1938-1940 A scuola e dintorni
E quel giorno era uno di quelli. Non che a Luciano importasse poi molto fare i compiti sul tavolo di cucina, anche se Licia, la sorellina più piccola che cominciava a girare da sola per casa, stesse volentieri in cucina e lo disturbasse di continuo chiedendo una matita od un pastello per fare poi degli orribili scarabocchi. Un po’ era per avere più quiete, ma era soprattutto una que-stione di principio. E le questioni di principio anche tra i bambini hanno un bel peso. Comunque, nel tinello si stava più tranquilli, tutto era silenzioso e pulito. La sorellina più piccola al massimo si affacciava sulla porta subito richia-mata dalla mamma. Il tinello veniva utilizzato per le sue funzioni solo nelle grandi feste o se c'erano dei parenti a pranzo. Altrimenti si mangiava sempre in cucina. Era anche per i ricordi dei giorni di festa che il tinello riportava alla mente, che era più bello sedersi là per i compiti. Magari vi era qualche distra-zione in più proprio perché il pensiero andava a quei giorni, a quelle mangia-te. Quante portate l'ultimo pranzo di pasqua? Dodici, ricordava Luciano. Il pe-ricolo era abbastanza evidente se c'era da scrivere un tema, come quel giorno. La punta della penna rimaneva a lungo in bocca in attesa che venisse l'i-dea buona per partire. Diverso era se vi fosse stato un compito di matemati-ca. Lui ci si buttava subito a capofitto per finire più in fretta possibile. La bici della maestraAnche quel giorno Luciano, finiti i compiti, cercò di uscire di casa senza farsene accorgere. Il pavimento che doveva traversare della sala grande della bottega, quella dell'esposizione della merce, era di grosse tavole di legno posate su non si sa che cosa. Forse su dei travi come se sotto ci fosse una camera. E forse una camera c’era veramente. Si parlava di una cripta che qualche operaio aveva scoperto, mentre si facevano i lavori per adattare la vecchia chiesa ai più mondani usi cui l’aveva destinata la contessa Casano-va. A quegli operai pare fosse apparso all’improvviso un prete seduto su una poltrona di pietra. Forse anche il prete era di pietra. Ma gli operai spaventati dall’apparizione non stettero a porsi il problema. Rinchiusero tutto. E traman-darono il racconto gotico alle paure delle future generazioni. Il racconto era arrivato anche a lui, e nei momenti più meditativi un po' di paura la sera l’aveva se calpestava da solo quelle assi scricchiolanti.Ogni passo dava un rimbombo pauroso e tutto il legname scricchiolava, mentre si alzava un po’ di polvere, sebbene la mamma molto spesso con l'annaffiatoio cercasse di inumidire quel legno secco e tarlato. Ma Luciano quel giorno non pensava tanto al prete seduto là sotto, quanto a non farsi sentire da papà nell'officina che comunicava con una porta direttamente nella sala d'esposizione. Se l'avesse fatta franca con lo scricchiolio del legno vi era poi il campanello sulla porta che per forza lui doveva aprire per uscire sulla piazzetta. Anche quella volta la traversata del negozio venne rilevata, ed una voce perentoria lo fermò ancor prima che mettesse in moto il campanello. Luciano dovette pertanto cambiare direzione ed attraversare la porta che dava nell'officina. Suo padre gli mostrò una bici da donna appoggiata al muro fuori nella corte. "E' la bici della tua maestra. Va pulita come si deve e poi glie la porti." Era una bici da donna. Luciano riusciva a cavalcarla anche se le ruote erano da 26 pollici, proprio perché era un telaio da donna con il tubo trasversale che arrivava in basso vicino ai pedali. L'idea di portare la bici a casa del-la maestra non gli dispiaceva per l'orgoglio che avrebbe provato nel consegnarla bella pulita a lei. La maestra era un po’ il suo idolo. La ricordava sem-pre in casa. Rivedeva il suo sorriso, il suo chinarsi sul banco per controllare cosa l’allievo stesse facendo. Ricordava anche il sorriso d’intesa con il com-pagno quando nel piegarsi sul banco della fila accanto, il grosso sedere della maestra si piegava fino ad urtare il loro. Così non si lamentò troppo quella volta – neanche col pensiero - che la pulizia della bici avrebbe ritardato di un'oretta il giocare con gli amici. La pulizia consisteva di tre fasi. Prima di tutto con uno straccio si to-glieva la polvere ed il fango, poi con un pennello intinto in petrolio si ripassa-va tutto, telaio, ruote, mozzi, pedali. Infine con uno straccio pulito si asciuga-va e si lustrava. Spesso Luciano saltava la prima fase, se non era visto dal padre. Ma quella volta, trattandosi della bici della sua maestra procedette se-condo le regole e con molta attenzione per far sì che neanche la più piccola macchia di sporco rimanesse. Per rendere ancora più lucido il telaio, prese una pezza di stoffa tagliata a striscia, un estremo in una mano e uno nell'altra e strofinò velocemente tirando la striscia avanti ed indietro lungo i tubi, i mozzi ed anche tra un raggio e l'altro sui cerchioni. Poi ingrassò ed oliò i mozzi, la catena, i pedali, lo sterzo. Alla fine, smontata la bici dall'attrezzo su cui l'aveva appesa per la pulitura, la guardò con attenzione. Fece dei piccoli interventi con la saliva per cancellare anche piccoli puntini, forse delle cac-chette di mosca. La bici ora brillava come nuova. "Glie la vado a portare, pa-pà?" Questi diede una verifica al lavoro del figlio, mise una rete salva-gonna nuova, controllò la pressione dei pneumatici e poi diede via libera: "Attento a cadere e a sporcarla." Luciano afferrò il manubrio, mise il piede sinistro sul pedale, con il de-stro saltellò per qualche metro spingendo in avanti la bici finché questa non raggiunse velocità sufficiente e poi infilò il piede destro a traverso del telaio fino a posarsi sul pedale destro. In questa posizione la testa emergeva poco al disopra del manubrio, ed il corpo si spostava a destra ed a sinistra ritmi-camente con l'andare su è giù dei pedali. Ma niente paura, Luciano era ormai un esperto ciclista anche con le bici dei grandi. Infilò la stradina che scendeva verso la chiesa di S. Stefano. Qui girò rapidamente a sinistra per attraversare la grande piazza dietro l'abside della chiesa. Tutta la pavimentazione era in selciato, ed oltre ad ondeggiare a destra e sinistra la bici sobbalzava, sia per la natura del selciato sia perché ogni tanto Luciano infilava qualche buca. Il risceu nella grande piazza lasciava, in-fatti, un po’ a desiderare. Era il campo di battaglia di frotte di ragazzi. Anche allora era in corso una partita al pallone. Luciano non poté fare a meno di fermarsi a guardare, una gamba di qua ed una di là del telaio. Qualche amico passandogli vicino mentre correva alla ricerca del pallone, gli gridò di restare a giocare. Lui fece segno che ora non poteva. Rimise in moto la bici questa volta senza la rincorsa, ma facendo forza sui pedali. A partire così, un ragaz-zino con una bici da grandi, forte era il rischio di cadere se non si riusciva a spingere subito a fondo e forte sui pedali. Ma la bici partì superando anche l'ostacolo di qualche sasso fuori posto. In fondo alla piazza del sagrato svoltò a destra per una strada che faceva sempre per andare dal droghiere. Infatti, dopo un po’ gli passò davanti e sentì od immaginò profumo di cioccolato. Che buona la merenda di pane e cioccolato! Ma certo non era roba di tutti i giorni. La strada in selciato terminava dando su una delle due vie principali del paese. Questa era lastricata in porfido e l'andare divenne molto più regolare e dolce. Tanto più che la strada era leggermente in discesa. Girando a sini-stra per entrarvi, diede una scampanellata. Nonostante ciò, per poco non va ad urtarsi contro un ciclista calato sul manubrio di una bici da corsa. Forse una di quelle costruite da suo padre. Il ciclista per scansarlo dovette dare una brusca girata di sterzo. Non era successo niente, ma quanto bastava perché questi si alzasse dritto tenendo una mano sola sul manubrio e volgendosi al-l'indietro verso il ragazzo lo apostrofasse in un bel dialetto milanese dal signi-ficato molto chiaro. Ma Luciano era ormai quasi al ponte sulla Molgora. Era un ponte, ma anche una porta della città, residuo di mura medievali. Due tor-rioni alti uniti da un arco sotto il quale passava la strada. La Molgora era un torrente tranquillo che non aveva mai dato preoccupazione ai Vimercatesi. Almeno che lui sapesse. Vi era sempre poca acqua e non era un posto in cui i ragazzi andassero a giocare. Luciano non attraversava spesso quella porta, salvo la domenica se andava a spasso con i genitori fino al cimitero, dove era la tomba del fratellino. La maestra abitava poco fuori della porta, di là dalla Molgora.
