Duce aveva anche un'altra ricetta per risolvere i problemi della
crisi economica. Gli italiani dovevano figliare di più. Più
braccia, più lavoro, più ricchezza. E poi i giovani avrebbero
potuto beneficiare dei vantaggi del regime fascista. Mi sono sempre chiesto
se i miei genitori avessero generato quattro figli – anzi cinque, perché
uno morì dopo pochi giorni dalla nascita - suggestionati dalla campagna
per la natalità. I muri d’Italia furono tappezzati per molti anni
di manifesti con una donna che teneva in braccio un bambino. Me ne ricordo
anch’io. Vi furono poi sussidi alle famiglie numerose e l’ONMI, Opera Nazionale
Maternità ed Infanzia, si dava da fare, per esempio orga-nizzando
colonie estive al mare. Ci andai anch’io, quando fui un po’ più
grandicello.
Giochi popolari e giochi borghesiMan mano che cresceva aumentava il numero dei giochi cui Luciano poteva partecipare attivamente. Ce n’era uno detto giramondo. Si disegnava col gesso sulle lose del pavimento del chiostro, un rettangolo suddiviso in una doppia fila di quadrati. Con un piede alzato, piegato all'indietro e tenuto fermo con una mano, si doveva dare un colpo con l’altro piede ad una pietra e mandarla nel quadrato successivo, senza mai farla finire sulle righe. Per complicarlo quando ormai si era diventati bravi, si saltava tenendo la pietra sulla punta della scarpa. Naturalmente nel salto la pietra non doveva cadere. Era un gioco che piaceva molto alle bambine, che erano più brave dei maschietti. Era un gioco che si poteva giocare anche in solitario.Un gioco che si giocava tutti assieme, anche in molti, era quello delle belle statuine. Il gruppo all’inizio si presentava fermo in fondo al porticato. Un giudice stava dalla parte opposta. Chiudeva gli occhi e diceva.. un, due, tre. In quel breve lasso di tempo ci si muoveva più in fretta possibile verso il giudice. Ma quando lui riapriva gli occhi si doveva restare tutti impalati nella po-sizione in cui ci si trovava. Gamba alzata, mani avanti, corpo teso. Fermi co-me statuine. Chi veniva trovato a muoversi, era scartato. Il giudice a sua discrezione restava fermo anche per parecchi secondi. Tutte le statuine, ferme, pena essere scartate. Poi ripartiva… uno, due, tre.. fermi! Vinceva chi per primo riusciva ad attraversare la riga tracciata per terra dove si trovava il giudice. La mia era un’età in cui non si fa grande distinzione nei giochi tra maschi e femmine. Più avanti invece i maschietti tenderanno a cercare giochi maschili. Eravamo tutti assieme quando si giocava a nascondino od alle belle statuine o a La più bella del castello. Quest’ultimo veramente era un gioco in cui i ruoli dei maschi e delle femmine erano divisi. Le bambine si tenevano per braccio formando una fila orizzontale ed avanzavano verso la contrappo-sta fila dei maschi cantando. I maschietti chiedevano dov’era la più bella del castello. A turno una delle ragazze avanzava mentre le altre cantavano: “Ecco qui che l’ho trovata, tutta bella ed incipriata.” Una specie di quadriglia. Immagino che come mosca cieca, che pure noi giocavamo, fosse una remi-niscenza dei giochi di società della nobiltà settecentesca. D’altra parte non mancavano nelle case delle oleografie che riproducevano quei bei tempi spensierati (per i nobili naturalmente, non per il popolino). A casa mia c’era un divano coperto da un gobelin che riproduceva proprio una di quelle scene. Mi ricordo una grande quercia con seduta mollemente una signora che mo-strava con la gonna leggermente alzata, non la caviglia, ma una delle tante sottovesti che coprivano la caviglia. Più in là nel prato, un’allegra combriccola di dame e cavalieri giocavano a mosca cieca. Solo dei bambini ingenui e felici potevano osare, in quei nostri anni perigliosi, pensare che l’età dell’oro, l’arcadia, potesse esistere ancora. Tra le bambine che giocavano nella corte assieme a noi maschietti mia
sorella appariva raramente. Lei aveva iniziato il primo tentativo di scalata
so-ciale. Sull’altro lato della piazzetta San Lorenzo, al di là
della strada principale che la chiudeva, vi era un maestoso ed un po’ tenebroso
cancello verde scuro, tenuto da due pilastri con in cima dei capitelli.
