1938-1940 A scuola e dintorni


La colazione era sempre la stessa, una bella tazza di latte con della ci-coria, l'olandese Frank, e del bel pane del giorno prima. Qualche volta il pane era di mais, pangiallo, ed era una variante molto gradita. "Sei in ritardo anche questa mattina. Tua sorella è già andata. Corri, se no farai tardi." Così la mamma gli dava l'ultima strigliatina mettendogli in mano la cartella dove era stata immessa anche la merenda. Di solito un cartoccio con un panino, burro e marmellata o anche solo, e forse ancora più gradito, burro e zucchero. Di corsa faceva la stessa strada che per andare dal signor Brusa. 
Anche Attilio era già avanti quella mattina. Non c'era tempo pertanto per dare calci a dei sassi. Finalmente, proprio all'altezza della salumeria rag-giunse Attilio che viaggiava con due altri ragazzini al fianco. Nel frattempo, mentre passavano davanti alla chiesa parrocchiale se n’erano aggiunti altri due. Da qui, girando un po’ a destra, la piccola troupe infilava la strada asfal-tata e dritta che portava alla scuola. A quell'ora la strada era piena di file di ragazzini e ragazzine. Naturalmente le file erano o tutte di maschi o tutte di femmine. Non solo le classi erano separate, ma anche le file che si formavano spontaneamente per recarsi a scuola. Si potevano contare a quell'ora al-meno una cinquantina di file, ognuna di sette od otto ragazzi affiancati in mo-do da occupare tutta la sede stradale. Per uno che le osservasse passare, potevano sembrare delle onde marine che si susseguivano a ritmo fisso, salvo per il colore che era alterno: grembiuli neri per i maschi, bianchi per le femmine. Per fortuna di quei tempi di auto ve n’erano poche in circolazione. E comunque quelle poche non si azzardavano certo a percorrere quella stra-da l’ora d’inizio e quella di fine delle lezioni. 
 A Luciano piaceva andare a scuola ed il profitto era buono. Apprezza-va molto anche l'intervallo per la ricreazione, sia per la merenda nella cartel-la, sia per lo scatenarsi dei ragazzi nel cortile per profittare al massimo del quarto d'ora di libertà. Al termine delle lezioni la strada si ripercorreva in sen-so contrario, e si sarebbe potuto fare con più tranquillità e senza l'affanno di arrivare tardi. Ma qui si faceva sentire un'altra urgenza: trovarsi il più presto possibile seduti a tavola. La strada che portava dalla scuola alla chiesa mo-strava ora una struttura di traffico diverso. Non più file cadenzate, ma un di-sordinato correre isolato o a gruppi, anche di sesso misto questa volta. Forse era lo sciamare tutti assieme fuori della scuola che non favoriva il formarsi di file, come invece avveniva la mattina con la cooptazione, strada facendo, di due o tre alla volta che si aggiungevano a quelli già in marcia. O forse era solo la voglia di arrivare presto a casa. Salvo che, per una qualche ragione – ma la cosa capitava raramente – fossero usciti da scuola un’ora prima del solito. Allora i ragazzi percorrevano il marciapiede inginocchiati per terra gio-cando con le palline. Il gioco, sia pure lentamente, si spostava in avanti. La pallina che fungeva da boccino veniva via via tirata in avanti. In una mezz'oretta si poteva arrivare fino a casa. Per tutte le evenienze, ogni ragazzo ne aveva sempre in tasca. E Luciano aveva anche la sua formidabile ed invidiata sferetta d'acciaio.
A casa non sempre in realtà trovava già pronto a tavola. Papà poteva avere ancora da fare in bottega e la mamma ci teneva che sedessero tutti assieme. Magari c'era anche da andare a prendere un secchio d'acqua alla fontana nella corte. E chissà perché quello era un compito che toccava sem-pre a lui. Mai la sorella, lei no, lei era una bambina.
Se il papà era in vena, se non aveva qualche preoccupazione per tratte in scadenza da pagare per materiale che aveva comprato e non ancora utilizzato o venduto, c'era sempre da stare abbastanza allegri. Anche perché il papà si divertiva a tavola a prendere in giro la mamma bergamasca. I ber-gamaschi, si sa, non sono famosi per l'arte culinaria, non sanno fare la polenta, fanno cuocere troppo la pasta, bevono troppo latte in cui invece di zuc-chero ci mettono vino... I bambini ridevano, la mamma faceva l’imbronciata... In quei giorni, Luciano e Lia sarebbero stati volentieri a tavola ancora un po-co. In altri giorni tuttavia, quelli delle tratte in scadenza, allora era meglio fini-re in fretta e alzarsi il più presto possibile da tavola per mettersi a fare i com-piti. Qui un piccolo problema c'era sempre. Dove si metteva lui e dove si sa-rebbe messa la sorella? Finiva quasi sempre che a Luciano toccava di restare in cucina ed usare il tavolo su cui si era desinato, mentre la sorella si riti-rava nel tinello, sul bel tavolo quadrato coperto da un tappeto di velluto da-mascato. Salvo che la sorella quel giorno andasse a fare i compiti dall'amica Mariarosa, quella della villa. 

E quel giorno era uno di quelli. Non che a Luciano importasse poi molto fare i compiti sul tavolo di cucina, anche se Licia, la sorellina più piccola che cominciava a girare da sola per casa, stesse volentieri in cucina e lo disturbasse di continuo chiedendo una matita od un pastello per fare poi degli orribili scarabocchi. Un po’ era per avere più quiete, ma era soprattutto una que-stione di principio. E le questioni di principio anche tra i bambini hanno un bel peso. Comunque, nel tinello si stava più tranquilli, tutto era silenzioso e pulito. La sorellina più piccola al massimo si affacciava sulla porta subito richia-mata dalla mamma. Il tinello veniva utilizzato per le sue funzioni solo nelle grandi feste o se c'erano dei parenti a pranzo. Altrimenti si mangiava sempre in cucina. Era anche per i ricordi dei giorni di festa che il tinello riportava alla mente, che era più bello sedersi là per i compiti. Magari vi era qualche distra-zione in più proprio perché il pensiero andava a quei giorni, a quelle mangia-te. Quante portate l'ultimo pranzo di pasqua? Dodici, ricordava Luciano. Il pe-ricolo era abbastanza evidente se c'era da scrivere un tema, come quel giorno. La punta della penna rimaneva a lungo in bocca in attesa che venisse l'i-dea buona per partire. Diverso era se vi fosse stato un compito di matemati-ca. Lui ci si buttava subito a capofitto per finire più in fretta possibile.

La bici della maestra

Anche quel giorno Luciano, finiti i compiti, cercò di uscire di casa senza farsene accorgere. Il pavimento che doveva traversare della sala grande della bottega, quella dell'esposizione della merce, era di grosse tavole di legno posate su non si sa che cosa. Forse su dei travi come se sotto ci fosse una camera. E forse una camera c’era veramente. Si parlava di una cripta che qualche operaio aveva scoperto, mentre si facevano i lavori per adattare la vecchia chiesa ai più mondani usi cui l’aveva destinata la contessa Casano-va. A quegli operai pare fosse apparso all’improvviso un prete seduto su una poltrona di pietra. Forse anche il prete era di pietra. Ma gli operai spaventati dall’apparizione non stettero a porsi il problema. Rinchiusero tutto. E traman-darono il racconto gotico alle paure delle future generazioni. Il racconto era arrivato anche a lui, e nei momenti più meditativi un po' di paura la sera l’aveva se calpestava da solo quelle assi scricchiolanti. 
Ogni passo dava un rimbombo pauroso e tutto il legname scricchiolava, mentre si alzava un po’ di polvere, sebbene la mamma molto spesso con l'annaffiatoio cercasse di inumidire quel legno secco e tarlato. Ma Luciano quel giorno non pensava tanto al prete seduto là sotto, quanto a non farsi sentire da papà nell'officina che comunicava con una porta direttamente nella sala d'esposizione. Se l'avesse fatta franca con lo scricchiolio del legno vi era poi il campanello sulla porta che per forza lui doveva aprire per uscire sulla piazzetta. Anche quella volta la traversata del negozio venne rilevata, ed una voce perentoria lo fermò ancor prima che mettesse in moto il campanello. 
Luciano dovette pertanto cambiare direzione ed attraversare la porta che dava nell'officina. Suo padre gli mostrò una bici da donna appoggiata al muro fuori nella corte. "E' la bici della tua maestra. Va pulita come si deve e poi glie la porti." 
Era una bici da donna. Luciano riusciva a cavalcarla anche se le ruote erano da 26 pollici, proprio perché era un telaio da donna con il tubo trasversale che arrivava in basso vicino ai pedali. L'idea di portare la bici a casa del-la maestra non gli dispiaceva per l'orgoglio che avrebbe provato nel consegnarla bella pulita a lei. La maestra era un po’ il suo idolo. La ricordava sem-pre in casa. Rivedeva il suo sorriso, il suo chinarsi sul banco per controllare cosa l’allievo stesse facendo. Ricordava anche il sorriso d’intesa con il com-pagno quando nel piegarsi sul banco della fila accanto, il grosso sedere della maestra si piegava fino ad urtare il loro. 
Così non si lamentò troppo quella volta – neanche col pensiero - che la pulizia della bici avrebbe ritardato di un'oretta il giocare con gli amici.
La pulizia consisteva di tre fasi. Prima di tutto con uno straccio si to-glieva la polvere ed il fango, poi con un pennello intinto in petrolio si ripassa-va tutto, telaio, ruote, mozzi, pedali. Infine con uno straccio pulito si asciuga-va e si lustrava. Spesso Luciano saltava la prima fase, se non era visto dal padre. Ma quella volta, trattandosi della bici della sua maestra procedette se-condo le regole e con molta attenzione per far sì che neanche la più piccola macchia di sporco rimanesse. Per rendere ancora più lucido il telaio, prese una pezza di stoffa tagliata a striscia, un estremo in una mano e uno nell'altra e strofinò velocemente tirando la striscia avanti ed indietro lungo i tubi, i mozzi ed anche tra un raggio e l'altro sui cerchioni. Poi ingrassò ed oliò i mozzi, la catena, i pedali, lo sterzo. Alla fine, smontata la bici dall'attrezzo su cui l'aveva appesa per la pulitura, la guardò con attenzione. Fece dei piccoli interventi con la saliva per cancellare anche piccoli puntini, forse delle cac-chette di mosca. La bici ora brillava come nuova. "Glie la vado a portare, pa-pà?" Questi diede una verifica al lavoro del figlio, mise una rete salva-gonna nuova, controllò la pressione dei pneumatici e poi diede via libera: "Attento a cadere e a  sporcarla." 
Luciano afferrò il manubrio, mise il piede sinistro sul pedale, con il de-stro saltellò per qualche metro spingendo in avanti la bici finché questa non raggiunse velocità sufficiente e poi infilò il piede destro a traverso del telaio fino a posarsi sul pedale destro. In questa posizione la testa emergeva poco al disopra del manubrio, ed il corpo si spostava a destra ed a sinistra ritmi-camente con l'andare su è giù dei pedali. Ma niente paura, Luciano era ormai un esperto ciclista anche con le bici dei grandi. 
Infilò la stradina che scendeva verso la chiesa di S. Stefano. Qui girò rapidamente a sinistra per attraversare la grande piazza dietro l'abside della chiesa. Tutta la pavimentazione era in selciato, ed oltre ad ondeggiare a destra e sinistra la bici sobbalzava, sia per la natura del selciato sia perché ogni tanto Luciano infilava qualche buca. Il risceu nella grande piazza lasciava, in-fatti, un po’ a desiderare. Era il campo di battaglia di frotte di ragazzi. Anche allora era in corso una partita al pallone. Luciano non poté fare a meno di fermarsi a guardare, una gamba di qua ed una di là del telaio. Qualche amico passandogli vicino mentre correva alla ricerca del pallone, gli gridò di restare a giocare. Lui fece segno che ora non poteva. Rimise in moto la bici questa volta senza la rincorsa, ma facendo forza sui pedali. A partire così, un ragaz-zino con una bici da grandi, forte era il rischio di cadere se non si riusciva a spingere subito a fondo e forte sui pedali. Ma la bici partì superando anche l'ostacolo di qualche sasso fuori posto. In fondo alla piazza del sagrato svoltò a destra per una strada che faceva sempre per andare dal droghiere. Infatti, dopo un po’ gli passò davanti e sentì od immaginò profumo di cioccolato. Che buona la merenda di pane e cioccolato! Ma certo non era roba di tutti i giorni. 
La strada in selciato terminava dando su una delle due vie principali del paese. Questa era lastricata in porfido e l'andare divenne molto più regolare e dolce. Tanto più che la strada era leggermente in discesa. Girando a sini-stra per entrarvi, diede una scampanellata. Nonostante ciò, per poco non va ad urtarsi contro un ciclista calato sul manubrio di una bici da corsa. Forse una di quelle costruite da suo padre. Il ciclista per scansarlo dovette dare una brusca girata di sterzo. Non era successo niente, ma quanto bastava perché questi si alzasse dritto tenendo una mano sola sul manubrio e volgendosi al-l'indietro verso il ragazzo lo apostrofasse in un bel dialetto milanese dal signi-ficato molto chiaro. Ma Luciano era ormai quasi al ponte sulla Molgora. Era un ponte, ma anche una porta della città, residuo di mura medievali. Due tor-rioni alti uniti da un arco sotto il quale passava la strada. La Molgora era un torrente tranquillo che non aveva mai dato preoccupazione ai Vimercatesi. Almeno che lui sapesse. Vi era sempre poca acqua e non era un posto in cui i ragazzi andassero a giocare. Luciano non attraversava spesso quella porta, salvo la domenica se andava a spasso con i genitori fino al cimitero, dove era la tomba del fratellino. 