La strada qui però era in terra battuta. Luciano, per paura che
la polvere sollevata dalla bici in corsa la sporcasse, si fermò
e spinse la bici a piedi tenendosi sul ciglio dove cresceva dell'erba.
C'era già stato altre volte, non sempre per riportare la bici. Qualche
volta la maestra aveva invitato tutti gli scolari ad una merenda. Era una
casa grande con davanti un giardino. Un portone laterale immet-teva in
una corte con sul fondo un magazzino. Il marito della maestra era un commerciante
di vino. Lo si sentiva dall'odore pungente ed un po’ inebriante che circondava
la corte. Luciano entrò dal portone nella corte e da lì bussò
sulla porta di retro della casa.
Luciano rifece la strada a piedi di corsa. Sul ponte della Molgora si
fer-mò a guardare giù. Come al solito quasi niente acqua.
Che stupido torrente. Poi di corsa fino davanti al droghiere. La maestra
nel salutarlo gli aveva messo tra le mani una moneta di 50 centesimi. "Non
dire niente a papà, comprati delle caramelle", gli disse accarezzandogli
i riccioli. Con mezza lira si comprava già una tavoletta di cioccolato.
Se la strada non fosse passata davanti al droghiere, chissà se avrebbe
fatto una deviazione... Ma la strada proprio di là passava. Con
la tavoletta di cioccolato in bocca Luciano entrò nella grande piazza
del sagrato. Erano ancora là che giocavano al pallone. Finì
di ingoiare il cioccolato e poi si mise di corsa anche lui dietro alla
palla. Non era un gran giocatore, a dire il vero. Un po’ grassoccio, a
correre troppo gli veniva il fiatone. Poi, forse, dedicava meno tempo al
pallone dei suoi amici. Spesso, pertanto, finiva in porta. Quella volta
in porta non c'era nessuno. Vi era solo il segno dei pali, due mucchietti
di sassi strappati dal selciato. I ragazzi si divertivano di più
a rubarsi la palla e poi a tirare in porta. Nessuno voleva fare da portiere.
Ma con il suo arrivo, quello che era un po’ il capo del-la banda: "E' arrivato
Luciano. Va in porta, va in porta." E così dicendo lo spinse proprio
là. Il gioco non si era per questo arrestato. Luciano si mise in
posizione aspettando che la palla arrivasse. Ed, infatti, arrivò,
e fu goal. Un fischio di disapprovazione segnò la sua poca rapidità
di reazione. Punto sul vivo, si atteggiò a grande portiere, ginocchia
leggermente piegate, mani al-largate, sguardo vigile. E quando il pallone
arrivò di nuovo, si spinse in avanti per afferrarlo al volo. Ma
nella foga di giocare bene il suo ruolo, aveva dimen-ticato che si giocava
sul selciato. Finì quindi disteso, con una scorticatura in viso.
Lì per lì non ci fece molto caso. Sputò sul fazzoletto
e sì pulì il viso. Do-po un poco tuttavia cominciava a bruciare.
Nel frattempo il gioco languiva, qualche giocatore si era già allontanato.
Anche Luciano pensò di andarsene. Il bruciore era forte, ma ancora
più forte la preoccupazione di cosa avrebbero detto a casa.
Le frontiere della scienzaMio padre aveva studiato fino alla terza fetta. Intendeva dire fino alla terza elementare. Non era molto, ma per i suoi tempi non erano in tanti a po-ter dire lo stesso. Sapeva scrivere e leggere, come dimostrava la lettura della Realtà Romanzesca del venerdì sera. Sapeva fare di conto ed anche dise-gnare. I disegni dei suoi brevetti li faceva lui, magari dopo avere già realizza-to il prototipo senza bisogno di disegno o di schizzi.Mio padre applicava la sua capacità d’inventore e di realizzatore anche a compiti più modesti. Per esempio per abbellire la casa o fornirla di nuovi servizi. Fu così che il nostro gabinetto triangolare nel cortiletto venne dotato di una doccia a riscaldamento solare. Purtroppo non brevettò l’idea pensan-do che non ne valesse la pena e che non servisse neanche industrializzare il prodotto, perché chiunque, dotato di buon senso, ci sarebbe potuto arrivare da solo. Si vede che allora non era ancora di moda il discorso sulle energie alternative. Quel problema lo prese sul serio suo figlio che pensò da grande di scegliere come mestiere quello dello sfruttamento dell’energia alternativa per eccellenza, l’energia nucleare. Purtroppo avrebbe fatto meglio a seguire la strada indicata dal padre per l’energia solare, visto che gli ambientalisti si dettero poi da fare per cancellare l’energia nucleare dall’Italia. Mio padre aveva visto giusto, ma, come spesso capita ai creativi, era troppo in anticipo con i tempi. Il dispositivo solare integrato nella doccia era brillante, ma semplice. Sul tettuccio piatto del gabinetto mio padre installò una vasca di lamiera zincata larga come il tetto, poco fonda ed a cielo aperto. Dal fondo della vasca partiva un tubo che penetrato nel soffitto terminava in un imbuto a doccia. Con dei secchi pieni, salendo su una sedia, si riusciva a riempire la vasca d’acqua. Il sole, quando c’era, scaldava l’acqua. Bastava entrare nella latrina, girare un rubinetto inserito nel tubo che terminava nella doccia, e via. L’inconveniente era che d’inverno raramente funzionava, anche perché occorreva prima rompere il ghiaccio che si formava nella vasca. Ma d’estate, non più bagno nel mastello di legno. Inoltre, il giorno della doccia non era più fisso, ma era lasciato al libero arbitrio della meteorologia. Mio padre, dopo il successo del brevetto del freno per cicli da turismo, dopo la disavventura del cambio, che però aveva confermato la bontà delle sue idee, aveva tentato idee più grosse come la bicicletta archimedea dalle lunghe pedivelle. Poiché il passaggio all'industrializzazione di quel prototipo era superiore ai suoi mezzi, rivolse il suo bisogno di creare qualcosa di nuovo su orizzonti ancora più grandi. Di scienza sapeva solo quello che aveva letto nelle pagine della Domenica
del Corriere. Ma coltivava sogni di realizzare cose fantastiche che l'approfondita
conoscenza scientifica forse gli avrebbe impedito di avere.