Il cancello restava chiu-so salvo quando doveva entrare od uscire l’Isotta
Fraschini del signor Valloni, il proprietario, oltre che del cancello e
del parco che ci stava dietro, anche della bella villa.
Trottole per piccini e trottole per grandiUn gioco più proletario e sicuramente più maschile che imparai solo quando ormai avevo cinque anni, era quello della trottola. Erano delle specie di grosse barbabietole rosse ed in legno, con la superficie rigata su cui si avvolgeva uno spago la cui estremità era legata ad un piccolo bastone. Si lanciava la trottola tenendo il bastone, come fanno i carrettieri quando schiocca-no la frusta per spronare i cavalli. La trottola per terra girava, girava. Quando tendeva a dondolare rallentando, occorreva dargli una frustata per farle ri-prendere velocità. Vinceva chi riusciva a far durare più a lungo il movimento.Forse non giocavano solo i bambini in quegli anni. Anche i grandi del mondo pensavano di cavarsela come in un gioco. Se la trottola del mondo politico dava segni di iniziare a dondolare, i Capi di Stato in quegli anni cercano di ridargli spinta, di coprire lo stato turbolento del mondo, in particolare di quello europeo, con appelli alla pace e con numerosi accordi in tal senso. Con un misto d’ingenuità ed ipocrisia. Fisica complicata quella della trottola. Forze centrifughe, in un campo di gravità, teorema di Coriolis… Naturalmente a noi sembrava tutto semplice e naturale. Bastava acquistare perizia nel colpo iniziale di lancio e poi nelle frustate successive. Nel ’32 alla Conferenza di Losanna viene condonato il debito tedesco
per le riparazioni di guerra. Nel giugno ’33, a Roma, Francia, Gran Bretagna,
Italia e Germania firmano un patto per il mantenimento della pace in Europa.
Subito dopo la Germania pensa bene di ritirarsi dalla Società delle
Nazioni e dalla Conferenza per il Disarmo. Nel ’34 la Polonia firma un
patto di non ag-gressione con la Germania. Nell’aprile del ’35 Italia,
Francia e Gran Bretagna nella Conferenza di Stresa fanno appello alla pace
e condannano il riarmo tedesco. Nel giugno di quell’anno tuttavia la Gran
Bretagna firma una con-venzione navale con la Germania che concede a Hitler
un aumento dell'ar-mamento navale tedesco.
Ma Luciano non leggeva ancora. Cominciava a guardare le figure sul Corrierino
dei Piccoli che gli leggerà la mamma. E invece cominciò ad
anda-re al cinema ancora prima di saper leggere, al Cinema dell’Oratorio.
Ma quali erano gli interessi culturali che emergevano nel piccolo mondo in cui Luciano cresceva? Lui non sapeva ancora leggere e la televisione non era stata inventata. La radio lo era stata da poco, ma entrerà solo più tardi nella sua casa come in quella dei piccolo borghesi di Vimercate. Tutti i ve-nerdì sera, giorno di uscita della Domenica del Corriere, papà leggeva ad alta voce alla famiglia riunita attorno al tavolo in cucina, la Realtà Romanzesca. Quelle erano serata un po’ particolari, che sia lui che a maggiore ragione la sorella Lia più grande, attendevano con ansia, impazienti che la mamma sparecchiasse la tavola ed il papà finisse di bere il caffè. La lettura era di solito avvincente - una specie di breve thriller - e rappresentava un diversivo nelle serate invernali al correre subito a nanna. D’estate era diverso, perché esisteva l’alternativa di correre fuori a giocare a nascondino. Nuovi mezzi di trasportoPaese di provincia Vimercate che mi sembrava straordinariamente grande: grandi strade asfaltate, grandi cinematografi, le più belle scuole ele-mentari dei dintorni. Mio padre poi mi aveva dotato fin dalla più tenera età di avanzatissimi mezzi di trasporto per l’esplorazione più rapida della contrada. Non mi pare che fosse di moda il triciclo a quei tempi. Vi era invece per i più piccoli il cosiddetto monopattino. Un asse di legno, con due ruote piccole una avanti e l’altra dietro. Un piantone di legno verticale che terminava in un piccolo manubrio. Dotato di movimento lungo il suo asse, permetteva di tenere in piedi il monopattino e di girare la ruota anteriore. Il bambino metteva un piede sull'asse, teneva il manubrio con le mani e con l’altro