La maestra abitava poco fuori della porta, di là dalla Molgora. La strada qui però era in terra battuta. Luciano, per paura che la polvere sollevata dalla bici in corsa la sporcasse, si fermò e spinse la bici a piedi tenendosi sul ciglio dove cresceva dell'erba. C'era già stato altre volte, non sempre per riportare la bici. Qualche volta la maestra aveva invitato tutti gli scolari ad una merenda. Era una casa grande con davanti un giardino. Un portone laterale immet-teva in una corte con sul fondo un magazzino. Il marito della maestra era un commerciante di vino. Lo si sentiva dall'odore pungente ed un po’ inebriante che circondava la corte. Luciano entrò dal portone nella corte e da lì bussò sulla porta di retro della casa. 
"Vieni dentro, Luciano. Ho appena preparato una torta e ce n'è una fetta anche per te." Luciano adorava la sua maestra, ma questo aumentava in-vece di diminuire la sua naturale timidezza. La maestra con il suo fare più dolce, lo prese per mano e lo fece entrare nel tinello. “Siediti qui”. Mentre gli porgeva una grossa fetta di torta, si sedette accanto, anche lei con un piatto in mano. "Hai già svolto i compiti?" Con la bocca piena accennò di sì. La maestra che stava bevendo da una tazza: "Non credo che ti piaccia il tè. Forse ti va un bel bicchiere di spuma." La spuma era la bevanda di moda, faceva concorrenza all'aranciata. Era un po’ amarognola e di colore scuro. La si vendeva in grandi bottiglie. Fu con una di queste in mano ed un bicchiere che la maestra dopo un po’ rientrò in tinello. Luciano, con l'ultimo boccone di torta ancora in bocca bevve d'un fiato. Era imbarazzato e non parlava. Un conto era a scuola dove la maestra era seduta in cattedra e parlava, scher-zava ed interrogava. Allora sì che Luciano non era timido. Il suo ruolo di sco-laro lo faceva bene ed interveniva spesso anche se non era lui ad essere interrogato. Ma lì a casa della maestra, cosa poteva fare, cosa poteva dire? 
Per farlo parlare la maestra gli chiese della bici, se tutto era in ordine, cosa gli aveva fatto. Luciano allora riuscì a parlare un po’, a descrivere, incitato dalla maestra quello che aveva fatto, come l'aveva fatto. "Bravo Luciano, ol-tre che bravo a scuola sei bravo anche come meccanico. Dirò a tuo padre però che non ti faccia lavorare troppo, devi anche studiare. E a giocare, riesci anche a giocare?" Lui emise un mugolio. "Va bene, vuol dire che dirò a tuo papà che ti lasci un poco anche giocare. Ma forse ti sto trattenendo qui, pro-prio mentre ti aspettano i tuoi amici."

Luciano rifece la strada a piedi di corsa. Sul ponte della Molgora si fer-mò a guardare giù. Come al solito quasi niente acqua. Che stupido torrente. Poi di corsa fino davanti al droghiere. La maestra nel salutarlo gli aveva messo tra le mani una moneta di 50 centesimi. "Non dire niente a papà, comprati delle caramelle", gli disse accarezzandogli i riccioli. Con mezza lira si comprava già una tavoletta di cioccolato. Se la strada non fosse passata davanti al droghiere, chissà se avrebbe fatto una deviazione... Ma la strada proprio di là passava. Con la tavoletta di cioccolato in bocca Luciano entrò nella grande piazza del sagrato. Erano ancora là che giocavano al pallone. Finì di ingoiare il cioccolato e poi si mise di corsa anche lui dietro alla palla. Non era un gran giocatore, a dire il vero. Un po’ grassoccio, a correre troppo gli veniva il fiatone. Poi, forse, dedicava meno tempo al pallone dei suoi amici. Spesso, pertanto, finiva in porta. Quella volta in porta non c'era nessuno. Vi era solo il segno dei pali, due mucchietti di sassi strappati dal selciato. I ragazzi si divertivano di più a rubarsi la palla e poi a tirare in porta. Nessuno voleva fare da portiere. Ma con il suo arrivo, quello che era un po’ il capo del-la banda: "E' arrivato Luciano. Va in porta, va in porta." E così dicendo lo spinse proprio là. Il gioco non si era per questo arrestato. Luciano si mise in posizione aspettando che la palla arrivasse. Ed, infatti, arrivò, e fu goal. Un fischio di disapprovazione segnò la sua poca rapidità di reazione. Punto sul vivo, si atteggiò a grande portiere, ginocchia leggermente piegate, mani al-largate, sguardo vigile. E quando il pallone arrivò di nuovo, si spinse in avanti per afferrarlo al volo. Ma nella foga di giocare bene il suo ruolo, aveva dimen-ticato che si giocava sul selciato. Finì quindi disteso, con una scorticatura in viso. Lì per lì non ci fece molto caso. Sputò sul fazzoletto e sì pulì il viso. Do-po un poco tuttavia cominciava a bruciare. Nel frattempo il gioco languiva, qualche giocatore si era già allontanato. Anche Luciano pensò di andarsene. Il bruciore era forte, ma ancora più forte la preoccupazione di cosa avrebbero detto a casa. 
La mamma al vederlo si preoccupò subito: "Mio dio come sei conciato! Cosa ti è successo?" Il sudore e lo sporco, forse un poco anche del cioccolato rimasto ai margini della bocca impastato con il resto, rendevano la cosa più brutta di quanto in realtà fosse. Chiamò il marito ed insieme pulirono la ferita con dell'acqua ossigenata. Così ripulito, la cosa tornò nelle sue giuste proporzioni, qualche graffio i cui segni sarebbe spariti dopo un paio di giorni. Tranquillizzato sulle condizioni del figlio, il papà si preoccupò per la bicicletta: "Dì la verità, sei caduto dalla bicicletta della maestra? Dove l'hai lasciata, in che condizioni è? Possibile che non mi possa mai fidare di te?" Con la faccia che bruciava ancora di più per effetto dell'acqua ossigenata, si affrettò a dire che no, che non era caduto in bici. La bici l'aveva consegnata alla maestra. E' stato al ritorno che correndo per far presto a venire a casa era inciampato e si era sbucciato scivolando contro un sasso fuori posto. Ci credettero i suoi? Probabilmente no, ma passato lo spavento erano tornati di buon umore e non vollero approfondire. La mamma gli chiese della maestra.

Le frontiere della scienza

Mio padre aveva studiato fino alla terza fetta. Intendeva dire fino alla terza elementare. Non era molto, ma per i suoi tempi non erano in tanti a po-ter dire lo stesso. Sapeva scrivere e leggere, come dimostrava la lettura della Realtà Romanzesca del venerdì sera. Sapeva fare di conto ed anche dise-gnare. I disegni dei suoi brevetti li faceva lui, magari dopo avere già realizza-to il prototipo senza bisogno di disegno o di schizzi. 
Mio padre applicava la sua capacità d’inventore e di realizzatore anche a compiti più modesti. Per esempio per abbellire la casa o fornirla di nuovi servizi. Fu così che il nostro gabinetto triangolare nel cortiletto venne dotato di una doccia a riscaldamento solare. Purtroppo non brevettò l’idea pensan-do che non ne valesse la pena e che non servisse neanche industrializzare il prodotto, perché chiunque, dotato di buon senso, ci sarebbe potuto arrivare da solo. Si vede che allora non era ancora di moda il discorso sulle energie alternative. Quel problema lo prese sul serio suo figlio che pensò da grande di scegliere come mestiere quello dello sfruttamento dell’energia alternativa per eccellenza, l’energia nucleare. Purtroppo avrebbe fatto meglio a seguire la strada indicata dal padre per l’energia solare, visto che gli ambientalisti si dettero poi da fare per cancellare l’energia nucleare dall’Italia. Mio padre aveva visto giusto, ma, come spesso capita ai creativi, era troppo in anticipo con i tempi. 
Il dispositivo solare integrato nella doccia era brillante, ma semplice. Sul tettuccio piatto del gabinetto mio padre installò una vasca di lamiera zincata larga come il tetto, poco fonda ed a cielo aperto. Dal fondo della vasca partiva un tubo che penetrato nel soffitto terminava in un imbuto a doccia. Con dei secchi pieni, salendo su una sedia, si riusciva a riempire la vasca d’acqua. Il sole, quando c’era, scaldava l’acqua. Bastava entrare nella latrina, girare un rubinetto inserito nel tubo che terminava nella doccia, e via. L’inconveniente era che d’inverno raramente funzionava, anche perché occorreva prima rompere il ghiaccio che si formava nella vasca. Ma d’estate, non più bagno nel mastello di legno. Inoltre, il giorno della doccia non era più fisso, ma era lasciato al libero arbitrio della meteorologia.
Mio padre, dopo il successo del brevetto del freno per cicli da turismo, dopo la disavventura del cambio, che però aveva confermato la bontà delle sue idee, aveva tentato idee più grosse come la bicicletta archimedea dalle lunghe pedivelle. Poiché il passaggio all'industrializzazione di quel prototipo era superiore ai suoi mezzi, rivolse il suo bisogno di creare qualcosa di nuovo su orizzonti ancora più grandi. 

Di scienza sapeva solo quello che aveva letto nelle pagine della Domenica del Corriere. Ma coltivava sogni di realizzare cose fantastiche che l'approfondita conoscenza scientifica forse gli avrebbe impedito di avere. 
Se avesse avuto una cultura chimica si sarebbe lasciato prendere dal sogno alchemico della trasformazione di vile materia nel prezioso oro. A questo ci penserà suo figlio da grande, quando deciderà di fare studi di fisica e conoscerà cos'è la trasmutazione nucleare. Sarà stato vedere suo padre coinvolto su tematiche fondamentali, sarà stato l'influsso astrale di quegli an-ni che videro le scoperte di fisica che porteranno alla fissione nucleare.
I giovani fisici di Via Panisperma a Roma guidati da Enrico Fermi, che prenderà il premio Nobel nel ’38, si divertono a giocare con i neutroni prodotti da una sorgente di berillio e rallentati in grafite. Il sogno alchemico della tra-smutazione dei metalli ha inizio. Uno dei “ragazzi” Emilio Segre bombardan-do il molibdeno produce nel ’37 il primo elemento radioattivo artificiale, cui verrà dato il nome di tecnezio. Otto Hanh e F. Strassman nel ’38 scoprono la fissione dell’uranio, sfuggita a Fermi. Nel ’39 saranno i coniugi Joliot e Curie a formulare la teoria delle reazioni nucleari a catena. La radio dà la notizia della morte di Guglielmo Marconi. Ettore Maiorana, il più promettente dei gio-vani fisici di Fermi scompare nel Tirreno. 
Il sole continua a splendere ed a riscaldare un mondo vicino allo sconquas-so. Hans Bethe nel ’39 spiega da dove viene la sorgente d’energia nel sole e nelle stelle. Non è la fissione del nucleo, ma la fusione dei nuclei leggeri co-me l’idrogeno in nuclei più pesanti. Sarà la premessa per le bombe ad idrogeno del dopoguerra.