Mio padre non era né un fisico né un chimico. Le sue ambizioni
erano grandi, ma lui era solo un meccanico. Decise quindi che valeva la
pena di cercare di inventare il moto perpetuo.
Mens sana in corpore sanoCredo di avere fatto tutte le malattie infettive dei bambini. Sicuramente mi ricordo degli orecchioni. A casa da scuola con la faccia gonfia e le orec-chie calde per più di una settimana. E non poter giocare con gli altri. In com-penso, neanche dovevo riparare delle gomme bucate.Se qualche volta c’erano dei problemi di pancia, c’era il terribile rimedio dell’olio di ricino. Credo che anche da grandi tutti si ricordino quanto schifoso fosse. E forse fu proprio pensando a come lo avevano odiato da bambini, che le squadracce fasciste lo utilizzarono come complemento al manganello. Quindi, se uno soffriva di mal di pancia cercava di far finta di niente. Ma la mamma se n’accorgeva. Per fortuna esisteva una variante, leggera e gradevole. Il purgante A-quila assomigliava a polvere di cacao e n’aveva anche il sapore. Mia madre lo teneva sempre pronto in un cassetto. Proprio dove teneva anche lo zaffe-rano, il cacao, il lievito Bertolini, la cicoria Frank per il caffè nero. Mi ricordo che un giorno decise di fare un umido di spezzatino di bue. Per rendere l’intingolo più spesso e scuro, oltre al vino rosso ci aggiungeva anche del ca-cao. Mia madre non è mai stata una grande cuoca. Mio padre ha dovuto sudare non solo per toglierle il vizio bergamasco della polenta grossa e dura, ma anche per insegnarle a tirare la sfoglia per le tagliatelle. Che mia madre, avviata da giovane ad una brillante carriera d’ispettrice di filanda, incontrato mio padre avesse accettato non solo di sposarlo, ma anche di imparare a fare la sfoglia, sta a significare che era proprio innamorata. E lo restò tutta la vita, nonostante i numerosi difetti che, secondo lei, aveva mio padre. Quando cucinava, lo faceva in fretta. Aveva sempre qualche altra occupazione, com-preso vedere chi era entrato nel negozio quando il campanello attaccato alla porta segnalava che si era aperta. Deve essere stato per quello che quel giorno prese, credendolo cacao, la bustina del purgante Aquila e la versò tutta nel sugo che si stava formando attorno agli spezzatini sul fornello. E, sem-pre sopra pensiero, buttò via la bustina vuota. Così almeno disse lei. Mio padre invece ha sempre sospettato che in realtà lei si fosse accorta dell’errore, ma fece finta di niente. Anche perché buttar via la carne era un peccato. L’umido era particolarmente buono quella volta e c’era anche la polenta ad accompagnarlo. Di sugo quindi non ne avanzò neanche un poco. Bisogna di-re che il purgante Aquila aveva retto al trattamento a caldo e mantenute tutte le sue proprietà o addirittura esaltate. Per tutto il pomeriggio ci fu la fila nel rinomato cesso che avevamo nel cortiletto. Anche se qualcuno di noi, per ra-gioni di priorità, andò anche in quello comune in fondo alla seconda corte. In quegli anni la medicina aveva fatto progressi e scoperte importanti. Intanto proprio nel ’36 esce il libro d'Alexis Carrel L’uomo questo sconosciuto che avrà un grande successo e renderà noto a tutti come conoscere l’uomo sia davvero un grosso problema. Daniele Bovet scopre gli antistaminici. P. Karrer ottiene la sintesi della vitamina E. Purtroppo qualcuno in Svizzera sin-tetizza anche l’allucinogeno LSD che tanta parte avrà poi nello sviluppo dei giovani dei fiori negli anni ’50. Mueller, sempre in Svizzera scopre le proprie-tà insetticide del DDT. Ma forse tutte queste nuove scoperte non erano ancora arrivate a Vi-mercate
e le poche medicine esistenti si usavano quando si stava male. Tuttavia
già allora se si stava bene c’era la medicina peventiva. I genitori
dove-vano preoccuparsi che i figlioli crescessero sani e robusti. E anche
per quello c’erano delle medicine. O perlomeno dei prodotti che si vendevano
in farma-cia. C’erano due sciroppi di gusto gradevole e di sicuro effetto,
almeno a sen-tire la reclame. Erano il Proton e l’Ischirogeno. Purtroppo
ve n’era anche un altro, più efficace e più popolare, anche
forse perché costava meno e si comperava sfuso. Era l’olio di fegato
di merluzzo. Era altrettanto schifoso dell’olio di ricino. Ma mentre quello
lo prendevi solo se soffrivi di mal di pancia, questo dovevi prenderlo,
nelle stagioni di mezzo autunno e primavera, tutti i giorni. La mamma per
convincerci, preparava anche una bella fetta di mela. Estratto dalla bocca,
contorta per il disgusto, il grosso cucchiaio che era stato colmo dell’olio
di fegato, infilava con mossa rapida il pezzo di mela in bocca per chiudere
la smorfia. Le mele allora facevano parte dei cibi della domenica e quindi
veniva apprezzato lo sforzo di addolcire la medicina con una mela, buccia
compresa.
Fu quindi con entusiasmo che appresi che anche a Villa d’Adda c’era
una colonia estiva. La colonia era destinata ai ragazzi del paese. Vista
la mia insistenza, si misero in moto i miei zii e ottennero che venissi
accettato anch’io, anche se venivo dalla Brianza. In Comune superarono
anche il fatto che i brianzoli non erano molto ben visti dai bergamaschi.
Un po' d’invidia forse, perché i brianzoli erano considerati dei
benestanti rispetto a loro. Tutto è relativo a questo mondo.