piede per terra spingeva. Quando aveva preso un po' di velocità posava anche il secondo piede sull’asse, finché non fosse necessario mantenere la velocità con una altro colpo di piede sul terreno.Mio padre anche per tener alto il suo nome di meccanico non solo ripa-ratore ma anche costruttore integrale di biciclette, mi costruì un esemplare ben più moderno di monopattino. Si chiamava dai-dai. Era in ferro, ruote più grandi e dotate di pneumatici. Dall’asse dove si mettevano i piedi sorgeva un pedale. Dopo la prima rincorsa con il metodo solito del piede per terra, si ritraeva il piede, lo si posava sul pedale e si pompava, su e giù, su e giù. E via. Il dai-dai andava più forte, più forte spingevi sul pedale. Era l’invidia di tutti gli altri ragazzini che si affannavano con scalcinati monopattini di legno a spingere il piede per terra per cercare di starmi dietro. Il capolavoro di mio padre fatto apposta per far divertire il piccolo Luciano fu però un altro, un furgoncino. Una specie di chimera, mezza bici e mezzo carretto. Di quei tempi vi erano automobili, anche se poche, e camion per il trasporto di materiali. Ma nei paesi il piccolo trasporto si faceva con un mezzo più semplice detto appunto furgoncino o anche triciclo perché aveva tre ruote. Il mezzo ha imperato da noi fino alla fine della guerra. Lo si vede ancora al giorno d’oggi nei servizi della CNN dall’Estremo Oriente, da paesi come la Tainlandia, in versioni adattate ai costumi del luogo. E’ il riksciò triciclo. Da noi per realizzare quella chimera, alla mezza bicicletta - la parte posteriore dotata di sella, pedali ruota e catena - era saldato al posto della forcella un carrettino dotato di due ruote sempre di bicicletta. Il guidatore pedalava con forza proporzionale al carico e sterzava tenendo tra le mani la parete poste-riore del cassone. Il peso del carico veniva ammortizzato poggiando non direttamente sull'assale che riuniva le ruote, ma su due molle a balestra. Ne risultava un trasporto silenzioso, efficiente, con cui si potevano trasportare anche merci delicate. Non so se il guidatore fosse sempre a suo agio anche nelle città che si estendevano su e giù per la collina. Ma Vimercate era tutto in piano. Mio padre si mise all’opera nei momenti di calma del lavoro per i clienti, o magari lavorando qualche ora di più di notte o la domenica. Alla fine mi presentò un modellino su scala ridotta del triciclo furgoncino che imitava in tutto e per tutto quello dei grandi. Il cassoncino di legno era magnifico, verniciato di un bel verde brillante. I due lati partivano dalla quota alta della parete posteriore e degradavano con dolce voluta fino al livello del pianale. Il successo fu travolgente. Io pedalavo per il paese per fare piccole commissioni per la mamma dal macellaio o dal droghiere o dal fruttivendolo. Caricavo la merce sul furgoncino e la portavo a casa tra la meraviglia di chi mi vedeva passare. Ma il furgoncino era sufficientemente grande e resistente da poter trasportare anche uno o due bambini. Scorrazzavamo in più d’uno per le vie e viuzze del paese, noncuranti del sobbalzo continuo dovuto alla pavimentazione fatta di ciottoli di fiume, pavimentazione in dialetto conosciuta come riscieu. Ero così entusiasta del mio triciclo furgoncino – forse anche
per il prestigio che mi aveva dato nei riguardi dei miei compagni di gioco
- che lo volli con me quell’estate quando, come ogni estate, andavo a trascorrere
i mesi più caldi a Villa d’Adda dai nonni materni. Mio padre mi
accontentò. E siccome ci dovevamo andare in bicicletta - di solito
io sulla canna della sua - mi mise a cavalcioni della sella del mio triciclo,
lo legò con una corda alla sella della sua bicicletta e mi trascinò
per i diciassette chilometri che separavano Vimercate da Villa d’Adda.
Poiché l’ingranaggio sul mozzo del triciclo su cui ingranava la
catena, non era a ruota libera, come sulle biciclette dei grandi, ma a
ruota fissa, i pedali giravano trascinati dalla catena ad una velocità
per cui era difficile mantenerci sopra i piedi. Così io viaggiai
a gambe larghe, ben attento a che i pedali non mi toccassero le caviglie.