Mio padre non era né un fisico né un chimico. Le sue ambizioni erano grandi, ma lui era solo un meccanico. Decise quindi che valeva la pena di cercare di inventare il moto perpetuo. 
Una prima realizzazione concreta la fece con grande divertimento di tutti i ragazzi della corte. Poiché i topi non mancavano nei dintorni, le trappo-le che venivano sparse un po’ dappertutto erano spesso visitate da topi più o meno grandi. Ad uno dei gatti del vicinato veniva dato mandato di sistemare il malcapitato. Per divertirsi un poco, si chiamavano i ragazzi, si apriva la trappola e si lasciava che il gatto rincorresse ed afferrasse al volo il topolino. Una volta tuttavia il topo era così grosso che fu lui a rincorrere lo spaventa-tissimo gatto. Mio padre decise di sperimentare la possibilità di mettere a frutto quelle catture. Costruì una gabbia cilindrica che poteva ruotare attorno all'asse. Venne fissata al muro della parete senza finestre della prima corte. Appena catturato un topo, lo prese e lo infilò nella gabbia. Il topo si aggrap-pava disperatamente alle barrette orizzontali della gabbia. E questa girava, girava. Al gruppetto dei ragazzi della corte altri se ne aggiunsero richiamati dalla divertente novità. Mio padre forse pensava a come sfruttare quella pic-cola forza motrice. Ma il topo piuttosto che subire lo sfruttamento, morì. Così lo trovammo la mattina dopo. 
L'idea di inventare qualcosa che togliesse la fatica all'uomo aveva pre-so mio padre. E così pensò al moto perpetuo. Sapeva che nessuno v’era mai riuscito. Ma questo lo stimolava ancora di più. Probabilmente non sapeva che la scienza ufficiale aveva decretato che era impossibile realizzare un moto perpetuo di prima specie. Se l'avesse saputo, ed ammesso anche che po-tesse indovinare perché era detto di prima specie, non avrebbe desistito dal tentativo. Bastava avere l'idea buona. E lui l'ebbe l'idea buona. E fu buona perlomeno per Luciano che ne derivò le famose sferette metalliche che usa-va come biglie per spiazzare le palline di creta o di vetro degli invidiosi ra-gazzini che giocavano con lui a palline.
Il sciur Ugo pensò ad un meccanismo per cui delle sferette molto lisce, d'acciaio appunto, venissero messe una sull'altra in un tubo verticale. In cima al tubo vi era un'apertura da cui la sferetta più alta usciva e poi discendeva percorrendo un canaletto che la riportava alla base. Qui, per la velocità acquistata nella discesa avrebbe dovuto spingere in su la colonna delle sferette finché quella in cima sarebbe emersa per uscire dalla porticina e scender a sua volta precipitevolmente. E così via, una dopo l'altra le sfere sarebbero uscite dalla cima rientrate in basso. E così di seguito, per sempre. Forse la costruzione era più complessa di come la descrivo. Ripensandoci non riesco a capire bene come dovesse essere il meccanismo. Certamente vi erano dei bracci mobili su cui la pallina nella discesa cadeva per farlo risalire come i bracci di una bilancia e così muovere qualche altro braccio che doveva pro-durre anche un effetto leva. Poi ci saranno stati dei contrappesi per bilanciare la colonna di sferette come nella catena del cinquecentesco ingegnere Stevi-nus. In ogni caso, ricordo la nostra meraviglia, le sferette, ma non i dettagli costruttivi. A quell’epoca le mie cognizioni di meccanica erano limitate ed a dire il vero non sono mai state il mio forte.
Mio padre costruì un prototipo. Per nasconderlo da occhi indiscreti vi lavorava alla sera. Quando fu finito venne messo sul tavolo in cucina e venne inaugurato. Noi tutti attorno a guardare. In effetti, la sferetta d'acciaio liscia e lucida scendeva rapida, saltava su una leva, rallentava, scendeva alla base della colonna. In cima una sferetta si affacciava, saliva, quasi ce la faceva ad uscire. Noi tutti a fare il tifo: dai, dai che ci sei, ancora uno sforzo... Niente da fare. La sferetta, tutta sudata per lo sforzo, rallentava, si fermava, non riusci-va ad uscire. Anzi, poi tornava un po' in giù respingendo fuori la sferetta che era arrivata alla base del tubo. Mio padre non si perse di coraggio. E' l'attrito, disse. Lubrificò per bene la canaletta. In effetti, la sferetta saliva un po’ più in alto. Quasi quasi ce la faceva. Io e mia sorella Lia l'aiutavamo soffiando sulla sferetta in basso che scendeva lungo la canaletta. Niente da fare. La sferetta tornava giù. Quella sera andammo a letto delusi. Papà ci assicurò che a-vrebbe migliorato il dispositivo. Bisognava rendere più liscia la canaletta. Dopo qualche giorno di tentativi vani, rinunciò. E così Luciano poté disporre del-le sferette per giocare a palline con gli amici.

Mens sana in corpore sano

Credo di avere fatto tutte le malattie infettive dei bambini. Sicuramente mi ricordo degli orecchioni. A casa da scuola con la faccia gonfia e le orec-chie calde per più di una settimana. E non poter giocare con gli altri. In com-penso, neanche dovevo riparare delle gomme bucate. 
Se qualche volta c’erano dei problemi di pancia, c’era il terribile rimedio dell’olio di ricino. Credo che anche da grandi tutti si ricordino quanto schifoso fosse. E forse fu proprio pensando a come lo avevano odiato da bambini, che le squadracce fasciste lo utilizzarono come complemento al manganello. Quindi, se uno soffriva di mal di pancia cercava di far finta di niente. Ma la mamma se n’accorgeva.
 Per fortuna esisteva una variante, leggera e gradevole. Il purgante A-quila assomigliava a polvere di cacao e n’aveva anche il sapore. Mia madre lo teneva sempre pronto in un cassetto. Proprio dove teneva anche lo zaffe-rano, il cacao, il lievito Bertolini, la cicoria Frank per il caffè nero. Mi ricordo che un giorno decise di fare un umido di spezzatino di bue. Per rendere l’intingolo più spesso e scuro, oltre al vino rosso ci aggiungeva anche del ca-cao. Mia madre non è mai stata una grande cuoca. Mio padre ha dovuto sudare non solo per toglierle il vizio bergamasco della polenta grossa e dura, ma anche per insegnarle a tirare la sfoglia per le tagliatelle. Che mia madre, avviata da giovane ad una brillante carriera d’ispettrice di filanda, incontrato mio padre avesse accettato non solo di sposarlo, ma anche di imparare a fare la sfoglia, sta a significare che era proprio innamorata. E lo restò tutta la vita, nonostante i numerosi difetti che, secondo lei, aveva mio padre. Quando cucinava, lo faceva in fretta. Aveva sempre qualche altra occupazione, com-preso vedere chi era entrato nel negozio quando il campanello attaccato alla porta segnalava che si era aperta. Deve essere stato per quello che quel giorno prese, credendolo cacao, la bustina del purgante Aquila e la versò tutta nel sugo che si stava formando attorno agli spezzatini sul fornello. E, sem-pre sopra pensiero, buttò via la bustina vuota. Così almeno disse lei. Mio padre invece ha sempre sospettato che in realtà lei si fosse accorta dell’errore, ma fece finta di niente. Anche perché buttar via la carne era un peccato. L’umido era particolarmente buono quella volta e c’era anche la polenta ad accompagnarlo. Di sugo quindi non ne avanzò neanche un poco. Bisogna di-re che il purgante Aquila aveva retto al trattamento a caldo e mantenute tutte le sue proprietà o addirittura esaltate. Per tutto il pomeriggio ci fu la fila nel rinomato cesso che avevamo nel cortiletto. Anche se qualcuno di noi, per ra-gioni di priorità, andò anche in quello comune in fondo alla seconda corte.

In quegli anni la medicina aveva fatto progressi e scoperte importanti. Intanto proprio nel ’36 esce il libro d'Alexis Carrel L’uomo questo sconosciuto che avrà un grande successo e renderà noto a tutti come conoscere l’uomo sia davvero un grosso problema. Daniele Bovet scopre gli antistaminici. P. Karrer ottiene la sintesi della vitamina E. Purtroppo qualcuno in Svizzera sin-tetizza anche l’allucinogeno LSD che tanta parte avrà poi nello sviluppo dei giovani dei fiori negli anni ’50. Mueller, sempre in Svizzera scopre le proprie-tà insetticide del DDT. 

Ma forse tutte queste nuove scoperte non erano ancora arrivate a Vi-mercate e le poche medicine esistenti si usavano quando si stava male. Tuttavia già allora se si stava bene c’era la medicina peventiva. I genitori dove-vano preoccuparsi che i figlioli crescessero sani e robusti. E anche per quello c’erano delle medicine. O perlomeno dei prodotti che si vendevano in farma-cia. C’erano due sciroppi di gusto gradevole e di sicuro effetto, almeno a sen-tire la reclame. Erano il Proton e l’Ischirogeno. Purtroppo ve n’era anche un altro, più efficace e più popolare, anche forse perché costava meno e si comperava sfuso. Era l’olio di fegato di merluzzo. Era altrettanto schifoso dell’olio di ricino. Ma mentre quello lo prendevi solo se soffrivi di mal di pancia, questo dovevi prenderlo, nelle stagioni di mezzo autunno e primavera, tutti i giorni. La mamma per convincerci, preparava anche una bella fetta di mela. Estratto dalla bocca, contorta per il disgusto, il grosso cucchiaio che era stato colmo dell’olio di fegato, infilava con mossa rapida il pezzo di mela in bocca per chiudere la smorfia. Le mele allora facevano parte dei cibi della domenica e quindi veniva apprezzato lo sforzo di addolcire la medicina con una mela, buccia compresa. 
Fu così che io crebbi sano e robusto, come pure i miei fratelli. Tuttavia una malattia grave la feci. Era l’estate del ‘38 e come tutte le estati mi ero spostato dai nonni a Villa d’Adda. A giocare, ad aiutare il nonno a rastrellare il fieno, a portare i maiali al pascolo su nel viottolo che portava alla vigna di famiglia detta il ruck. 
Quell’anno vi fu una novità. Il Comune con l’aiuto dell’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia aprì una colonia estiva. 
Non ho mai capito se il nome colonia avesse un qualche collegamento con quelle d’oltremare. In fondo andare in colonia era un modo per andare lontano, per uscire dal proprio ristretto mondo. Così almeno era sembrato a me l’anno prima quando riuscii ad inserirmi tra i fortunati che andarono in una colonia marina a Riccione. Ed i canti dei ragazzi sul treno speciale che parti-va dalla Centrale di Milano erano simili ai canti dei soldati in partenza per l’Africa. Il contenuto forse un po' diverso: “Macchinista, macchinista milanese, metti l’olio nei stantuffi. Di star qui noi siamo stuffi ed al mare vogliamo andar.”
Detto per inciso, a Riccione ebbi anche l’impressione un giorno che fosse avvenuto qualcosa di molto importante data l’eccitazione generale. LUI era arrivato per i bagni e non molto lontano da lì. Forse sarebbe addirittura venu-to a fare visita alla nostra colonia, a stringere la mano a qualche ragazzo, da uomo ad uomo. Invece non venne. Arrivò al suo posto un gerarca. Ci fecero mettere in riga e, sull’attenti, ci passò in rivista. Non era il Capo, ma il tram-busto preparatorio nella colonia fu lo stesso grande. Quel giorno il rancio fu molto meglio del solito, con torta e gelato. Il pomeriggio venne anche un pre-stigiatore. La vita in colonia era gradevole anche se il regime era un po' poliziesco. Ricordo un povero ragazzo che ebbe la sfortuna di fare la pipì a letto. Venne radunato tutta la colonia nello spiazzo davanti al caseggiato e la diret-trice mostrò a tutti un lenzuolo appeso fuori della finestra della camerata do-ve dormivamo. Chiamò poi il povero incontinente e lo additò al disprezzo di tutti. La gioventù andava temprata perché crescesse forte, sprezzante del pericolo e pronta a tutto, anche alla morte. Non c’era spazio per fare la pipì a letto.

Fu quindi con entusiasmo che appresi che anche a Villa d’Adda c’era una colonia estiva. La colonia era destinata ai ragazzi del paese. Vista la mia insistenza, si misero in moto i miei zii e ottennero che venissi accettato anch’io, anche se venivo dalla Brianza. In Comune superarono anche il fatto che i brianzoli non erano molto ben visti dai bergamaschi. Un po' d’invidia forse, perché i brianzoli erano considerati dei benestanti rispetto a loro. Tutto è relativo a questo mondo.
In colonia si andava la mattina e si tornava a casa verso sera. Il cibo era cucinato sul posto. La pulizia era assicurata? Forse. Noi ragazzi gioca-vamo fuori, a rincorrerci nei boschetti sulla pendice del monte che scende verso l’Adda ed in riva al fiume stesso. Qui vi erano dei canneti. Più in là, fuo-ri dal dominio della colonia delimitato da una rete, vi erano delle donne che lavavano i panni nel fiume. I panni venivano poi stesi ad asciugare sull’erba. Quante volte anch’io avevo accompagnato zia Lina, la sorella giovane non ancora sposata di mia madre ed avevo giocato sul prato o stuzzicando l’acqua del fiume con una canna! Si sentivano le donne cantare.
La colonia era anche dotata di servizi igienici. Uno era formato da un piccolo capanno di legno messo direttamente sul fiume. Da un buco realizzato sul pavimento si vedeva l’acqua tranquilla passarvi sotto. Ed ogni tanto arrivava anche qualche tinca. Era divertente stare a guardare come le tinche giravano attorno ai salsicciotti che lentamente dal buco scendevano volteg-giando in fondo all’acqua. 
Quindi, visto la situazione igienica, non credo si debba incolpare la co-lonia. E’ più probabile che la mobilissima salmonella tiphy l’abbia trovata da qualche altra parte. Alla casa del nonno era attaccata la stalla ed io spesso andavo a vedere mungere, bevevo il latte ancora tiepido direttamente dal secchio. Fatto sta che mio padre dovette venire con urgenza a prendermi. La diagnosi fu tifo, o meglio febbre tifoide. I miei furono assai preoccupati anche perché uno dei miei zii era morto proprio di tifo l’anno prima. 
Fleming aveva già scoperto le virtù battericide della muffa, e nel’40 sarà iniziata la produzione industriale della penicillina, prodotta per via naturale con allevamento di muffe. Io presi il tifo in anticipo rispetto ai progressi della scienza. Così ero a rischio di terminare in anticipo il viaggio. Non ho mai capito molto di medicina. I miei interessi si sono volti alla fisica ed alle forze nu-cleari. Tuttavia mi venne chiesto di fare l'introduzione alla traduzione italiana di un libro di John Sheehan in cui lo scienziato americano racconta la sua avventura di ricercatore per la sintesi della penicillina. La ragione della richie-sta era banalmente dovuta al fatto che il libro veniva pubblicato in una colla-na che era stata aperta dal mio libro sulla ricerca scientifica in Italia. Il libro di Sheehan s’intitola L’anello Incantato e descrive lo sforzo fatto durante la guerra per produrre per sintesi la penicillina. Ciò avrebbe permesso produzioni di grandi quantità rispetto all’allevamento di muffe. Il progetto di cui non avevo prima sentito parlare, ebbe dimensioni paragonabili al famoso progetto Manhattan per lo sviluppo della bomba atomica, che invece conoscevo bene. Vennero coinvolti migliaia di ricercatori, ma senza successo. C’era quell'anello incantato di molecole che rifuggiva dal farsi sintetizzare. La sintesi riuscì dopo la guerra in un piccolo laboratorio universitario, quando i tempi e le tec-niche investigative furono mature. Accettai, dopo aver letto il libro, di scrivere l’introduzione per mettere in rilievo le analogie e le differenze con il progetto per la bomba atomica, e far conoscere come gli americani non avessero in-vestito soldi durante guerra solo per produrre morte. Un pensiero forse andò a quei ricordi d’infanzia quando purtroppo nessuno conosceva ancora la parola antibiotici. 
A casa non stetti con i miei a dormire nella grande stanza con i tre fratelli per paura del contagio. Ma neanche all’ospedale. Non so se non vi fosse posto o perché i miei non vollero per potermi stare più vicino. Fu una vecchia signora che viveva da sola al primo piano di una delle case che dava sulla piazzetta che mi ospitò. Mi tenne per tutto il tempo della malattia in un letto della sua grande casa e mi fece da infermiera. Mia mamma era lì ogni mez-zora a sentire come stavo, a toccarmi la fronte, ad infondermi coraggio. Ma mangiare, niente. Mi dissero che l’intestino era diventato una carta velina e guai a mangiare qualcosa di solido. Non so come feci a campare tutti quei giorni, forse più di venti. So solo che un bel giorno la dolce vecchia signora entrò seguita dalla mamma, sorridente e con un cucchiaio in mano. Nel cuc-chiaio vi era del riso bollito. Con quale religioso silenzio mangiai quel cucchiaio di riso! Un chicco alla volta, per fare durare più a lungo il piacere. Ho rivisto la scena in un recente spot televisivo a proposito di un formaggio che viene mangiato molto lentamente, a piccoli pezzetti. Per fare durare più a lungo il piacere conclude lo spot. 
Io non sono stato mai molto magro. Anzi. Ma lo fui dopo quella malat-tia. Mio padre, impressionato decise che dovevo cambiare aria ed andare in un posto in cui avrei trovato cibo in abbondanza. Scrisse al cugino Bepi, un ricco agricoltore che abitava nel vicentino. 