Ricchi e poveriPartimmo in treno per Vicenza. Il cugino Bepi, compagno d’avventure giovanili di mio padre, c’inviava sempre a Natale delle scatolette confeziona-te da lui e contenenti dei pezzi d’oca lessata. Venne a prenderci alla stazione con cavallo e biroccio. E così iniziò la mia avventura nel Veneto, la regione dove mio padre era cresciuto e che fino allora avevo solo visitato con la fan-tasia e riempito dei personaggi un po' stravaganti ricavati dalle storielle che lui raccontava senza bisogno di doverlo pregare.Il cugino Bepi aveva una bella grande casa proprio in cima ad una pic-cola collina. Alla base vi erano i campi di cui era proprietario. Trenta campi, circa 10 ettari. Di quei tempi con trenta campi uno poteva dire di essere un signore. Almeno per gli standard di allora. Aveva tre figli, due femmine ed un maschio, tutti della giusta età per giocarci assieme. Franchino era mio coeta-neo. Nella ricca casa la mensa era sempre abbondantemente fornita. Ogni giorno dal pollaio si prelevavano una gallina ed una faraona, od un coniglio ed una faraona. Due donne aiutavano la padrona di casa. Ogni giorno si fa-ceva la sfoglia per le tagliatelle e spesso anche la sfoglia dolce per lo strudel di mele e noci. Il grande camino nella sala da pranzo era sempre acceso. I cibi venivano preparati sui fornelli a carbone di legna nella cucina. Tuttavia la polenta tagliata a fette veniva messa a brustolar sulle braci rosse del camino. Anche lo strudel veniva cotto sul camino. Si scostava la cenere e si posava il rotolo chiuso a ciambella sui mattoni caldi. Poi si copriva con una padella rovesciata e si metteva la brace tutt’intorno e di sopra. Ad ogni ora del giorno in casa c’era un profumo delizioso e diverso di cibi in cottura. Per entrare nella grande casa c’erano due vie. Quella di rappresentan-za che passava per un piccolo giardino pieno di dalie e rose e quella di di-simpegno che passava per l’antro di una grande cantina che si estendeva su tutto il lato nord del pian terreno. Qui gli odori prevalenti erano di vino e di sa-lame. Una lunga fila ti accompagnava e ti dava il benvenuto pendendo dal soffitto. Il vino era in botti di rovere nella parte più fonda della cantina. Una buona fetta di salame non mancava mai per dare il via al pranzo, sia a mezzogiorno che a sera. Le rubizze gote del cugino Bepi testimoniavano che neanche il vino faceva difetto su quella tavola. Il piccolo Luciano, di ritorno da quel lungo digiuno tifoideo, mangiò come non mai. Venne pesato all’inizio. Era molto dimagrito. Venne pesato alla fine delle due settimane di vacanza. Era aumentato di dieci chili. Fu con un certo orgoglio che il cugino Bepi riconsegnò Luciano, che aveva ritrovato co-lori e rotondità, al genitore quando tornò a prenderlo. I giorni passarono in fretta, ma mai usciranno dalla memoria. Dopo la prima colazione Franchino ed io e, spesso, anche le sorelle, si andava per i campi, ci si rincorreva, si saliva sugli alberi da frutta. Era metà settembre. C’era di tutto. Susine, pere, fichi che si scioglievano in bocca. C’era anche un campo d’angurie. Franchino disse che erano già mature. Ne fece risuonare un paio e le colse. C’erano con noi anche i figli delle famiglie di contadini che lavoravano i campi ed abitavano in un gruppo di case lì vici-no. Mi ricordo quelle case. Catapecchie. E dalla cucina non arrivavano i profumi della casa del cugino Bepi. La povertà risaltava evidente anche ad un ragazzo come Luciano. Mangiavano polenta e saracche a mezzogiorno e se-ra. Se andava bene, pasta e fagioli. Niente polli o faraone, come alla tavola del padrone. Le uova delle galline che pascolavano là attorno, le vendevano. La povertà l’avevo conosciuta anche dai nonni a Villa d’Adda. Ma non era così disperata. Là, qualcuno della famiglia, oltre a lavorare il poco di terra, ri-usciva ad arrangiarsi in qualche altro modo, come i miei zii. Qualcuno partiva ogni mattina in bicicletta e si percorreva trenta chilometri per andare a lavora-re in fabbrica dalle parti di Monza. Ma lì, a Lovolo, piccolo paese sperduto nella campagna veneta, l’unica possibilità era emigrare o lavorare come giornaliero da un ricco contadino come il cugino Bepi. Il quale era sì ricco nel senso che la tavola era sempre abbondantemente servita, ma lavorava an-che lui nei campi, non faceva il signore. Guidava il trattore, dava ordini al bo-aro per la stalla, curava gli acquisti delle semenze e la vendite delle messi. E pensare che oggi Lovolo come i tanti altri piccoli paesi del veneto sono mo-strati a dito com'esemplo d’industriosa ricchezza, il Favoloso Nord-Est. Forse fu quella visione di povertà e di cattiva distribuzione delle ric-chezze che mi portò più avanti ad avere forti sentimenti socialisti. Forse mi spinse anche con due amici a passare un mese delle vacanze estive, non al mare ai bagni, ma a Pomarico un paesino della Lucania non ancora toccato dalla riforma agraria. Un mese a vivere quella povertà ed a testimoniarla con una macchina da presa. Con le due angurie ci nascondemmo in mezzo al granturco. Io presi un’anguria tutta per me. Era una novità poter disporre di un’anguria intera e non solo di una fetta. Gli altri ragazzi, angurie ne mangiavano spesso e quin-di si divisero la loro. Io infilai il muso dentro la mia e mangiai con avidità. Pol-pa e noccioli. Alla fine ero soddisfatto e la pancia era tesa come un tamburo. Gli altri ragazzi guardavano e ridevano. Si davano anche delle occhiate: “El pisarà en leto, el pisarà.” In effetti, quella notte mi rigirai sovente nella mia branda allestita nella grande stanza dove dormivano anche Franchino e le sorelle. Poi mi addormentai. Ma alla mattina mi svegliai tutto bagnato. Mi vergognai come un ladro. Mi ricordai della scena alla colonia di Riccione. Ma la zia si mise a ridere: “El ga magnà un’anguria intera, sto fiol.” E nessun len-zuolo venne appeso fuori della finestra. Mentre ero dal cugino Bepi vi fu anche la vendemmia. Bepi non aveva molte vigne, ma abbastanza da fare un vinello frizzantino di cui riempiva le botti della cantina. All’operazione vendemmia avevo già partecipato varie vol-te a Villa d’Adda dai nonni. Anche là era un’operazione gioiosa come dapper-tutto. Le donne su per la collina cantavano in coro, mentre gli uomini anda-vano su e giù per i ripidi gradini del ruck con delle gerle in spalla. L’operazione era allegra ma faticosa. Non per il piccolo Luciano che più che cogliere l’uva, sedeva sotto il filare a mangiarla. E poiché la buccia era dura, la cosa migliore era sputarla. Era divertente farne un bel mucchietto per ter-ra. La cosa non era molto gradita al nonno che al vedere il mucchietto di bucce lo considerava uno spreco. “Se vuoi