Per l’eccesso di velocità, le povere piccole rotelle del triciclo,
(mi sembra che quelle laterali fossero ruote di carrozzina per bambini)
si surriscaldavano nel perno. Ogni tanto una delle due usciva dall’asse
e percorreva al trotto un po' di strada da sola per finire nei campi. Ai
miei urli costretto a viaggiare inclinato su due ruote, quella di fianco
e quella posteriore – emulo dei corridori d’auto che continuano la corsa
anche quando perdono una ruota - mio papà si fermava e con pazienza,
ricuperata la ruota, la rimetteva al suo posto e via di nuovo.
Brasatura, scienza e tecnologiaLuciano cresce oltre che giocando, anche guardando il padre che lavora nell'officina che fa tutt’uno con la casa. Crescendo il lavoro, mio padre aeva affittato anche il magazzeno vuoto le cui due grandi porte davano nella prima corte. Lì, aveva installato tra l’altro un incudine ed una forgia per svol-gere un po' di lavoro da fabbro. Quante volte mi aveva raccontato di suo pa-pà, Bettino, un grande fabbro, costruttore di carrozze. Fu così che il piccolo Luciano venne avviato anche ai segreti della metallurgia e della chimica.Mio padre costruiva i telai delle biciclette partendo dai tubi e dalle pipe (si chiamavano così i raccordi che uniscono un tubo all’altro per formare il telaio). I tubi venivano tagliati a misura e infilati nelle pipe. Poi tra tubo e pipa andava realizzata una brasatura. Non molti bambini il giorno d’oggi, dell’età di cinque anni, possono vantare di sapere cosa sia una brasatura. Ma il pic-colo Luciano, mentre girava la manovella della ventola che manteneva vivo il fuoco sulla forgia, guardava ed imparava. Si avvolgeva un filo di ottone attorno al tubo vicino alla connessione con la pipa. S’impolverava il tutto con una polvere bianca detta borace. Poi si scaldava sulla forgia fino a che il ferro diventava incandescente mentre l’ottone fondeva prendendo dei bei riflessi az-zurro verdognoli. Reso liquido, penetrava nell’intercapedine tra il tubo e la pi-pa saldandole assieme. Anzi brasandole assieme. Mio padre ci teneva a sottolineare che per fare più in fretta i grossi co-struttori di biciclette non brasavano, ma saldavano con la fiamma ossidrica, indebolendo il tubo e realizzando una cattiva connessione tra tubo e pipa. E non mancava di farlo notare ogni volta che arrivava un cliente con una bici di marca, cui o per una caduta o semplicemente per fatica, si era tranciato il tu-bo proprio all’attacco con la pipa. Lui allora con pazienza ricostruiva i pezzi rotti e brasava. Bravo papà, bel lavoro. Anche se non lo diceva, era quello che sicuramente pensava Luciano, quando vedeva il papà che soddisfatto controllava che la brasatura fosse venuta a regola d’arte. Ma Luciano non era il solo a fare progressi nelle conoscenze tecnologiche.
Proprio in quegli anni in cui le conoscenze di base fanno grandi pro-gressi
in fisica, la chimica avvia grandi applicazioni: sintesi chimica dell'aceti-lene,
processo di cracking catalitico degli idrocarburi, produzione industriale
di gomma sintetica polisulfurica, neoprene.