Ricchi e poveri

Partimmo in treno per Vicenza. Il cugino Bepi, compagno d’avventure giovanili di mio padre, c’inviava sempre a Natale delle scatolette confeziona-te da lui e contenenti dei pezzi d’oca lessata. Venne a prenderci alla stazione con cavallo e biroccio. E così iniziò la mia avventura nel Veneto, la regione dove mio padre era cresciuto e che fino allora avevo solo visitato con la fan-tasia e riempito dei personaggi un po' stravaganti ricavati dalle storielle che lui raccontava senza bisogno di doverlo pregare. 
Il cugino Bepi aveva una bella grande casa proprio in cima ad una pic-cola collina. Alla base vi erano i campi di cui era proprietario. Trenta campi, circa 10 ettari. Di quei tempi con trenta campi uno poteva dire di essere un signore. Almeno per gli standard di allora. Aveva tre figli, due femmine ed un maschio, tutti della giusta età per giocarci assieme. Franchino era mio coeta-neo. 
Nella ricca casa la mensa era sempre abbondantemente fornita. Ogni giorno dal pollaio si prelevavano una gallina ed una faraona, od un coniglio ed una faraona. Due donne aiutavano la padrona di casa. Ogni giorno si fa-ceva la sfoglia per le tagliatelle e spesso anche la sfoglia dolce per lo strudel di mele e noci. Il grande camino nella sala da pranzo era sempre acceso. I cibi venivano preparati sui fornelli a carbone di legna nella cucina. Tuttavia la polenta tagliata a fette veniva messa a brustolar sulle braci rosse del camino. Anche lo strudel veniva cotto sul camino. Si scostava la cenere e si posava il rotolo chiuso a ciambella sui mattoni caldi. Poi si copriva con una padella rovesciata e si metteva la brace tutt’intorno e di sopra. Ad ogni ora del giorno in casa c’era un profumo delizioso e diverso di cibi in cottura. 
Per entrare nella grande casa c’erano due vie. Quella di rappresentan-za che passava per un piccolo giardino pieno di dalie e rose e quella di di-simpegno che passava per l’antro di una grande cantina che si estendeva su tutto il lato nord del pian terreno. Qui gli odori prevalenti erano di vino e di sa-lame. Una lunga fila ti accompagnava e ti dava il benvenuto pendendo dal soffitto. Il vino era in botti di rovere nella parte più fonda della cantina. Una buona fetta di salame non mancava mai per dare il via al pranzo, sia a mezzogiorno che a sera. Le rubizze gote del cugino Bepi testimoniavano che neanche il vino faceva difetto su quella tavola.
Il piccolo Luciano, di ritorno da quel lungo digiuno tifoideo, mangiò come non mai. Venne pesato all’inizio. Era molto dimagrito. Venne pesato alla fine delle due settimane di vacanza. Era aumentato di dieci chili. Fu con un certo orgoglio che il cugino Bepi riconsegnò Luciano, che aveva ritrovato co-lori e rotondità, al genitore quando tornò a prenderlo.
I giorni passarono in fretta, ma mai usciranno dalla memoria. 
Dopo la prima colazione Franchino ed io e, spesso, anche le sorelle, si andava per i campi, ci si rincorreva, si saliva sugli alberi da frutta. Era metà settembre. C’era di tutto. Susine, pere, fichi che si scioglievano in bocca. C’era anche un campo d’angurie. Franchino disse che erano già mature. Ne fece risuonare un paio e le colse. C’erano con noi anche i figli delle famiglie di contadini che lavoravano i campi ed abitavano in un gruppo di case lì vici-no. Mi ricordo quelle case. Catapecchie. E dalla cucina non arrivavano i profumi della casa del cugino Bepi. La povertà risaltava evidente anche ad un ragazzo come Luciano. Mangiavano polenta e saracche a mezzogiorno e se-ra. Se andava bene, pasta e fagioli. Niente polli o faraone, come alla tavola del padrone. Le uova delle galline che pascolavano là attorno, le vendevano. 
La povertà l’avevo conosciuta anche dai nonni a Villa d’Adda. Ma non era così disperata. Là, qualcuno della famiglia, oltre a lavorare il poco di terra, ri-usciva ad arrangiarsi in qualche altro modo, come i miei zii. Qualcuno partiva ogni mattina in bicicletta e si percorreva trenta chilometri per andare a lavora-re in fabbrica dalle parti di Monza. Ma lì, a Lovolo, piccolo paese sperduto nella campagna veneta, l’unica possibilità era emigrare o lavorare come giornaliero da un ricco contadino come il cugino Bepi. Il quale era sì ricco nel senso che la tavola era sempre abbondantemente servita, ma lavorava an-che lui nei campi, non faceva il signore. Guidava il trattore, dava ordini al bo-aro per la stalla, curava gli acquisti delle semenze e la vendite delle messi. E pensare che oggi Lovolo come i tanti altri piccoli paesi del veneto sono mo-strati a dito com'esemplo d’industriosa ricchezza, il Favoloso Nord-Est. 
Forse fu quella visione di povertà e di cattiva distribuzione delle ric-chezze che mi portò più avanti ad avere forti sentimenti socialisti. Forse mi spinse anche con due amici a passare un mese delle vacanze estive, non al mare ai bagni, ma a Pomarico un paesino della Lucania non ancora toccato dalla riforma agraria. Un mese a vivere quella povertà ed a testimoniarla con una macchina da presa. 
Con le due angurie ci nascondemmo in mezzo al granturco. Io presi un’anguria tutta per me. Era una novità poter disporre di un’anguria intera e non solo di una fetta. Gli altri ragazzi, angurie ne mangiavano spesso e quin-di si divisero la loro. Io infilai il muso dentro la mia e mangiai con avidità. Pol-pa e noccioli. Alla fine ero soddisfatto e la pancia era tesa come un tamburo. Gli altri ragazzi guardavano e ridevano. Si davano anche delle occhiate: “El pisarà en leto, el pisarà.” In effetti, quella notte mi rigirai sovente nella mia branda allestita nella grande stanza dove dormivano anche Franchino e le sorelle. Poi mi addormentai. Ma alla mattina mi svegliai tutto bagnato. Mi vergognai come un ladro. Mi ricordai della scena alla colonia di Riccione. Ma la zia si mise a ridere: “El ga magnà un’anguria intera, sto fiol.” E nessun len-zuolo venne appeso fuori della finestra.
Mentre ero dal cugino Bepi vi fu anche la vendemmia. Bepi non aveva molte vigne, ma abbastanza da fare un vinello frizzantino di cui riempiva le botti della cantina. All’operazione vendemmia avevo già partecipato varie vol-te a Villa d’Adda dai nonni. Anche là era un’operazione gioiosa come dapper-tutto. Le donne su per la collina cantavano in coro, mentre gli uomini anda-vano su e giù per i ripidi gradini del ruck con delle gerle in spalla. L’operazione era allegra ma faticosa. Non per il piccolo Luciano che più che cogliere l’uva, sedeva sotto il filare a mangiarla. E poiché la buccia era dura, la cosa migliore era sputarla. Era divertente farne un bel mucchietto per ter-ra. La cosa non era molto gradita al nonno che al vedere il mucchietto di bucce lo considerava uno spreco. “Se vuoi mangiarla, mangiala, ma non get-tare le bucce.” Forse aveva letto anche lui Pinocchio con l’episodio delle bucce di pera. Ma Luciano certo non mangiò le bucce del mucchio. Si spo-stava più in là e rifaceva un altro mucchietto. 
La vendemmia dal cugino Bepi era meno faticosa. Le vigne erano su una collina a declivio dolce e ci arrivavano direttamente i cavalli per racco-gliere le ceste dell’uva. La pigiatura era all’aperto in un gran tino di legno messo su un carro. Gli uomini arrivavano con i carri con le ceste piene d’uva che versavano nel tino sulle gambe delle donne che la pigiavano cantando. Mentre così facevano dovevano dire cose spiritose, perché le donne rideva-no e facevano gesti di finte sberle verso chi vuotava le ceste. L’operazione di pigiatura a Villa d’Adda avveniva in cantina in un’atmosfera umida e un po' triste. Il profumo del mosto che non si poteva disperdere fuori, dava alla testa ed inebriava. 
Quindi anche nel caso della vendemmia Luciano poté capire che vi era una differenza tra agricoltura ricca e povera. 
Il cibo non mancava certo sulla tavola del cugino Bepi. Ma non posso dimenticare l’enorme abbuffata fatta il giorno della festa del paese. Arrivaro-no di buon mattino, con cavalli e biroccini da festa, i parenti da tutto il veneto, da Este, da Agugliaro, da Albetton, da Albaran. Vi erano grandi e piccoli di tutte le età. Man mano che arrivavano, i grandi entravano in cantina per as-saggiare in anticipo il vino nuovo che ancora bolliva nelle botti. Su dei tavolini erano in bella vista dei salami, che per l’occasione erano scesi dai chiodi dell soffitto. Il vino di mattino andava accompagnato con qualcosa. Oltre ai salami sui tavolini vi erano coltelli e tagliere e pan biscoto. 
Il pan biscoto fu un’altra scoperta, tra le molte che feci in quel viaggio. Era buono da solo, era buono nel latte, era buono con il salame. E per di più resisteva per dei mesi. Mio padre, che non lo trovava a Vimercate, approfittò di quel viaggio per portarne a casa un sacco pieno. Ritrovai così il pan biscotto quando ritornai a Vimercate. 
I ragazzi quella mattina si ritrovarono nell’aia dietro la casa, dove anche erano dei tavolini. Questa volta non salame, ma piatti colmi di dolci. In parti-colare, visto che la vendemmia era stata di pochi giorni prima, c’erano i sugoli, dei dolci fatti con il mosto. Naturalmente c’erano anche le fritole che anche la mamma faceva, dietro dettame del veneto marito. Per scaldarci e farci av-venire appetito, caso mai ne fossimo carenti, ci rincorrevamo attorno alla casa. 