mangiarla, mangiala, ma non get-tare le bucce.” Forse aveva letto anche lui Pinocchio con l’episodio delle bucce di pera. Ma Luciano certo non mangiò le bucce del mucchio. Si spo-stava più in là e rifaceva un altro mucchietto. La vendemmia dal cugino Bepi era meno faticosa. Le vigne erano su una collina a declivio dolce e ci arrivavano direttamente i cavalli per racco-gliere le ceste dell’uva. La pigiatura era all’aperto in un gran tino di legno messo su un carro. Gli uomini arrivavano con i carri con le ceste piene d’uva che versavano nel tino sulle gambe delle donne che la pigiavano cantando. Mentre così facevano dovevano dire cose spiritose, perché le donne rideva-no e facevano gesti di finte sberle verso chi vuotava le ceste. L’operazione di pigiatura a Villa d’Adda avveniva in cantina in un’atmosfera umida e un po' triste. Il profumo del mosto che non si poteva disperdere fuori, dava alla testa ed inebriava. Quindi anche nel caso della vendemmia Luciano poté capire che vi era una differenza tra agricoltura ricca e povera. Il cibo non mancava certo sulla tavola del cugino Bepi. Ma non posso dimenticare l’enorme abbuffata fatta il giorno della festa del paese. Arrivaro-no di buon mattino, con cavalli e biroccini da festa, i parenti da tutto il veneto, da Este, da Agugliaro, da Albetton, da Albaran. Vi erano grandi e piccoli di tutte le età. Man mano che arrivavano, i grandi entravano in cantina per as-saggiare in anticipo il vino nuovo che ancora bolliva nelle botti. Su dei tavolini erano in bella vista dei salami, che per l’occasione erano scesi dai chiodi dell soffitto. Il vino di mattino andava accompagnato con qualcosa. Oltre ai salami sui tavolini vi erano coltelli e tagliere e pan biscoto. Il pan biscoto fu un’altra scoperta, tra le molte che feci in quel viaggio. Era buono da solo, era buono nel latte, era buono con il salame. E per di più resisteva per dei mesi. Mio padre, che non lo trovava a Vimercate, approfittò di quel viaggio per portarne a casa un sacco pieno. Ritrovai così il pan biscotto quando ritornai a Vimercate. I ragazzi quella mattina si ritrovarono nell’aia dietro la casa, dove anche erano dei tavolini. Questa volta non salame, ma piatti colmi di dolci. In parti-colare, visto che la vendemmia era stata di pochi giorni prima, c’erano i sugoli, dei dolci fatti con il mosto. Naturalmente c’erano anche le fritole che anche la mamma faceva, dietro dettame del veneto marito. Per scaldarci e farci av-venire appetito, caso mai ne fossimo carenti, ci rincorrevamo attorno alla casa. Le oche del cugino Bepi, quelle che poi finivano nelle scatolette che
c’inviava per Natale, furono disturbate dal clamore. Erano abituate ad
esser padrone incontrastate di tutta la strada che saliva sulla collinetta
fino alla ca-sa. Non stavano nel pollaio, erano libere di circolare. Di
solito, per smaltire il gran mangiare, che veniva loro dato anche a viva
forza, facevano gare di corsa tra loro partendo dalla casa fin giù
al fondo della collina dove erano le stalle. Chi vinceva beccava tutte
le altre. Erano animali che incutevano un certo rispetto. Erano alte come
lo ero io, ed avevano un becco lungo come una mia spanna. Dovevano crescere
in una stagione fino ad arrivare ad un peso di quindici, sedici chili.
E a settembre era quasi concluso il loro ciclo. Per assicurare il risultato,
veniva riempito il gozzo di granturco, usando una specie d'imbuto infilato
nel becco. Nell'imbuto si versava il granturco e girando una manovella
i chicchi scendevano uno ad uno. Si poteva vedere il chicco scendere lungo
l’esofago. Per fare più presto, chi manovrava l’imbuto fa-ceva scorrere
due dita lungo il collo dell’oca per aiutare il chicco a scendere nel gozzo.
Io di solito mi divertivo a guardare le oche mentre facevano le gare di
corsa. Mi ricordo, però, che un giorno loro non gradirono l’intruso
che le guardava e le seguiva a distanza. E così mi si rivolsero
contro. Dapprima piano, dimenando l’enorme sedere, con mosse amplificate
dal piumaggio della coda. Poi visto che io mi ritraevo, loro accelerarono
il passo. Io mi misi a correre e loro dietro. M’inseguirono fino nei campi
con degli spaventosi qua, quack, aprendo e chiudendo l’enorme becco nell’aria
a vuoto. Io ero ter-rorizzato dall’idea che uno di quei becchi potesse
richiudersi sul mio di dietro. Per fortuna dopo un poco le oche, soddisfatte
dall’avermi messo paura, si riti-rarono. Io tornai a casa pallido e tremante.
Quella sera ebbi la febbre.
Le oche del cugino Bepi devono avere saputo del fatto di sangue e per
questo cercarono di vendicarsi su di me, erede del M. Guillotin emigrato
dal veneto in Brianza.
Libro e moschettoA scuola non ebbi mai problemi, né i primi anni con la deliziosa e gras-soccia maestra Mosca, né in quarta e quinta con il maestro Lanticina.La scuola era grande e nuova, costruita al confine del paese dove co-minciavano i campi. Negli ampi cortili interni facevamo rumorose ricreazioni. Poiché tutto andava bene non ho grandi ricordi. Neanche dei miei compagni. Forse ero troppo pieno di me, troppo contento d’essere bravo e senza pro-blemi per ricordarmi i compagni meno bravi. Ricordo solo le scene patetiche quando le mamme venivano a parlare con la maestra, chiamate perché il fi-glio scarseggiava in profitto e magari anche in condotta. Le madri entravano ad una ad una in classe, restavano sulla porta e la maestra si avvicinava loro, spiegava come il figliolo non facesse i compiti a casa, sbagliasse nei dettati, nel risolvere i problemini, nel dire le poesie a memoria. La madre guar-dava addolorata e stupefatta. L’amore materno qualche volta si ribellava a quel quadro disastroso e giustificava: ”Ma, sciura maestra, el me fioel a ca’ el studìa, el studìa.” Ricordo l’accento sulla i nell’enfasi con cui si sottolineava come a casa il figliolo studiasse. Qualcuno dei compagni di scuola li ritrovai quando tornai a vent’anni a Vimercate. Ma erano quelli che avevano proseguito negli studi, i figli della borghesia. Qualcuno degli altri, di quelli la cui madre veniva a rapporto dalla maestra, si era ricordato di me e non so in che modo era riuscito a seguire le mie tracce. Fu con sorpresa che un giorno nel mio ufficio a Torino arrivò da Fiat Mirafiori una telefonata da qualcuno il cui nome non mi diceva niente. Era uno dei mie compagni di scuola elementare, a Torino per qualche giorno come montatore specializzato mandato in trasferta dalla sua ditta per assi-stere all’avviamento di una qualche macchina utensile che Fiat aveva acquistato. Venne a trovarmi e rinverdì la mia memoria d’eventi dimenticati, di no-mi di compagni che non mi dicevano nulla. Si vede che l’esperienza toscana successiva dove i compagni