Quadro politico, uova, aringhe e polentaMa non tutte quelle importanti notizie sugli sviluppi della scienza e la tecnica arrivarono a Vimercate. Se era giusto che il piccolo Luciano non avvertisse molto gli avvenimenti lontani, che dire delle sue reazioni a quelli di casa nostra?Il fascismo si era consolidato, era diventato regime ed era iniziata la campagna d’accompagnamento per aumentare la fiducia negli italiani che ormai tutto andava bene. Nel ’30 Galeazzo Ciano sposa Edda Mussolini ed Italo Balbo sbarca in Brasile dopo aver sorvolato l’atlantico con 12 idrovolanti. E Luciano? Proprio nello stesso anno, tutto da solo anche se barcollante, attraverserà l'intera bottega di suo padre. Nel ’31 Starace diventa segretario del Partito Nazionale Fascista e si preoccupa della divisa, del saluto al Duce, del fez e dell'orbace ed inventa il sabato fascista. Le manifestazioni di resistenza al regime diventano sempre più deboli o folcloristiche, come il sorvolo di Milano nel ’30 da parte di due appartenenti al movimento Giustizia e Libertà e di Roma da parte dello scrittore De Bosis. Lanciano manifestini contro il fascismo subito raccolti e mandati al macero. I partiti d’opposizione erano fuori legge ormai da alcuni anni e gli oppositori in galera, al confino o rifugiati all’estero. Anche i poveri boy-scout devono chiudere, e l’Azione Cattolica ridursi a puro movimento dedito ad opere religiose. Vengono inaugurate nel ’32 le grandi Opere del Regime, per celebrare il Primo Decennale. Ecco la via dei Fori Imperiali a Roma. Ecco Littoria la prima delle città che dovranno popolare il prosciugato Agro Pontino. Nel ’34 il Regime viene anche formalmente riconosciuto con un plebiscito. Le difficoltà economiche vengono superate facendo stringere ulteriormente la cintola agli italiani, ma anche con la battaglia del grano e con il sal-vataggio delle industrie - rovinate dalla crisi economica generale e dall'allegra gestione - facendole confluire nell’IRI creato nel gennaio del ’33. La cintola si stringeva anche a Vimercate. Le tre galline nel cortile servivano per le uova fresche. Ogni tanto arrivava anche un pollo da fare in padella. Era quello un giorno di festa. Di regola non vi era molta carne in pento-la. Favorito, due giorni e non più la settimana, era il bollito. Forse piaceva molto ai miei, il brodo in particolare. Almeno a giudicare dal fatto che la mamma, se mi mandava dal macellaio, si raccomandava che alla fine, dopo aver pesato la carne, io insistessi per la giunta. La giunta era un bell’osso che veniva dato in aggiunta appunto e senza metterlo in conto. La racco-mandazione era anche sul tipo di osso, che doveva essere grande, con un po’ di nervetti attaccati e possibilmente anche con midollo. Quando c’era il pollo, mi ricordo che non si buttava via nulla. Neanche le zampe. Allora si trattava, è vero, di polli ruspanti. Tolta la scagliosa pelle dopo averle bruciac-chiata sul fuoco, si facevano lessare. Confesso che le trovavo prelibate, carne succosa e grassa. Le budella si gettavano? Neanche per sogno. Con una incredibile abilità, la mamma prendeva le forbici, attaccava il budello da una estremità e .. zac .. in un baleno lo apriva tutto per il lungo, ottenendone una striscia. Le strisce pulite venivano tagliate a pezzettini e mescolate con le altre interiora, fegato, cuore, polmoni, cresta e barbigli. In un pentolino rosolavano per produrre un formidabile sughino per le tagliatelle. Impastate a mano, ovviamente, dalla padrona di casa. Si mangiava tanta insalata. A mio padre piaceva molto. Cruda ed an-che cotta, quella amara che cresceva selvatica nei campi. Quella che quando fiorisce fa fiori gialli che poi si trasformano in palloncini di semi. Ci soffiavamo sopra noi ragazzi. I semi si disperdevano nell’aria. Quelli che rimanevano attaccate allo stelo, erano tante bugie che avevamo detto. Ho insegnato il truc-co ai miei nipoti con grande successo. Ho scoperto poi che non si tratta d’insalata, ma di tarassaco. A mio padre pare che piacessero molto anche le aringhe affumicate. Per mettere in risalto quanto erano buone, se mi mandava dal salumiere a comperarle, mi diceva: “Vai a comperare due pollastri, ma belli grassi mi raccomando.” Le faceva cuocere lui stesso ai ferri sulla forgia. Il puzzo ed il fumo era tanto, in compenso erano anche molto salate. Condite con olio erano buone con la polenta. Quest’ultima non mancava quasi mai. Mio padre era veneto e ci teneva a che la polenta fosse fatta con farina fina e