Le oche del cugino Bepi, quelle che poi finivano nelle scatolette che c’inviava per Natale, furono disturbate dal clamore. Erano abituate ad esser padrone incontrastate di tutta la strada che saliva sulla collinetta fino alla ca-sa. Non stavano nel pollaio, erano libere di circolare. Di solito, per smaltire il gran mangiare, che veniva loro dato anche a viva forza, facevano gare di corsa tra loro partendo dalla casa fin giù al fondo della collina dove erano le stalle. Chi vinceva beccava tutte le altre. Erano animali che incutevano un certo rispetto. Erano alte come lo ero io, ed avevano un becco lungo come una mia spanna. Dovevano crescere in una stagione fino ad arrivare ad un peso di quindici, sedici chili. E a settembre era quasi concluso il loro ciclo. Per assicurare il risultato, veniva riempito il gozzo di granturco, usando una specie d'imbuto infilato nel becco. Nell'imbuto si versava il granturco e girando una manovella i chicchi scendevano uno ad uno. Si poteva vedere il chicco scendere lungo l’esofago. Per fare più presto, chi manovrava l’imbuto fa-ceva scorrere due dita lungo il collo dell’oca per aiutare il chicco a scendere nel gozzo. Io di solito mi divertivo a guardare le oche mentre facevano le gare di corsa. Mi ricordo, però, che un giorno loro non gradirono l’intruso che le guardava e le seguiva a distanza. E così mi si rivolsero contro. Dapprima piano, dimenando l’enorme sedere, con mosse amplificate dal piumaggio della coda. Poi visto che io mi ritraevo, loro accelerarono il passo. Io mi misi a correre e loro dietro. M’inseguirono fino nei campi con degli spaventosi qua, quack, aprendo e chiudendo l’enorme becco nell’aria a vuoto. Io ero ter-rorizzato dall’idea che uno di quei becchi potesse richiudersi sul mio di dietro. Per fortuna dopo un poco le oche, soddisfatte dall’avermi messo paura, si riti-rarono. Io tornai a casa pallido e tremante. Quella sera ebbi la febbre. 
Forse le oche si vollero vendicare di quella loro consorella che mio pa-dre aveva voluto allevare a Vimercate. Per imitare il cugino Bepi a produrre scatole di carne d’oca. Era l’anno prima. Mio padre aveva già utilizzato il cor-tiletto di casa per allevare galline. La cosa dava qualche disturbo, ma produ-ceva l’ovetto fresco per i figli. Quell’anno aggiunse una piccola oca. Che però con il tempo crebbe com'era giusto che facesse e come d’altra parte mio pa-dre si aspettava. Il cortiletto era diventato un poco stretto per la sua voglia di muoversi. Quindi spesso invocava l’aiuto del cielo. Per fortuna da quel lato di casa non avevamo vicini, salvo i giocatori del campo di bocce da Basilio. L’oca in questione, se trovava aperta o anche solo accostata la porta finestra che dava nella nostra camera, la spingeva con la testa ed entrava in camera. Qui incontrava un’altra oca riflessa nel grande specchio del guardaroba. E s’intratteneva in conversari a base di qua quack. E di beccate allo specchio. Gli etologi affermano che solo l’uomo riconosce la sua immagine nello spec-chio. Non i gatti, non le scimmie, non i cavalli. Sarà. Io posso assicurare che le oche riconoscono l’immagine. Che siano più simili all’uomo delle scimmie? Che rappresentino il famoso anello mancante? Mio padre, intento com’era nei suoi compiti di meccanico, non aveva voglia di approfondire questi pur importanti argomenti scientifici. Purtroppo l’oca un po' di fastidio lo dava se in bottega vi era un cliente a trattare l’acquisto di una bicicletta nuova. E così mio padre si decise. Anche se l’oca non aveva raggiunto la taglia ottimale rappresentata dalle campionesse del cugino Bepi, decise di terminare l'espe-rimento. Ma come si fa ad uccidere un’oca? Con le galline era facile. Bastava tirargli il collo. Ma con un’oca? Mio padre si consultò con dei contadini. Pare che M. J.I. Guillotin fosse un allevatore d’oche e che da lì derivò l’idea umanitaria che rese famosa la rivoluzione francese. La scena ora diventa cruda ed il lettore sensibile può saltare paragrafo. Noi invece eravamo tutti là intenti a vedere come andasse a finire. Mio padre prese una scure, la affilò stretta nella morsa con la lima. Prese un ceppo di legno e, aiutato da mia madre che teneva ferma un’oca assai recalcitrante, riuscì dopo alcuni vani volteggi della scure per aria, con un colpo secco a staccarle la testa. Ma il bello viene ora. L’oca non si dette per vinta e a collo alto si mise a correre per la casa, stavol-ta muta. La scena durò qualche minuto, poi l’oca crollò. Che sia per questo comportamento delle oche che si dice di una donna senza testa che è un’ochetta?

Le oche del cugino Bepi devono avere saputo del fatto di sangue e per questo cercarono di vendicarsi su di me, erede del M. Guillotin emigrato dal veneto in Brianza. 
Quel giorno della festa però le oche si ritirarono nei campi e non diede-ro fastidio alla moltitudine di ragazzi e ragazze che si rincorrevano. 
Ben presto ci sedemmo tutti, grandi e piccoli, attorno a dei lunghi tavoli preparati nell’androne che immetteva nella cantina e nella cantina stessa. Saranno state le undici. Ci alzammo da tavola verso le sei del pomeriggio. Non ricordo esattamente quante e quali portate. A Pasqua ed a Natale con mia sorella Lia ci divertivamo a contare le portate. Qui il compito avrebbe ri-chiesto una capacità matematica superiore alla mia. C’era di tutto. La padro-na di casa era aiutata per l’occasione da numerose contadine oltre dalle due donne fisse. Risi e bisi, risi e luganeghe, tagliatelle con fegatini di pollo, ta-gliatelle in brodo per facilitare la digestione, pollo, faraona, maiale, costate ai ferri, cacciatorini ai ferri, sformati vari di verdura, ed altro ancora. Un po' d’insalata alla fine per ripulire l’esofago. Torte paradiso, strudel, sugoli, mon-tagne di frutta, frutta secca. Il cugino Bepi non doveva fare brutta figura con i parenti. E quando a sua volta sarebbe stato invitato alla festa del paese loro, loro non sarebbero stati da meno. 
I grandi rimasero seduti a ciacolar e a bevar fino al tramonto quando fu l’ora di riattaccare i cavalli ai calessi. Noi ragazzi c’eravamo alzati prima da tavola ed eravamo andati giù al paese dove erano giostre e banchetti. Il cu-gino Bepi aveva rifornito tutti i ragazzi di un po' di monete. Pocheti, ma tocheti, come diceva sempre mio padre quando mi dava la mancia la domenica. Ed era una gioia, in effetti, poter toccare con mano nella tasca le monete, poche ma solide. Ed anche il cugino Bepi disse lo stesso. Certo l’avranno sentito a loro volta dai loro padri. 
Qualcuno ebbe il coraggio di comperare delle patate dolci lessate. Poiché io non le avevo mai assaggiate, fu l’occasione per farlo. Alle sei di sera dopo tutto quel ben di dio che avevamo mangiato a tavola! Ma si era giovani allora. Giù nella piazza davanti alla chiesa trovammo anche i ragazzi dei con-tadini, quelli con cui avevo mangiato l'anguria. Anche loro quel giorno aveva-no mangiato bene. Con Natale e Pasqua, quello era un giorno d'abbondanza a tavola, anche per i più poveri. E raccontavano le meraviglie di quello che avevano mangiato.
Purtroppo anche le vacanze hanno una fine. Inoltre si avvicinava il tempo della scuola. Quando mio padre mi venne a riprendere, n'approfittò per un breve giro nei luoghi dove era cresciuto e per visitare i parenti. Il cugi-no Bebi ci accompagnò con il calesse. Venne anche Franchino. La prima tappa fu ad Agugliaro, il paese natale di Bepi e da dove veniva anche la mamma di mio padre, morta lui ancora piccolo. 
Ci fermammo un giorno e fu anche lì una gran festa. I parenti ritrovati, le grandi chiacchiere, le storie un po' ingrandite da mio padre sul suo lavoro e su come gli affari andassero bene. “Bravo Ugo”, gli diceva la vecchia zia, so-rella della mamma e madre di Bepi. “L’ho sempre dito mi che ti jeri un bravo fiol. E la to mujer, stala ben? Saludamela tanto, co ti ritorni a casa.” Mentre mio padre girava con Bepi per salutare gli altri parenti e cugini, io, Franchino e gli altri ragazzi della casa giocammo a tirarci le mele. Nel giardino vi era una grande pianta stracarica di piccole mele, mature e buone da mangiare. Ma noi, incuranti di chi avrebbe volentieri visto sulla povera tavola quelle me-le dopo la polenta, giocammo a tirarcele dietro. Fu anche un gioco un po' pe-ricoloso, perché le mele tirate con forza erano dei bei proiettili. 
Il giorno dopo andammo ad Este dalla zia Camilla, sorella di mio padre. Altro ambiente, altre conoscenze per il giovane Luciano che fino allora si era mosso da Vimercate solo per andare a Villa d’Adda, salvo la vacanza nella colonia estiva di Riccione l’anno prima. Ad Este c’erano tre cugine ed un cu-ginetto. Mia sorella Lia c’era venuta più volte d’estate in vacanza. Per me era la prima volta. Lo zio Nello, il marito di Camilla, era un grosso mediatore di bovini. Aveva una stalla piena d’animali, un portafoglio di quelli a fisarmonica pieno di banconote e l’automobile. Un ricco mercante. 
Povero zio Nello. Qualche anno dopo morì annegato in un canale dove era finito con l’auto.
Così Luciano, in quel suo primo viaggio nel vasto mondo, conobbe che volto aveva l’abbondanza. Il ricordo era tanto più stridente con la visione che ritrovò a Vimercate, nelle case della corte del vecchio convento. Il rumore del lardo giornaliero tritato nel tagliere dalla mamma d'Attilio, i fondi del caffè sul davanzale delle finestre ad asciugare.

Libro e moschetto

A scuola non ebbi mai problemi, né i primi anni con la deliziosa e gras-soccia maestra Mosca, né in quarta e quinta con il maestro Lanticina.
La scuola era grande e nuova, costruita al confine del paese dove co-minciavano i campi. Negli ampi cortili interni facevamo rumorose ricreazioni. Poiché tutto andava bene non ho grandi ricordi. Neanche dei miei compagni. Forse ero troppo pieno di me, troppo contento d’essere bravo e senza pro-blemi per ricordarmi i compagni meno bravi. Ricordo solo le scene patetiche quando le mamme venivano a parlare con la maestra, chiamate perché il fi-glio scarseggiava in profitto e magari anche in condotta. Le madri entravano ad una ad una in classe, restavano sulla porta e la maestra si avvicinava loro, spiegava come il figliolo non facesse i compiti a casa, sbagliasse nei dettati, nel risolvere i problemini, nel dire le poesie a memoria. La madre guar-dava addolorata e stupefatta. L’amore materno qualche volta si ribellava a quel quadro disastroso e giustificava: ”Ma, sciura maestra, el me fioel a ca’ el studìa, el studìa.” Ricordo l’accento sulla i nell’enfasi con cui si sottolineava come a casa il figliolo studiasse.
Qualcuno dei compagni di scuola li ritrovai quando tornai a vent’anni a Vimercate. Ma erano quelli che avevano proseguito negli studi, i figli della borghesia. Qualcuno degli altri, di quelli la cui madre veniva a rapporto dalla maestra, si era ricordato di me e non so in che modo era riuscito a seguire le mie tracce. Fu con sorpresa che un giorno nel mio ufficio a Torino arrivò da Fiat Mirafiori una telefonata da qualcuno il cui nome non mi diceva niente. Era uno dei mie compagni di scuola elementare, a Torino per qualche giorno come montatore specializzato mandato in trasferta dalla sua ditta per assi-stere all’avviamento di una qualche macchina utensile che Fiat aveva acquistato.
Venne a trovarmi e rinverdì la mia memoria d’eventi dimenticati, di no-mi di compagni che non mi dicevano nulla. Si vede che l’esperienza toscana successiva dove i compagni saranno altri, avrà cancellato i ricordi di quelli di Vimercate. Giuseppe, così si chiamava, volle preparare una cena alla vimer-catese, risotto con salsicce e vino, cassoela di verze. Si mise d’accordo con il ristorante dove prendeva tutti i giorni i pasti a Torino e fece lui da cuoco per l’occasione. Fu una cena pantagruelica che i miei figli ricordano ancora. Fu l’occasione per rinverdire i ricordi di quegli anni di scuola e delle attività ludi-che relative. Anche delle esercitazioni come Balilla moschettiere.
Il fascismo in quegli anni si era consolidato. La gente forse ci aveva semplicemente fatto l’abitudine. Poi c’erano le barzellette che aiutavano a sopportare più che le angherie, le pagliacciate dei gerarchi, il sabato fascista, il dover avere la tessera del fascio per lavorare tranquilli. Poi c’era stata la conquista dell’impero, vi erano state le opere del Regime come la bonifica dell’Agro Pontino. Chissà se qualcuno dei poveri contadini veneti che avevo incontrato nella mia ricca vacanza a Lovolo dal cugino Bepi, se n’era andato laggiù, migrando in cerca di companatico da aggiungere alla polenta ed alle saracche. Ci pensava il Film Luce - proiettato prima dello spettacolo nel ci-nema dell’Oratorio la domenica - a mettere in risalto le opere del Regime. E come meglio illustrarle se non mostrando il torso nudo del Capo chino per terra a falciare il grano, o abbracciato al covone mentre lo inserisce nella tramoggia della trebbiatrice?
Luciano aveva visto da vicino l’operazione di trebbiatura. Dal nonno. Si ricordava il secco odore di polvere in una grande aia dove era stata piazzata l’enorme trebbiatrice a disposizione di tutti i contadini che arrivavano ciascu-no con il suo carro pieno di covoni. Una grossa cinghia di cuoio faceva girare la puleggia che trainava i complessi meccanismi della trebbiatrice. In cima al-la macchina due contadini afferravano al volo i covoni che da un carretto altri due gli allungavano. La cinghia era tesa tra la puleggia della trebbiatrice e quella di un trattore che scoppiettava con il ritmo cadenzato del diesel. Un uomo controllava che la cinghia non uscisse dalle pulegge, come tendeva a fare. Allora lui dava una spinta con la mano callosa per rimetterla in carreg-giata. Dallo scappamento del trattore rivolto verso l’alto, usciva fumo nero che si aggiungeva alla polvere silicea che filtrava da tutte le fessure delle ta-vole traballanti della carrozzeria della trebbiatrice. I chicchi di grano uscivano da una parte, mente dall’altra le balle di paglia legate con fil di ferro formavano lunghi parallelepipedi gialli. 
Nei Film Luce, non si sentiva la polvere, ma si capiva che il Duce aveva anche lui da ragazzo visto come si trebbiava e magari aveva anche aiutato. Proprio come lui, Luciano. 
Ho rivisto in una delle lunghe ricostruzioni documentarie che la TV a volte dà del nostro passato, quelle immagini del Duce mietitore e trebbiatore. Ma non ho più provato, come invece mi capitava allora nel sentire il commen-to ispirato che accompagnava i Film Luce, la pelle d’oca. 
Allora Luciano la poi de poule la sentiva. La sentiva quando alla radio la Sua voce possente chiedeva agli italiani di dire il loro sì, e l’urlo della folla rispondeva sì..ìì... La pelle d’oca gli veniva soprattutto sulle cosce grosse e dalla pelle ben tesa. La sentiva quando nella piazza grande del Municipio di Vimercate avevano innalzato una tribuna per qualche commemorazione e di-scorso del Federale. Ancora di più la sentiva in tali circostanze se in divisa da Balilla Moschettiere doveva montare di guardia. Al monumento ai caduti della Patria che troneggiava nel centro della piazza. Allora la pelle d’oca comincia-va nel pezzo di cosce scoperte dai pantaloncini per poi salire via via più su, fino alla schiena. E qui magari finire in un tremore improvviso di tutto il corpo.