saranno altri, avrà cancellato i ricordi di quelli di Vimercate. Giuseppe, così si chiamava, volle preparare una cena alla vimer-catese, risotto con salsicce e vino, cassoela di verze. Si mise d’accordo con il ristorante dove prendeva tutti i giorni i pasti a Torino e fece lui da cuoco per l’occasione. Fu una cena pantagruelica che i miei figli ricordano ancora. Fu l’occasione per rinverdire i ricordi di quegli anni di scuola e delle attività ludi-che relative. Anche delle esercitazioni come Balilla moschettiere. Il fascismo in quegli anni si era consolidato. La gente forse ci aveva semplicemente fatto l’abitudine. Poi c’erano le barzellette che aiutavano a sopportare più che le angherie, le pagliacciate dei gerarchi, il sabato fascista, il dover avere la tessera del fascio per lavorare tranquilli. Poi c’era stata la conquista dell’impero, vi erano state le opere del Regime come la bonifica dell’Agro Pontino. Chissà se qualcuno dei poveri contadini veneti che avevo incontrato nella mia ricca vacanza a Lovolo dal cugino Bepi, se n’era andato laggiù, migrando in cerca di companatico da aggiungere alla polenta ed alle saracche. Ci pensava il Film Luce - proiettato prima dello spettacolo nel ci-nema dell’Oratorio la domenica - a mettere in risalto le opere del Regime. E come meglio illustrarle se non mostrando il torso nudo del Capo chino per terra a falciare il grano, o abbracciato al covone mentre lo inserisce nella tramoggia della trebbiatrice? Luciano aveva visto da vicino l’operazione di trebbiatura. Dal nonno. Si ricordava il secco odore di polvere in una grande aia dove era stata piazzata l’enorme trebbiatrice a disposizione di tutti i contadini che arrivavano ciascu-no con il suo carro pieno di covoni. Una grossa cinghia di cuoio faceva girare la puleggia che trainava i complessi meccanismi della trebbiatrice. In cima al-la macchina due contadini afferravano al volo i covoni che da un carretto altri due gli allungavano. La cinghia era tesa tra la puleggia della trebbiatrice e quella di un trattore che scoppiettava con il ritmo cadenzato del diesel. Un uomo controllava che la cinghia non uscisse dalle pulegge, come tendeva a fare. Allora lui dava una spinta con la mano callosa per rimetterla in carreg-giata. Dallo scappamento del trattore rivolto verso l’alto, usciva fumo nero che si aggiungeva alla polvere silicea che filtrava da tutte le fessure delle ta-vole traballanti della carrozzeria della trebbiatrice. I chicchi di grano uscivano da una parte, mente dall’altra le balle di paglia legate con fil di ferro formavano lunghi parallelepipedi gialli. Nei Film Luce, non si sentiva la polvere, ma si capiva che il Duce aveva anche lui da ragazzo visto come si trebbiava e magari aveva anche aiutato. Proprio come lui, Luciano. Ho rivisto in una delle lunghe ricostruzioni documentarie che la TV a volte dà del nostro passato, quelle immagini del Duce mietitore e trebbiatore. Ma non ho più provato, come invece mi capitava allora nel sentire il commen-to ispirato che accompagnava i Film Luce, la pelle d’oca. Allora Luciano la poi de poule la sentiva. La sentiva quando alla radio la Sua voce possente chiedeva agli italiani di dire il loro sì, e l’urlo della folla rispondeva sì..ìì... La pelle d’oca gli veniva soprattutto sulle cosce grosse e dalla pelle ben tesa. La sentiva quando nella piazza grande del Municipio di Vimercate avevano innalzato una tribuna per qualche commemorazione e di-scorso del Federale. Ancora di più la sentiva in tali circostanze se in divisa da Balilla Moschettiere doveva montare di guardia. Al monumento ai caduti della Patria che troneggiava nel centro della piazza. Allora la pelle d’oca comincia-va nel pezzo di cosce scoperte dai pantaloncini per poi salire via via più su, fino alla schiena. E qui magari finire in un tremore improvviso di tutto il corpo. L’invenzione del Sabato Fascista non era stata accolta dal popolo con
gran gioia. Tanto più se essa dovesse venir presa sul serio e richiedere
la partecipazione a qualche manifestazione in camicia nera. Ma non fu certo
questo il sentimento di Luciano. Per lui il sabato fascista era una festa.
Aveva ormai nove anni e frequentava la quarta elementare. Aveva detto addio
alla maestra Mosca, non senza un qualche rimpianto. Che tuttavia durò
poco. Aveva ora un maestro, un uomo. Serio, con gli occhiali, teneva sempre
a por-tata di mano un righello nero con inserite lungo gli angoli delle
strisce di ferro. Per tener dritto il righello che altrimenti si sarebbe
imbarcato senza quei rin-forzi. Ma vallo a dire a quel meschino ragazzo
che si prendeva il righello sulle dita della mano che il maestro gli aveva
ordinato di tenere ben tese in avanti. Per lui quei rinforzi di ferro erano
stati messi apposta per fare più male. D’altra parte, quando mai
si era visto il maestro usare il righello per l’uso pro-prio cui doveva
essere destinato, tirare delle righe?
Luciano aveva atteso con entusiasmo quella data fatidica. Finalmente
arrivò il giorno. Pur non essendo domenica, tutto il paese era fermo
ed in fe-sta. Tutti gli uomini avevano la camicia nera, anche suo padre.
Non aver visto L’Uomo della Provvidenza non gli impedì
tuttavia di tesserne gli elogi nei compiti in classe. E fu così
convincente che, quando si trattò di mandare ai Ludi Littoriali
Giovanili che si tenevano in tutte le città d’Italia uno studente
a rappresentare le Scuole Elementari di Vimercate, fu scelto lui. Dopo
le raccomandazione del caso da parte del maestro Lanticina, dopo quelle
del capo manipolo, il giorno fatale prese il tram per Milano e scese a
Piazzale Loreto. In una scuola là vicino si tenevano i Ludi. Lui
era in di-visa di Balilla e gli fu facile trovare la scuola seguendo i
numerosi altri Balilla e Giovani Italiane che là si avviavano. Detto
nome e provenienza fu fatto en-trare in una classe, sedere ad un banco
e fornito di foglio protocollo e penna. La classe era piena di studenti
scelti in rappresentanza dei vari paesi e scuo-le della provincia di Milano.
Il Federale in persona venne a leggere il tema che doveva venire svolto
avendo a disposizione l’intero pomeriggio. Biso-gnava parlare di LUI, di
come avesse cambiato i destini della Patria. Luciano, si sentiva di nuovo
la pelle d’oca, e scrisse, scrisse. Riempì davanti e dietro tutte
le pagine del foglio protocollo che era stato loro distribuito. Alla fine
con-segnò il tema soddisfatto e sicuro di sé. Può
darsi che la retorica fosse troppa anche per le orecchie allenate degli
esaminatori. Forse la pelle d’oca che l’aveva accompagnato mentre scriveva
le lodi del Capo, non era stata buona consigliera. Fatto sta’ che non venne
scelto per andare a Roma a rappresen-tare Milano.