cotta abbastanza fluida da stendersi bene su un apposito asse rotondo, con manico. La polenta appena ver-sata andava lisciata con il fondo di un piatto bagnato. Noi bambini aspetta-vamo la fine dell’operazione di versare la polenta dal paiolo per mangiare la crosta che vi era rimasta attaccata. All’estremità del manico era un buco da cui pendeva uno spago. La polenta non si poteva assolutamente tagliare con un coltello. Occorreva usare lo spago che veniva fatto passare sotto la polenta e, tirato in su, tagliava la fetta. Quante volte avrò sentito da mio padre la storia di quelli di Chioggia che erano usciti in barca con una polenta intera, ma erano morti di fame perché si erano dimenticati lo spago! Nel bergama-sco, da dove veniva la mamma, la polenta è ben diversa. E’ fatta con farina macinata grossa, si cuoce fino a quando non si riesce più a girare il mestolo. Quando la si versa, mantiene la forma del paiolo. Una specie di panettone giallo. E la si taglia con un coltello di legno. Credo che negli accordi matrimo-niali tra papà e mamma ci fosse quello che la polenta dovesse sempre venir fatta alla veneta. Ed infatti alla bergamasca l’ho potuta mangiare solo quando andavo dai nonni materni. Una dieta sana, quindi. Poca carne, tante tagliatelle magari con fagioli, cavoli d’inverno con un po' di salamini, la famosa cassöla milanese. Spesso il venerdì c’era il baccalà alla vicentina. Se n’occupava personalmente mio padre togliendo tempo al suo lavoro. Cominciava il pomeriggio del giovedì verso le quattro. Teneva lo stocco per la coda e con un martello di legno – lo stesso che usava per far entrare le pedivelle a forza nel perno - lo picchiava da una parte e dall’altra finché la carne secca si fosse ben sfibrata. Poi met-teva sul fuoco una padella con del latte, dell’aglio ed altri ingredienti ed il baccalà. A fuoco lento cuoceva fino a tarda sera. Riprendeva a cuocere la mattina dopo fino all’ora di pranzo. A mezzogiorno era pronto. Si mangiava con la polenta. Assomigliava ad un budino di baccalà. Mai più mangiato di tanto buono. Se andava di fretta, vi era una versione più rapida: baccalà lessato con olio aglio e prezzemolo. L'ho cercato da grande in Portogallo, patria del bacagliau. Ma lo si serve ormai solo nei ristoranti di lusso. E poi, vuoi mettere il baccalà di mio padre? Un’altra leccornia era il pangiallo. Al lunedì mattina tardi, quando i fornai avevano finito di cuocere il pane si vedevano le donne del paese, quelle che avevano un po' di terra dove coltivavano il granturco, passare con la carriola con sopra delle specie di grosse torte giallognole, che assomigliavano a delle ruote d’automobile. Le portavano dal fornaio che approfittava del forno ancora caldo per infornarle. Al pomeriggio le donne tornavano con la carriola ed uscivano dal fornaio con le ruote ormai di colore bruno. Erano accatastate in piedi contro lo schienale della carriola. Se per caso una cadeva per terra perché la carriola aveva incontrato una buca, si metteva a rotolare veramen-te come una ruota perduta da un auto. Era un pane di farina gialla. Duro fin dal primo giorno, ma che rimaneva tale per tutta la settimana. Era friabile e buonissimo la mattina nel latte. I contadini per risparmiare lo mangiavano anche a pranzo e cena. Sia io che mia sorella invidiavamo quei bambini che po-tevano godere del pangiallo tutti i giorni. A mia madre, e soprattutto a mio padre veneto e legato alle tradizioni di laggiù, non era simpatico. Inoltre se lo compravi davi l’impressione di esser a corto di soldi, e come businessman mio padre doveva invece dare l’idea che gli affari andavano bene. Solo ra-ramente quindi e dietro insistenza, o perché qualche contadino ne regalava una forma ai miei, lo potevamo sbriciolare nel latte caldo la mattina. Alla conquista di un imperoChe malgrado i tempi duri io non soffrissi lo potevano vedere tutti, guardando le mie paffute e rosee gote e le belle cosce dure e sode che sporgevano sotto i pantaloni corti. Qualche grande si divertiva anche, non con troppo mio piacere, a darmi formidabili pacche sulle belle gambotte.Poco patiti sembravano anche i gerarchi che sempre più entrano a re-golare nell'ordine la vita di tutti. Mio padre, come ogni bravo artigiano dovette darsi da fare per avere la tessera del fascio. E riuscì addirittura – ma sembra che ci riuscissero in molti – ad averla ante-datata e con il titolo di sciarpa littorio. Con la stabilità del Regime, il Duce può permettersi di iniziare un lungo affaire