L’invenzione del Sabato Fascista non era stata accolta dal popolo con gran gioia. Tanto più se essa dovesse venir presa sul serio e richiedere la partecipazione a qualche manifestazione in camicia nera. Ma non fu certo questo il sentimento di Luciano. Per lui il sabato fascista era una festa. Aveva ormai nove anni e frequentava la quarta elementare. Aveva detto addio alla maestra Mosca, non senza un qualche rimpianto. Che tuttavia durò poco. Aveva ora un maestro, un uomo. Serio, con gli occhiali, teneva sempre a por-tata di mano un righello nero con inserite lungo gli angoli delle strisce di ferro. Per tener dritto il righello che altrimenti si sarebbe imbarcato senza quei rin-forzi. Ma vallo a dire a quel meschino ragazzo che si prendeva il righello sulle dita della mano che il maestro gli aveva ordinato di tenere ben tese in avanti. Per lui quei rinforzi di ferro erano stati messi apposta per fare più male. D’altra parte, quando mai si era visto il maestro usare il righello per l’uso pro-prio cui doveva essere destinato, tirare delle righe?
Ma il maestro Lanticina, a parte l’aspetto serio, era un bravo maestro, riusciva a tenere la classe in riga ed attenta. Poi lui, Luciano, non aveva mai visto da vicino il minaccioso righello. Come un bravo insegnante, il maestro inoltre non trascurava la mistica fascista. E se non era presente il sabato pomeriggio, non tralasciava di ricordare agli allievi che era loro dovere vestir-si da Balilla Moschettiere e presentarsi all'adunata, nel piazzale davanti alla scuola. Luciano non aveva certo bisogno di raccomandazioni. Ci andava ec-come. E di corsa. Il pomeriggio passava come un gioco. Ci si metteva in fila, si marciava, ci si fermava nei campi a fare finte esercitazioni di tiro con il moschetto. Inquadrati in plotone a tre per tre si marciava fino al campo sportivo e lì si facevano gare di salto e corsa. Ed alla fine, il sottufficiale della Milizia, in divisa con regolare camicia nera che dirigeva il plotone, faceva una con-cione sul Duce, sui destini dell’Italia. Ed un po' la pelle d’oca tornava. 
Poi v'erano i preparativi per le grandi adunate. Come quella volta che doveva venire proprio Lui, Si provò e riprovò. Si marciò per prova più volte fin ad Oreno una frazione di Vimercate dove il Duce doveva inaugurare un mo-numento. Poi alla sera, ci sarebbe stata una grand'adunata nella piazza del Comune, tribuna ed altoparlanti, guardia di Balilla ed Avanguardisti al monumento, a turni, per tutta la notte.

Luciano aveva atteso con entusiasmo quella data fatidica. Finalmente arrivò il giorno. Pur non essendo domenica, tutto il paese era fermo ed in fe-sta. Tutti gli uomini avevano la camicia nera, anche suo padre. 
Finalmente, il pomeriggio, l’adunata davanti alla scuola. Lì l’istruttore distribuì i moschetti, verificò che le divise fossero in ordine, formò la squadra che si allineò alle altre maschili e femminili, di Figli della Lupa, di Giovani Ita-liane, d’Avanguardisti, di Balilla Moschettieri. Dopo un bel po' fermi sotto il sole arrivò l’ordine di mettersi in marcia. Unò, due, unò, due… Se passava qualche gerarca in macchina che ci superava, il comando era attenti a… si-nist!. 
Dalla scuola ad Oreno c’erano un paio di chilometri. Ad un certo punto Luciano, fiero ed impettito con il moschetto in spalla sentì un certo movimen-to di pancia. Sarà stata l’emozione, sarà stata la pasta e fagioli mangiata in abbondanza ed in fretta, sarà che fin da piccolo, fin da quando la mamma aveva trovato l’espediente di farlo girare in camicione senza mutandine per la corte, lui aveva una certa tendenza alla fluidità intestinale. All’inizio, tenne duro, contrasse i muscoli del ventre, marciò con i denti serrati. Ma la pancia non volle mettere giudizio, il brontolio cresceva, la spinta seguiva. Il volto di Luciano deve essere diventato paonazzo. Quando non ne poté più, fece un segno al capo drappello. Quello comprese anche per via della faccia di Lu-ciano. Lo fece uscire dalle file senza far fermare la marcia. Luciano rosso in volto per la vergogna si mise a correre tenendo il moschetto orizzontale. Per fortuna là vicino c’era un cascinale. Infilò il portone e cercò disperatamente la latrina. Ma ci arrivò tardi. Ormai non era più in condizione per cercare di raggiungere il drappello. Si mise a piangere. Qualche buona donna lo consolò, lo aiutò a ripulirsi alla meglio. Luciano aspettò dentro al portone che tutto il corteo fosse sfilato, che le macchine delle autorità fossero passate. Poi se ne tornò mogio a casa. La mamma quando lo vide capì. Si mise a ridere. Ma questo non sollevò il morale di Luciano.
Non solo aveva fatto brutta figura, non solo aveva perso la cerimonia con il Duce, ma con che coraggio si sarebbe presentato alla sera alla grande adunanza in piazza del Comune? Vestito in borghese quella sera girò furtivo come un ladro nelle stradine attorno alla grande piazza, dove poteva sentire l’eco dei discorsi arrivare, ma dove nessuno si sarebbe curato di lui. Con sua meraviglia ed anche con un po’ di delusione, pare che nessuno avesse nota-to in modo particolare l’episodio. Non il maestro Lanticina cui nessuno l'aveva riferito, ma neanche i suoi compagni di squadra tutti presi dall'emozione di quegli avvenimenti del giorno prima. Lui se n’era andato, ma nessuno se ne ricordava. Benché deluso, preferì non essere lui a far ricordare l'episodio con domande su come si fosse svolta la cerimonia. Così perse quella grand'occasione.

Non aver visto L’Uomo della Provvidenza non gli impedì tuttavia di tesserne gli elogi nei compiti in classe. E fu così convincente che, quando si trattò di mandare ai Ludi Littoriali Giovanili che si tenevano in tutte le città d’Italia uno studente a rappresentare le Scuole Elementari di Vimercate, fu scelto lui. Dopo le raccomandazione del caso da parte del maestro Lanticina, dopo quelle del capo manipolo, il giorno fatale prese il tram per Milano e scese a Piazzale Loreto. In una scuola là vicino si tenevano i Ludi. Lui era in di-visa di Balilla e gli fu facile trovare la scuola seguendo i numerosi altri Balilla e Giovani Italiane che là si avviavano. Detto nome e provenienza fu fatto en-trare in una classe, sedere ad un banco e fornito di foglio protocollo e penna. La classe era piena di studenti scelti in rappresentanza dei vari paesi e scuo-le della provincia di Milano. Il Federale in persona venne a leggere il tema che doveva venire svolto avendo a disposizione l’intero pomeriggio. Biso-gnava parlare di LUI, di come avesse cambiato i destini della Patria. Luciano, si sentiva di nuovo la pelle d’oca, e scrisse, scrisse. Riempì davanti e dietro tutte le pagine del foglio protocollo che era stato loro distribuito. Alla fine con-segnò il tema soddisfatto e sicuro di sé. Può darsi che la retorica fosse troppa anche per le orecchie allenate degli esaminatori. Forse la pelle d’oca che l’aveva accompagnato mentre scriveva le lodi del Capo, non era stata buona consigliera. Fatto sta’ che non venne scelto per andare a Roma a rappresen-tare Milano. 
Questo però allora non lo sapeva ancora ed uscì dalla scuola pieno d'orgoglio per la prova fatta e sicuro di sé. Il tram che l’avrebbe riportato a Vimercate l’attese a Piazzale Loreto. Di fronte c’era già quel distributore di benzina dove finirà appeso a testa in giù il Capo le cui glorie per la Patria, Luciano, inascoltato, aveva indicato e sottolineato con enfasi.
 Luciano terminò le scuole elementari con successo, anche se le sue doti letterarie non vennero premiate. Ma non venne premiato neanche Cesa-re Pavese che pubblica nel ’36 Lavorare Stanca il suo primo libro di poesie. Forse il titolo era poco adatto all'epopea fascista. Più facile successo avranno i libri di Alba De Cespedes il cui primo romanzo Nessuno torna indietro esce nel ’38. Un libro di gran successo che anch’io leggerò appena tradotto in Italia fu Il cucciolo della scrittrice americana Marjorie Rawlings. La guerra non impedì l’uscita di alcuni romanzi destinati a diventare famosi, come Il Mulino del Po di Riccardo Bacchelli ed Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati.

Decisioni strategiche

Mio padre giocava a bocce di rado e solo la domenica sera. Doveva in fin dei conti curare i suoi clienti, esercitare quelle che oggi si chiamerebbero public relations. Ma il gioco è gioco e, nonostante la necessità di tenere buo-ni rapporti con i clienti, mio padre cercava di vincere. Se qualche buon colpo dell’avversario gli toglieva la boccia lui si arrabbiava. Come quella volta che urlò ad un tale, anche lui suo cliente, che gli aveva centrato la boccia: “Che Dio te manda el cagoto!” Viene spontaneo il dialetto quando si è arrabbiati. La domenica successiva, quel tale, stavolta in milanese: “Mi gioghi pù con lu, sciur Ugo. L’è ‘na setimana che go la diarrea.” 
Le relazioni pubbliche, mio padre le teneva, a parte le bocce, sistemati-camente. Tutte le mattine, verso le undici si recava al bar da Emilio per l’aperitivo. Un vermut o più spesso un bicchiere d’Albana. Nel pomeriggio verso le cinque andava invece all'osteria da Basilio per un buon bicchiere di vino rosso. Cosa non si fa per le relazioni pubbliche! Mia madre, veramente, storceva la bocca ogni volta, e con una punta di ironia al suo ritorno chiede-va: “Quanti clienti hai visto oggi? Quante biciclette hai venduto?” 
Ma se non aveva concluso affari, aveva raccolto preziose informazioni su come interpretare i tempi, se ci sarebbe stata o no la guerra, se nonostante la dichiarazione di non belligeranza, l’Italia sarebbe intervenuta. E proprio per averne dedotto una certa tranquillità che tutto sarebbe presto finito, deci-se un grosso cambiamento nei suoi affari. 
Volle ingrandirsi e salire di un grado sulla scala sociale: da negozio di biciclette a garage per riparazioni auto. Per far questo, siccome lui, pur bravo meccanico, non era un motorista, fece una cosa un po' arrischiata. Ingaggiò suo cognato, il marito della sorella della mamma, moglie e quattro figli inclusi. La famiglia trovò da alloggiare in un appartamento affittato nel vecchio con-vento. Il che aggiunse qualche bambino in più alla banda già numerosa. 
Lo zio motorista aveva un nome impegnativo, Giuseppe Verdi. E forse fu proprio per il fato legato al nome che divenne motorista. Un motore è un’orchestra. Se tutto va bene pistoni, bielle, valvole, ingranaggi di trasmis-sione concertano in una musica armoniosa. Ci vuole l’orecchio di un musici-sta per accorgersi in tempo che la valvola si apre male, che c’è un piccolo fo-rellino nello scappamento, che gli ingranaggi sono un po' consumati. E chi meglio di un Giuseppe Verdi è adatto alla bisogna? Forse proprio per questa associazione di Verdi ai motori, quando sarò al Centro Ricerche Fiat darò la responsabilità di controlli sulla rumorosità dei veicoli ad un giovane fisico che aveva l'hobby della musica e che come hobby riparava vecchi organi di chiesa.
Preso dall’entusiasmo, e forse su suggerimento del cognato che tanto lui non ci metteva una lira, mio padre decise anche di aggiungere un servizio di noleggio auto. Ecco quindi con grande meraviglia e gioia di tutto il vicinato abituato a vedere solo biciclette nella piazzetta S. Lorenzo, arrivare un giorno dell’estate ’39 una grandiosa Citroen, nera, parafanghi grandi e lustri su cui appoggiavano due fari semisferici, muso sporgente con doppia V rovesciata sul radiatore. L’interno di soffici cuscini in pelle nera. Una macchina d’occasione, per la quale mio padre firmò qualche cambiale che poi sarebbe-ro state facilmente pagate con l’introito dei noleggi, con mio zio Verdi come chauffeur
Di quella meraviglia d’auto ricordo il primo giro che mio padre, il Verdi alla guida, fece fare a tutta la famiglia. Mia madre con i due ultimi nati in braccio e Lia ed io seduti fieramente accanto a lei sul sedile posteriore. Fu un giro liscio sulle strade asfaltate e traballante sui sassi del riscieu, che fino al-lora avevo percorso a piedi o in dai-dai o in triciclo o con la piccola bici. Il pa-ese naturalmente notò l’avvenimento e molti conoscenti si fermavano a guardare, a salutare con la mano il sciur Ugo. Forse qualche altro avrà scos-so la testa. Non erano tempi quelli d’avventure. Pensava sempre troppo in grande il veneto sciur Ugo. 
Il primo vero viaggio lo facemmo la domenica successiva, sempre tutta la famiglia, a Villa d’Adda, dai nonni. Fu un po' la rivincita di mio padre sui pa-renti bergamaschi che non avevano mai capito veramente come la figlia avesse potuto sposare un forestiero, uno che veniva dal veneto, un fasso tuto mi, uno che pretendeva di insegnare a loro, ai bergamaschi, come si doveva cuocere la polenta. Al ritorno dal viaggio era sera. Il giorno dopo, mentre guardavamo ancora una volta la macchina che faceva mostra di se nella prima corte, vedemmo qualcosa di bianco spuntare da sotto i paraurti niche-lati. Mio padre, sdraiato per terra per vedere di cosa si trattasse, estrasse una gallina bianca. Povera gallina, poco abituata a vedere bolidi polverosi passare per la strada che lei credeva parte del suo regno e che fino allora aveva attraversato indisturbata, od al massimo con una piccola rincorsa per non essere investita dal trotto di un biroccino. La pietà per la povera bestia non durò a lungo. Spennata la gallina, tutta la famiglia si ritrovò a festeggiare l’ospite inatteso a tavola.