Decisioni strategicheMio padre giocava a bocce di rado e solo la domenica sera. Doveva in fin dei conti curare i suoi clienti, esercitare quelle che oggi si chiamerebbero public relations. Ma il gioco è gioco e, nonostante la necessità di tenere buo-ni rapporti con i clienti, mio padre cercava di vincere. Se qualche buon colpo dell’avversario gli toglieva la boccia lui si arrabbiava. Come quella volta che urlò ad un tale, anche lui suo cliente, che gli aveva centrato la boccia: “Che Dio te manda el cagoto!” Viene spontaneo il dialetto quando si è arrabbiati. La domenica successiva, quel tale, stavolta in milanese: “Mi gioghi pù con lu, sciur Ugo. L’è ‘na setimana che go la diarrea.”Le relazioni pubbliche, mio padre le teneva, a parte le bocce, sistemati-camente. Tutte le mattine, verso le undici si recava al bar da Emilio per l’aperitivo. Un vermut o più spesso un bicchiere d’Albana. Nel pomeriggio verso le cinque andava invece all'osteria da Basilio per un buon bicchiere di vino rosso. Cosa non si fa per le relazioni pubbliche! Mia madre, veramente, storceva la bocca ogni volta, e con una punta di ironia al suo ritorno chiede-va: “Quanti clienti hai visto oggi? Quante biciclette hai venduto?” Ma se non aveva concluso affari, aveva raccolto preziose informazioni su come interpretare i tempi, se ci sarebbe stata o no la guerra, se nonostante la dichiarazione di non belligeranza, l’Italia sarebbe intervenuta. E proprio per averne dedotto una certa tranquillità che tutto sarebbe presto finito, deci-se un grosso cambiamento nei suoi affari. Volle ingrandirsi e salire di un grado sulla scala sociale: da negozio di biciclette a garage per riparazioni auto. Per far questo, siccome lui, pur bravo meccanico, non era un motorista, fece una cosa un po' arrischiata. Ingaggiò suo cognato, il marito della sorella della mamma, moglie e quattro figli inclusi. La famiglia trovò da alloggiare in un appartamento affittato nel vecchio con-vento. Il che aggiunse qualche bambino in più alla banda già numerosa. Lo zio motorista aveva un nome impegnativo, Giuseppe Verdi. E forse fu proprio per il fato legato al nome che divenne motorista. Un motore è un’orchestra. Se tutto va bene pistoni, bielle, valvole, ingranaggi di trasmis-sione concertano in una musica armoniosa. Ci vuole l’orecchio di un musici-sta per accorgersi in tempo che la valvola si apre male, che c’è un piccolo fo-rellino nello scappamento, che gli ingranaggi sono un po' consumati. E chi meglio di un Giuseppe Verdi è adatto alla bisogna? Forse proprio per questa associazione di Verdi ai motori, quando sarò al Centro Ricerche Fiat darò la responsabilità di controlli sulla rumorosità dei veicoli ad un giovane fisico che aveva l'hobby della musica e che come hobby riparava vecchi organi di chiesa. Preso dall’entusiasmo, e forse su suggerimento del cognato che tanto lui non ci metteva una lira, mio padre decise anche di aggiungere un servizio di noleggio auto. Ecco quindi con grande meraviglia e gioia di tutto il vicinato abituato a vedere solo biciclette nella piazzetta S. Lorenzo, arrivare un giorno dell’estate ’39 una grandiosa Citroen, nera, parafanghi grandi e lustri su cui appoggiavano due fari semisferici, muso sporgente con doppia V rovesciata sul radiatore. L’interno di soffici cuscini in pelle nera. Una macchina d’occasione, per la quale mio padre firmò qualche cambiale che poi sarebbe-ro state facilmente pagate con l’introito dei noleggi, con mio zio Verdi come chauffeur. Di quella meraviglia d’auto ricordo il primo giro che mio padre, il Verdi alla guida, fece fare a tutta la famiglia. Mia madre con i due ultimi nati in braccio e Lia ed io seduti fieramente accanto a lei sul sedile posteriore. Fu un giro liscio sulle strade asfaltate e traballante sui sassi del riscieu, che fino al-lora avevo percorso a piedi o in dai-dai o in triciclo o con la piccola bici. Il pa-ese naturalmente notò l’avvenimento e molti conoscenti si fermavano a guardare, a salutare con la mano il sciur Ugo. Forse qualche altro avrà scos-so la testa. Non erano tempi quelli d’avventure. Pensava sempre troppo in grande il veneto sciur Ugo. Il primo vero viaggio lo facemmo la domenica successiva, sempre tutta la famiglia, a Villa d’Adda, dai nonni. Fu un po' la rivincita di mio padre sui pa-renti bergamaschi che non avevano mai capito veramente come la figlia avesse potuto sposare un forestiero, uno che veniva dal veneto, un fasso tuto mi, uno che pretendeva di insegnare a loro, ai bergamaschi, come si doveva cuocere la polenta. Al ritorno dal viaggio era sera. Il giorno dopo, mentre guardavamo ancora una volta la macchina che faceva mostra di se nella prima corte, vedemmo qualcosa di bianco spuntare da sotto i paraurti niche-lati. Mio padre, sdraiato per terra per vedere di cosa si trattasse, estrasse una gallina bianca. Povera gallina, poco abituata a vedere bolidi polverosi passare per la strada che lei credeva parte del suo regno e che fino allora aveva attraversato indisturbata, od al massimo con una piccola rincorsa per non essere investita dal trotto di un biroccino. La pietà per la povera bestia non durò a lungo. Spennata la gallina, tutta la famiglia si ritrovò a festeggiare l’ospite inatteso a tavola. Gli strateghi del caffè e dell’osteria cominciavano a non essere
più tanto ottimisti, malgrado le baldanzose e rassicuranti notizie
che dava la radio. O forse proprio per quello. Si cominciava a sussurrare
sulle contromosse dei francesi e degli inglesi che non sarebbero stati
con le mani in mano a vedere l’invasione della Polonia. E la conferma che
ci aspettavano tempi duri venne subito dopo l’estate di quel ’39 che aveva
visto mio padre tentare un rischioso allargamento del business.
Quella nuova avventura meccanica non dura a lungo. Gli avvenimenti esterni
precipitano. Hitler incontra Mussolini al Brennero. Poco dopo invade la
Danimarca e la Norvegia. In Maggio invade il Belgio e l’Olanda e riesce
ad accerchiare l’armata franco-inglese a Dunkerque. A stento i soldati
si salvano imbarcandosi per la Gran Bretagna.
Così la famiglia partì per Massa. Io rimasi però
a Vimercate, ospite dello zio Verdi che aveva ereditato da mio padre l’officina,
il suo contenuto e l’appartamento.