amoroso con la Petacci. Anche Luciano ne ha uno. Con una delle galline che la mamma teneva per le uova della resummada. Costei prende una cotta per il piccolo Luciano, forse perché lui ogni tanto si diverte a fargli delle carezze sul collo. Lo segue dappertutto. Quando lui esce per giocare, lei lo segue. Se va in strada per andare a fare commissioni per la mamma, lei lo segue. Ogni tanto lui la deve prendere in braccio per camminare più speditamente. I grandi si divertono al-lo spettacolo e ridono. Ma poi arriva lo scandalo. Un giorno Luciano è fermo con grandi e piccini al margine della strada dove passa un corteo di gagliar-detti. La gallina è accovacciata ai suoi piedi. Poi, improvvisamente, proprio quando passa un pezzo grosso in divisa da ufficiale della Milizia, la gallina, forse per vederlo più da vicino, o perché impaurita dal forte battimano che accompagna il passaggio, balza in mezzo alla strada. Il gerarca deve modificare sia pure di poco il passo marziale per non inciampare nella gallina. Non so esattamente se i miei abbiano avuto delle pressioni dall’alto – di chi fosse la gallina innamorata era noto a tutto il paese – o se fosse una loro decisione autonoma per evitare casi peggiori nel futuro. Fatto sta che la gallina venne rinchiusa in una gabbia che mio padre allestì in fretta, e dopo qualche giorno, non senza prima avermi detto che la gallina era ammalata e che andava mandata in campagna a cambiare aria, la gabbia partì assieme alla gallina. E fu la fine del mio affair. Credo che dalla campagna la gallina sia poi tornata sotto forma di pollastrella spennata da far cuocere. Ma nessuno ebbe il co-raggio di dirmi la verità. E così passavano le stagioni, e si avvicinava il momento in cui il picco-lo Luciano era ormai cresciuto abbastanza per andare a scuola. All’asilo andai solo l’anno prima della scuola. Vi erano delle suore. Ri-cordo il grembiulino bianco con il fiocco azzurro che indossavo rassegnato ed il cestino di vimini con il companatico che mi portavo la mattina. Il piatto di minestra calda veniva invece preparato e servito dalle suore. Prima con il dai-dai, poi con il triciclo, poi con la mia prima biciclettina, ebbi modo di esplorare in largo ed in tondo e non solo a piedi il mio grande paese. Vimercate - che tra l’altro ambiva da molto, ma inascoltato fin dopo la guerra, a diventare città con i suoi 8000 abitanti di allora - partecipò come tut-ta l’Italia all’entusiasmo per l’Impero. Ormai ero sufficientemente grande per ricordarmi la voce esaltante, che faceva incaponire la pelle, che annunciò la grande impresa. Voce possente diffusa da enormi altoparlanti, che sembra-vano le trombe del giudizio universale, nella grande piazza piena di persone. Su una tribuna, camicie nere con medaglieri sul petto. Nell’autunno del ’35 Luciano iniziò la scuola, la mamma iniziò una nuova gravidanza ed il Duce la campagna d’Abissinia. Il sole che sorgeva sui colli di Roma e sul viale dei Fori Imperiali si de-ve esser chiesto dove fosse tutto questo impero di cui sentiva parlare sempre più di frequente. In effetti al Duce i territori d’oltremare andavano un po’ stretti e poi non li aveva conquistati il Regime. Occorreva allargarli. Cominciò in questo modo nel ’34 una serie di azioni diplomatiche per far fuori il Negus ed aggiungere l’Abissinia o parte di essa, almeno come protettorato, alla bandiera italiana. Poiché il Negus resiste ed ha dalla sua inglesi e francesi, comin-ciano le scaramucce di confine in Eritrea. Nell’ottobre del ’35 gli incidenti si trasformano nella Guerra d’Abissinia. Il generale De Bono, uno dei Quadrunviri e dei pochi che osano ancora dare del tu al Duce, conduce la campagna. Ma si vede che la sua barbetta unita alla piccola statura non ne fa un grande stratega militare. Così viene sostituito da Badoglio che completa nel ’36 la conquista entrando a cavallo in Addis Abeba. Il 9 maggio di quell’anno il Du-ce può così finalmente proclamare l’Impero. Il re diventa Imperatore e lui Primo Maresciallo dell’Impero. La Somalia, l’Eritrea e l’Abissinia finalmente unite prendono il nome di Etiopia. E Luciano passa a pieni voti la prima ele-mentare. Vero è che ci furono un po’ di sanzioni, che gli italiani tirarono un altro po’ la cinghia, che dettero le fedi nuziali alla Patria. Ma cosa non si farebbe per costruire un impero? In effetti il Regime Fascista non fu mai così popolare come in quegli anni. E Luciano iniziò la sua carriera di bravo fascista. Cominciò come Figlio della Lupa. |