Gli strateghi del caffè e dell’osteria cominciavano a non essere più tanto ottimisti, malgrado le baldanzose e rassicuranti notizie che dava la radio. O forse proprio per quello. Si cominciava a sussurrare sulle contromosse dei francesi e degli inglesi che non sarebbero stati con le mani in mano a vedere l’invasione della Polonia. E la conferma che ci aspettavano tempi duri venne subito dopo l’estate di quel ’39 che aveva visto mio padre tentare un rischioso allargamento del business. 
Nel settembre la Gran Bretagna e la Francia dichiarano guerra alla Germania. In Italia ci si cominciò a preoccupare per i rifornimenti. Venne proibito l’uso delle automobili salvo a chi n’avesse bisogno per ragioni di la-voro. Medici, avvocati, gerarchi. Mio padre si ritrovò una macchina ancora quasi tutta da pagare, che non poteva usare per servizio pubblico, perché nel frattempo gli avevano negato la licenza, visto gli avvenimenti. Anche il lavoro di riparazione di motori si ridusse. Quel ’39 finì con preoccupazioni di tratte e cambiali in scadenza, più numerose e minacciose del solito. Per fortuna un medico s’innamorò della bella e lucida Citroen e mio padre poté far fede agli impegni, locuzione che avevo imparato a comprendere da tempo. 
Il lavoro di motorista tuttavia non smise del tutto. Ci furono motori di vecchie auto o di camion da rivedere, da smontare, da rialesare, in cui anda-va cambiata la guarnizione della testa che sfiatava. Vi erano vetture in panne perché il carburatore era sporco, batterie da ricaricare, gomme bucate da ri-parare. Questa volta la tecnica era un po' più complessa di quella per una ruota bucata di bici. Così Luciano, terminato presto i compiti di scuola, poteva allargare le sue conoscenze meccaniche. Era emozionante, dopo aver svitato i bulloni, sollevare con la catena legata alla carrucola ancorata sul sof-fitto la testa del motore e vedere i pistoni affacciarsi più alti o più bassi in se-quenza nei cilindri, far girare l’albero del motore dall’esterno per vedere come si muovevano su e giù. Certamente molto più che smontare le pedivelle di una bici, svitare le calotte che tenevano il perno su cui giravano le pedivelle, su cui ruotavano i pedali, per cambiare le sferette consumate, inserendone di nuove tenute assieme dal grasso. E che emozione, quando, terminato di rimontare il tutto si procedeva all'accensione del motore. Vrum, vrum, vruuum. A posto! Che importava se le mani si sporcavano di grasso, d’olio bruciato e la sera la mamma ti rispediva a lavarle una seconda volta.

Quella nuova avventura meccanica non dura a lungo. Gli avvenimenti esterni precipitano. Hitler incontra Mussolini al Brennero. Poco dopo invade la Danimarca e la Norvegia. In Maggio invade il Belgio e l’Olanda e riesce ad accerchiare l’armata franco-inglese a Dunkerque. A stento i soldati si salvano imbarcandosi per la Gran Bretagna. 
Mussolini, per paura di non sedere al banchetto del vincitore, dichiara guerra. Era il 10 Giugno del ‘40. La mattina c’era stata scuola come tutti i giorni. Ma l’aria era spessa. Per la strada si vedevano pannelli di persone che discutevano, che aspettavano. Poi in un pomeriggio nuvoloso si sentì la famosa voce. La si sentiva dappertutto, in casa dalle radio accese, per la strada dagli altoparlanti. La prima volta che vidi L’Oro di Napoli nell’episodio della fine del mondo, quando tutti aspettano di risentire la voce che viene dal cielo, mi sembrò di ritrovare i sentimenti di allora, di rivedere la gente per la strada ferma con la faccia in alto a sentire ..Italiani… l’ora della storia… Naturalmente noi ragazzi eravamo eccitati. Non giocavamo, giravamo da un pun-to all’altro della piazzetta, giravamo attorno alle case, verso Piazza Santo Stefano dietro la chiesa, verso piazza del Municipio. 
Nei giorni successivi stavamo attaccati alla radio a sentire i roboanti bollettini di guerra che parlavano del successo, dell’eroismo, eccetera, delle nostre truppe. Finirà tutto in fretta? La campagna di Francia termina nello stesso mese di giugno con la pace di Compiegne, ma la guerra non finisce. Anzi, si parla di nuovi arruolamenti in vista. Mio zio Daniele era ritornato dalla Spagna e subito ripartito. Classe di ferro 1911. Mio zio Luigi, detto il Toletta, classe di ferro 1916, parte anche lui per la Francia, dove rimarrà fino all’8 settembre 1943, da conquistatore. Si occuperà d’approvvigionamenti e, visto le sue innate capacità commerciali, non se la passerà neanche male. In famiglia si sparse la voce che fosse tornato con dei grossi biglietti in tasca. Bi-glietti che utilizzò in parte per riempire la stalla di mucche e di cavalli. Il resto immagino li nascose sotto qualche mattonella in attesa che la svalutazione se ne prendesse carico. 
E le classi più anziane, quelli che avevano fatto la guerra del 15-18? Corre voce che chiameranno anche la classe del ‘2 e su su fino al ’98. Mio padre è del ’98. Si preoccupa. Come si fa a lasciare la famiglia, quattro figli, di cui il più giovane, Tiziano, non aveva ancora tre anni? Corre a Sesto San Giovanni, alla Breda Locomotive dove aveva lavorato come aggiustatore meccanico alla fine della sua marcia d’avvicinamento dal Veneto alla Lom-bardia. Da Santa Margherita d’Adige - paesino sperduto nella pianura veneta dove aveva imparato il mestiere di fabbro aiutando mio nonno Bettino - ad Arzignano, come operaio specializzato alle Pompe Pellizzari. Lì incontra Ma-ria Teresa che dal bergamasco naviga verso il Veneto come ispettrice di fi-landa. Decidendo di sposarsi, decidono anche che Milano dà più sicurezza di fulgido avvenire. Così mio padre tentò alla Breda. Fece il capolavoro di prova. Venne assunto, si sposò, mise su casa a Cinisello Balsamo. Ma dopo due anni di Breda, nel ’29, il suo veneto spirito d'avventura lo spinge a met-tersi in proprio, mentre la moglie Teresa faceva un altro figlio, il futuro Lucia-no da affiancare a Lia, la sorellina. Così si spostarono a Vimercate.
Ritornato alla Breda nel ’40 trovò chi si ricordava di lui. O forse più semplicemente gli avvenimenti bellici richiedevano un rapido aumento di per-sonale, in particolare operai specializzati. Una settimana dopo, mio padre cominciò ad alzarsi più presto la mattina, inforcare una delle sue biciclette, percorrere i 18 chilometri che separano Vimercate da Sesto San Giovanni. Ogni sera ed al sabato pomeriggio, di ritorno dalla giornaliera escursione ci-clistica a Sesto, nonché alla domenica, dava una mano al cognato Giuseppe Verdi che era rimasto solo in officina.
Ma quel vai e vieni non durò a lungo. La Breda aveva dovuto aprire, come molte altre grosse aziende del Nord, uno stabilimento a Massa Apua-nia. Primo esempio di forzata clonazione industriale, di Cassa del Mezzo-giorno ante litteram. Non ho mai capito perché fosse stata scelta proprio la zona delle Alpi Apuane. Forse perché era un covo d’anarchici ed il Duce vo-leva con le opere del regime cancellare le loro velleità residue.

Così la famiglia partì per Massa. Io rimasi però a Vimercate, ospite dello zio Verdi che aveva ereditato da mio padre l’officina, il suo contenuto e l’appartamento. 
Io stavo frequentando la Prima Media al Collegio Arcivescovile di Vi-mercate e non potevo abbandonare. Per mia sorella Lia che frequentava la Seconda Avviamento Professionale non si pose il problema della continuità. Era una donna. In ogni caso mia madre non poteva rimanere sola con due piccoli e turbinosi bambini. 
Di Licia, nata nel’36 avevo avuto modo a Vimercate di notare la vivacità. Con uno svolazzante vestitino ed i riccioli biondi, quando sentiva suonare il campanello della porta del negozio, se era in cucina apriva la porta che da-va nel negozio per vedere chi fosse. Se il malcapitato, perché era estate e perché era di moda, calzava scarpe bianche di camoscio – quelle che sono belle da vedere tutte bianche, ma se le sporchi sono guai a pulirle – Licia con un sorrisetto malizioso si avvicinava. L’uomo le sorrideva, pronunciava ma-gari qualche parola di complimento, sui riccioli, sulla bella veste. A quel punto con mossa subitanea Licia saltava su quelle belle scarpe bianche che proter-ve stavano lì a tentarla. Interveniva mio padre, scusandosi, mia madre cercava con una spazzoletta metallica di ridurre il danno. Il malcapitato, sbiancato in volto, assicurava che non era niente, che si sa, i bambini… 
Di Tiziano ricordo invece in quegli anni soprattutto le bende usate per avvolgerlo come un baco da seta. Così avvolto, o dormiva o succhiava il latte dal trasbordante seno della nostra prosperosa mamma. 
La famiglia partì ed io rimasi solo, con i miei doveri di scolaro a Vimer-cate.