La vocazioneIl ricordo del Vimercate della mia infanzia, portato lontano dagli avve-nimenti, sarà ingigantito forse inconsciamente. Anche dai ricordi delle grandi parate, oltre il fatto che ne conoscevo ogni angolo, ognuno ingrandito nella memoria. Ci sono ritornato da grande: delusione! Quei grandi ricordi confrontati con la realtà di strette viuzze, di cose nuove di gusto pacchiano, mi han-no fatto fuggire. Preferisco quelle immagini tanto grandi per la mia fantasia infantile.Quello che ricordo più di tutto sono delle gonne nere. Delle gonne nere da cui spuntavano strane scarpe con una grossa fibbia cromata. Più tardi ho rivisto quelle scarpe nelle illustrazioni del Gonin dei Promessi Sposi. I preti furono assai numerosi nella mia infanzia. Anzitutto quelli dell'Oratorio, il posto dove si rifugiavano bambini e ragazzi di tutte le età. Vi andavo, appena grande abbastanza, tutte le domeniche a messa ed a giocare. Al cinema, poi, quando avevo i 50 centesimi necessari. Al cinema dell'Oratorio, beninteso, non a quello peccaminoso di Via Garibaldi. Ricorderò sempre il bravo don Attilio che reggeva l’Oratorio e giocava a pallone con noi. Ricordo le due grandi chiese di Vimercate. La cattedrale santuario con l’intenso odore d’incenso nelle funzioni delle grandi feste. L’austera e medievale chiesa di Santo Stefano, che ospitava durante la quaresima dei padri predicatori. Si sbracciavano dal pulpito alto sopra la folla a predire le fiamme dell’inferno per i peccatori. La pelle s’incaponiva al pensiero dei miei peccati e delle fiamme dell’inferno che mi sarei meritato. L’Oratorio fu il luogo dove imparai il catechismo. Bei tempi allora per me. Allora sapevo chi era Dio: 'Dio è l'essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra'. Allora sapevo dove era Dio: 'Dio è in cielo ed in terra ed in ogni luogo'. Ora? Ora non so. Ero molto bravo al catechismo, tanto che ci tennero a darmi una medaglia. L'ho persa. Peccato. Ero anche aspirante chierichetto. Anzi, il mio più grande desiderio era di divenirlo. Ma era un compito troppo arduo. Così mi pareva. Avevo paura di dimenticare le parole del confiteor durante la Messa. Veramente i chierichetti non si preoccupava-no tanto di ciò. Giuro che non capivano una parola di quello che dicevano. Non solo, ma nessuno, neanche il prete, riusciva a capirlo. Avevano però la cantilena adatta. Io desideravo ardentemente servire la messa. Specialmente per via del campanello. Lo accarezzavo in sagrestia e guardavo con invidia la noncuranza con cui l’afferrava il chierichetto capo. Solo una volta mi per-misero di suonare il campanello in chiesa al sanctus. Fu perché avevano bi-sogno di un rinforzo. Era una grande messa cantata e per di più celebrata nella cattedrale. Vi erano tre o quattro campanelli da agitare. Il mio fu un compito corale, diciamo. Mi limitai a scuoterlo per qualche secondo, in sordina. Il vero gesto che a me piaceva tanto, l'alzare imperiosamente il campa-nello fin sopra la testa per poi farlo scendere con forza, due, tre volte, quello lo fece il capo. Quella volta sembrò più fiero che mai. Mi piacevano le funzioni in chiesa specialmente quando vi era addobbo grande di parati. Mi piaceva in particolar modo la processione. Allora toccava anche a me un incensorio. Com’ero fiero di dondolarlo da destra a sinistra, come m’inebriavo di quell'acre odore d'incenso. Mi sembrava che tutti gli oc-chi della gente ferma lungo la strada a veder passare la processione, fossero rivolti a me. Certamente mi cercavano in quelle occasioni gli occhi di mia madre. In particolare quell’anno che, ancora piccolo, mi avevano messo due ali da angelo. Solo allora ho veramente goduto del culto della religione cattolica. Allo-ra mi piaceva tutto della religione. Le prediche suscitavano in me entusia-smo. Le missioni, morire per Cristo; morire, già, perché gli infedeli uccidono e torturano i suoi paladini. Mi montai la testa tanto che volli farmi prete. Ma poi dovetti partire per altri paesi, per altri contesti, dove i preti erano meno pre-senti. La toscana Versilia. Ma questo sarebbe avvenuto più tardi. Tra i ricordi di quegli anni c’è anche quello di un’insolita animazione un pomeriggio del febbraio ’39. I nostri giochi erano interrotti ogni tanto da qual-che grande che usciva da casa portando la notizia sentita alla radio che vi era stata ancora fumata bianca. Finalmente ci fu la fumata nera e Pacelli di-ventò papa Pio XII. Di quell’avvenimento a me interessò soprattutto la que-stione pratica di come si facesse ad avere la fumata bianca o nera. Mio pa-dre, sicuro di sé, disse che la fumata bianca si faceva con la paglia, mentre per quella nera ci voleva il carbone di legna. Non ho mai verificato se lui mi avesse risposto con sicurezza per cognizione di causa. In ogni caso, non persi l’alta opinione che avevo di lui come uno che di cose pratiche se ne in-tendeva. L’elezione del nuovo papa fu certamente occasione di cerimonie in chiesa ed all’Oratorio. Ma non ne ho particolare ricordo. Don Attilio il rettore dell’Oratorio fu il tipo di prete che più
ebbe, involon-tariamente per lui, l’effetto di farmi considerare l’idea
di farmi prete. Benché ogni tanto ci avessi già pensato,
fu determinante l’ultimo anno in cui vissi da solo a Vimercate.
Il preside ogni tanto chiamava uno di noi, non per fargli la predica, ma per discorrere con lui, sul futuro, su quali fossero le sue intenzioni. Ti riceveva nel suo bel studio, dietro ad una larga scrivania con alle spalle una biblio-teca piena di libri. Fu quel suo modo di parlarci, quella calma e serenità che traspirava da tutto intorno, che, aggiunta all’esempio di don Attilio, mi fece pensare sempre più spesso all’idea di entrare in seminario. Ma non ne parla-vo mai con nessuno. Era una cosa che lasciavo maturasse dentro di me. Non potevo certo parlarne con i cosiddetti “prefetti” che ci sorvegliavano il pomeriggio durane il doposcuola. Erano dei seminaristi, che studiavano nel collegio stesso e che sottraevano qualche ora allo studio per far studiare noi. Erano giovani preoccupati soprattutto di riuscire a mantenere la disciplina più che investigare cosa coltivassero nell’animo gli allievi. Che tra l’altro, nonostante il luogo, se appena smettevi la guardia diventavano turbolenti come in tutte le scuole. Il collegio era frequentato soprattutto da esterni, miei compagni alla
scuola elementare. Gli interni erano pochi, tra cui il sottoscritto che
però essendo di Vimercate veniva spesso lasciato uscire nelle ore
di libertà per an-dare a trovare i parenti. Questa almeno era la
scusa che usavo. Magari, in-vece che da mio zio Verdi, andavo all'Oratorio
dove sentivo grida dei ragazzi che giocavano al pallone. Fu grazie ad una
di queste uscite eccezionali per via della parentela, che non partecipai
ad un episodio che ebbe gravi conseguenze per uno dei miei compagni.
Devo dire che io non approvai quella manifestazione d’esuberanza giovanile.
Anzi, i miei propositi di ben fare per tutta la vita vennero consolidati.
Andai a confessarmi da don Attilio e gli manifestai il proposito di farmi
prete. Non si prese gioco di me. Forse non sapeva bene come prendere una
così improvvisa determinazione. Mi disse di andare a parlarne con
il Prevosto. Vimercate, parte importante della diocesi di Monza, e che
ambiva da anni a diventare città, a superare lo stato di paesone,
non aveva il solito parroco, bensì un prevosto, un monsignore. Il
prevosto - non mi ricordo il nome per-ché tutti lo chiamavano Signor
Prevosto e non don… come si faceva coi preti - aveva la physique du role.
Alto, signorile, riservato, anziano con una cara-mellosa bonomia in volto
quando ti parlava, incuteva in me molta soggezio-ne. Tuttavia dovetti decidermi
ad andare da lui, per il problema che mi urge-va, anche perché le
scuole sarebbero finite tra poco ed io avrei dovuto raggiungere i miei.
Così il pomeriggio di un sabato, raggiunsi la canonica. Si at-traversava
un giardino per arrivare alla porta. A fianco, una grotta riproduce-va
la Madonna di Lourdes. Mi inginocchiai e fece il segno della croce, cer-cando
coraggio.
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