La vocazione

Il ricordo del Vimercate della mia infanzia, portato lontano dagli avve-nimenti, sarà ingigantito forse inconsciamente. Anche dai ricordi delle grandi parate, oltre il fatto che ne conoscevo ogni angolo, ognuno ingrandito nella memoria. Ci sono ritornato da grande: delusione! Quei grandi ricordi confrontati con la realtà di strette viuzze, di cose nuove di gusto pacchiano, mi han-no fatto fuggire. Preferisco quelle immagini tanto grandi per la mia fantasia infantile. 
Quello che ricordo più di tutto sono delle gonne nere. Delle gonne nere da cui spuntavano strane scarpe con una grossa fibbia cromata. Più tardi ho rivisto quelle scarpe nelle illustrazioni del Gonin dei Promessi Sposi. 
I preti furono assai numerosi nella mia infanzia. Anzitutto quelli dell'Oratorio, il posto dove si rifugiavano bambini e ragazzi di tutte le età. Vi andavo, appena grande abbastanza, tutte le domeniche a messa ed a giocare. Al cinema, poi, quando avevo i 50 centesimi necessari. Al cinema dell'Oratorio, beninteso, non a quello peccaminoso di Via Garibaldi. Ricorderò sempre il bravo don Attilio che reggeva l’Oratorio e giocava a pallone con noi. Ricordo le due grandi chiese di Vimercate. La cattedrale santuario con l’intenso odore d’incenso nelle funzioni delle grandi feste. L’austera e medievale chiesa di Santo Stefano, che ospitava durante la quaresima dei padri predicatori. Si sbracciavano dal pulpito alto sopra la folla a predire le fiamme dell’inferno per i peccatori. La pelle s’incaponiva al pensiero dei miei peccati e delle fiamme dell’inferno che mi sarei meritato.
L’Oratorio fu il luogo dove imparai il catechismo. Bei tempi allora per me. Allora sapevo chi era Dio: 'Dio è l'essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra'. Allora sapevo dove era Dio: 'Dio è in cielo ed in terra ed in ogni luogo'. Ora? Ora non so. Ero molto bravo al catechismo, tanto che ci tennero a darmi una medaglia. L'ho persa. Peccato. Ero anche aspirante chierichetto. Anzi, il mio più grande desiderio era di divenirlo. Ma era un compito troppo arduo. Così mi pareva. Avevo paura di dimenticare le parole del confiteor durante la Messa. Veramente i chierichetti non si preoccupava-no tanto di ciò. Giuro che non capivano una parola di quello che dicevano. Non solo, ma nessuno, neanche il prete, riusciva a capirlo. Avevano però la cantilena adatta. Io desideravo ardentemente servire la messa. Specialmente per via del campanello. Lo accarezzavo in sagrestia e guardavo con invidia la noncuranza con cui l’afferrava il chierichetto capo. Solo una volta mi per-misero di suonare il campanello in chiesa al sanctus. Fu perché avevano bi-sogno di un rinforzo. Era una grande messa cantata e per di più celebrata nella cattedrale. Vi erano tre o quattro campanelli da agitare. Il mio fu un compito corale, diciamo. Mi limitai a scuoterlo per qualche secondo, in sordina. Il vero gesto che a me piaceva tanto, l'alzare imperiosamente il campa-nello fin sopra la testa per poi farlo scendere con forza, due, tre volte, quello lo fece il capo. Quella volta sembrò più fiero che mai. 
Mi piacevano le funzioni in chiesa specialmente quando vi era addobbo grande di parati. Mi piaceva in particolar modo la processione. Allora toccava anche a me un incensorio. Com’ero fiero di dondolarlo da destra a sinistra, come m’inebriavo di quell'acre odore d'incenso. Mi sembrava che tutti gli oc-chi della gente ferma lungo la strada a veder passare la processione, fossero rivolti a me. Certamente mi cercavano in quelle occasioni gli occhi di mia madre. In particolare quell’anno che, ancora piccolo, mi avevano messo due ali da angelo. 
Solo allora ho veramente goduto del culto della religione cattolica. Allo-ra mi piaceva tutto della religione. Le prediche suscitavano in me entusia-smo. Le missioni, morire per Cristo; morire, già, perché gli infedeli uccidono e torturano i suoi paladini. Mi montai la testa tanto che volli farmi prete. Ma poi dovetti partire per altri paesi, per altri contesti, dove i preti erano meno pre-senti. La toscana Versilia. Ma questo sarebbe avvenuto più tardi. 
Tra i ricordi di quegli anni c’è anche quello di un’insolita animazione un pomeriggio del febbraio ’39. I nostri giochi erano interrotti ogni tanto da qual-che grande che usciva da casa portando la notizia sentita alla radio che vi era stata ancora fumata bianca. Finalmente ci fu la fumata nera e Pacelli di-ventò papa Pio XII. Di quell’avvenimento a me interessò soprattutto la que-stione pratica di come si facesse ad avere la fumata bianca o nera. Mio pa-dre, sicuro di sé, disse che la fumata bianca si faceva con la paglia, mentre per quella nera ci voleva il carbone di legna. Non ho mai verificato se lui mi avesse risposto con sicurezza per cognizione di causa. In ogni caso, non persi l’alta opinione che avevo di lui come uno che di cose pratiche se ne in-tendeva. L’elezione del nuovo papa fu certamente occasione di cerimonie in chiesa ed all’Oratorio. Ma non ne ho particolare ricordo.

Don Attilio il rettore dell’Oratorio fu il tipo di prete che più ebbe, involon-tariamente per lui, l’effetto di farmi considerare l’idea di farmi prete. Benché ogni tanto ci avessi già pensato, fu determinante l’ultimo anno in cui vissi da solo a Vimercate. 
Poiché la mia famiglia era a Massa Apuania, per non pesare sul cogna-to che aveva già quattro figli da accudire ed allevare, mio padre mi mise come interno al Collegio Arcivescovile, retto dai padri barnabiti. Ho sempre pensato che il collegio prendesse il nome dal poeta Pindemonte, che conoscerò in terza media per via della traduzione dell’Odissea. Ho poi scoperto che il nome del collegio invece era Pinamonte, che era anche il nome della via in cui era sito il collegio. Chi era costui? Per chiarirmi le idee ho dovuto compulsare un’enciclopedia. I bravi padri barnabiti non si curarono certo di spiegarci il perché del nome. Né noi, a dire il vero, avevamo mostrato alcun interesse al riguardo. Pinamonte da Vimercate o, meglio al genitivo, Pina-monte Vimercati, apparteneva ai feudatari cui era stato assegnato fin dal 1100 il feudo vescovile di Vicus Mercati. Uso il nome latino del paese in cui sono nato, perché a scuola c’insegnarono che questo era il nome antico, e che il paese lo deve all’ampio mercato che da sempre, tutti venerdì, inonda di bancarelle le vie e le piazze del paese. Da Basilio tutti a mezzogiorno il ve-nerdì a mangiare una peccaminosa scodella di trippa. Ma non è di magro il venerdì? Così almeno insisteva quel tale che ogni settimana, il venerdì, installava proprio nella nostra piazzetta un grosso bidone che fungeva da stufa e su cui in un’enorme padella friggeva il merluzzo impanato. Pinamonte pare che fu console di Milano per un paio di volte attorno alla fine del 1100. Quindi a buon diritto il suo nome poteva campeggiare su un collegio che si vantava dell’appellativo arcivescovile. 
Dei bravi padri barnabiti ricordo il preside, persona molto saggia. La maggior parte dei professori vestiva l’abito talare. Le eccezioni erano per l’insegnante di ginnastica e per quello d’educazione tecnica. Quest’ultimo, era il signor Penati che aveva un negozio di cartoleria non lontano dal colle-gio. Quel vecchio cartolaio era anche rilegatore di libri, e proprio questo c’insegnò nelle lezioni d’educazione tecnica. E deve essere stato molto bravo perché, mentre non ricordo più niente di quanto ci avessero insegnato gli altri professori, di lui ricordo tutto. Può darsi anche che me lo ricordi perché aves-si predisposizione all’attenzione per i lavori manuali, dopo gli insegnamenti, anche con supporto di tecniche didattiche manesche, con le quali mio padre mi aveva avviato ai segreti di come tenere in mano la lima. Oppure, perché finalmente imparavo qualcosa che mio padre non conosceva e che io poi gli avrei potuto insegnare. Forse uno psicanalista ci vedrebbe la conferma del complesso d’Edipo. 
Il signor Penati, fece anzitutto costruire a ciascuno di noi una specie di teatrino di legno, una base, due colonne una traversa. Il tutto alto e largo due spanne. Sulla traversa in alto ci fece inchiodare tre chiodi che dovevano re-stare mezzo fuori dal legno e altri tre in corrispondenza verticale sulla base. Unimmo i chiodi corrispondenti sopra e sotto con dello spago. Ecco pronto l’attrezzo per rilegare. Poi ci fece prendere qualche nostro vecchio libro tutto sdrucito e bisognoso di rilegatura. Io portai la grammatica latina che avevo comperata usata e che non stava più molto insieme. Ci fece vedere come i libri siano fatti da quinterni, legati insieme da del filo. Ci fece vedere, cosa cui nessuno di noi aveva mai fatto caso, che in basso sul primo foglio di ogni quinterno c’era un numerino piccolo piccolo che rappresenta il numero pro-gressivo del quinterno stesso. Qualche volta c’era pure ripetuto in piccolo nome dell’autore e del libro. Ci insegnò a squinternare i quinterni, a ripulirli dai residui di filo e colla. Poi i quinterni venivano messi in ordine e stretti assieme in una morsa. Con una raspa si tracciavano sul dorso tre solchi che dovevano corrispondere ai tre spaghi che pazienti attendevano sul teatrino. Si prendeva quindi un ago da maglia e s’infilava con del filo fine, ma resisten-te. Operazione che avevamo visto fare innumerevoli volte dalle mamme e con aghi molto più piccoli. Operazione facilissima. Per le donne, un po' meno per noi. Infilato l'ago si prendeva il primo quinterno e lo si metteva sulla base del teatrino in modo che nei solchi ritagliati sul fianco entrassero i tre spaghi tirati verticalmente sui tre chiodi. Tenendo aperto il quinterno nella sua pagi-na di mezzo, con l’ago si cercava di infilare il buco e far passare il filo attorno al primo spago e da lì al secondo e poi al terzo. Poi si prendeva il quinterno successivo e via di seguito fino a completamento del libro. A questo punto si potevano tagliare gli spaghi lasciandone però un pezzo di tre-quattro centi-metri per parte. Adesso il libro veniva messo in una morsa e con della colla fatta con farina ed acqua calda s’incollava il dorso. Poi estratto dalla morsa, s’incollavano i mozziconi dello spago sul foglio delle terze di copertina. Il tutto veniva ora messo in una pressa ad asciugare. E poi… e poi. Qui saltava fuori l’artista. Bisognava scegliere un cartone per copertina, magari di quelli mar-morizzati. Il nostro insegnante era capace di avvolgere il tutto in una tenera pelle e poi di incollare la copertina al libro. Infine di dorare delle lettere stam-pate sul dorso con autore e titolo. Ma non si può pretendere troppo da giovani apprendisti. Ho rivisto dopo decenni quella vecchia grammatica ancora re-sistente all’usura, ma chiusa in un cartone marrone marmorizzato e senza scritte in oro. 

Il preside ogni tanto chiamava uno di noi, non per fargli la predica, ma per discorrere con lui, sul futuro, su quali fossero le sue intenzioni. Ti riceveva nel suo bel studio, dietro ad una larga scrivania con alle spalle una biblio-teca piena di libri. Fu quel suo modo di parlarci, quella calma e serenità che traspirava da tutto intorno, che, aggiunta all’esempio di don Attilio, mi fece pensare sempre più spesso all’idea di entrare in seminario. Ma non ne parla-vo mai con nessuno. Era una cosa che lasciavo maturasse dentro di me. Non potevo certo parlarne con i cosiddetti “prefetti” che ci sorvegliavano il pomeriggio durane il doposcuola. Erano dei seminaristi, che studiavano nel collegio stesso e che sottraevano qualche ora allo studio per far studiare noi. Erano giovani preoccupati soprattutto di riuscire a mantenere la disciplina più che investigare cosa coltivassero nell’animo gli allievi. Che tra l’altro, nonostante il luogo, se appena smettevi la guardia diventavano turbolenti come in tutte le scuole. 

Il collegio era frequentato soprattutto da esterni, miei compagni alla scuola elementare. Gli interni erano pochi, tra cui il sottoscritto che però essendo di Vimercate veniva spesso lasciato uscire nelle ore di libertà per an-dare a trovare i parenti. Questa almeno era la scusa che usavo. Magari, in-vece che da mio zio Verdi, andavo all'Oratorio dove sentivo grida dei ragazzi che giocavano al pallone. Fu grazie ad una di queste uscite eccezionali per via della parentela, che non partecipai ad un episodio che ebbe gravi conseguenze per uno dei miei compagni. 
Un pomeriggio durante il doposcuola, il prefetto dovette assentarsi. Quel mio compagno, che dava peraltro ampi segni d’irrequietezza anche in presenza del prefetto, per mostrare ai compagni come lui fosse ormai più istruito di loro, montò su un banco ed estrasse dalla patta dei pantaloni il suo pisello (così per pudicizia viene ancor oggi chiamato). E lo mostrò a tutti van-tando le meraviglie che si potevano ottenere manipolando l’arnese. Purtrop-po in quel mentre il prefetto entrò in classe. Fu un enorme scandalo. Ne parlò tutto il paese. Il ragazzo venne sospeso immediatamente dal Collegio. Non solo. Il Provveditore agli Studi, decretò che fosse sospeso per sempre da tutte le scuole del Regno. Forse l’episodio non era in linea con la mistica fasci-sta. Anche se le malelingue dicevano che non discordava poi molto dal com-portamento di molti gerarchi. Lasciato Vimercate finito l’anno scolastico, non seppi più nulla di come finisse la storia. Penso che lo studente sia poi stato perdonato. In ogni caso, deve aver cambiato abitudini, sia diventato più ca-stigato nei costumi. Almeno a giudicare dal fatto che entrò in politica nella Democrazia Cristiana, e, se non sbaglio persona, diventò anche sindaco di Vimercate. 

Devo dire che io non approvai quella manifestazione d’esuberanza giovanile. Anzi, i miei propositi di ben fare per tutta la vita vennero consolidati. Andai a confessarmi da don Attilio e gli manifestai il proposito di farmi prete. Non si prese gioco di me. Forse non sapeva bene come prendere una così improvvisa determinazione. Mi disse di andare a parlarne con il Prevosto. Vimercate, parte importante della diocesi di Monza, e che ambiva da anni a diventare città, a superare lo stato di paesone, non aveva il solito parroco, bensì un prevosto, un monsignore. Il prevosto - non mi ricordo il nome per-ché tutti lo chiamavano Signor Prevosto e non don… come si faceva coi preti - aveva la physique du role. Alto, signorile, riservato, anziano con una cara-mellosa bonomia in volto quando ti parlava, incuteva in me molta soggezio-ne. Tuttavia dovetti decidermi ad andare da lui, per il problema che mi urge-va, anche perché le scuole sarebbero finite tra poco ed io avrei dovuto raggiungere i miei. Così il pomeriggio di un sabato, raggiunsi la canonica. Si at-traversava un giardino per arrivare alla porta. A fianco, una grotta riproduce-va la Madonna di Lourdes. Mi inginocchiai e fece il segno della croce, cer-cando coraggio. 
Il prevosto mi ricevette con un sorriso che dapprima fu semplicemente bonario, poi, sentito cosa avevo da dirgli, svoltò all’ironico. “E quando ti è ve-nuto in mente di farti prete?” Preso alla sprovvista, farfugliai che non era da molto, che ci pensavo qualche volta la notte. Il Signor Prevosto mi liquidò in fretta dicendomi: “Forse sarà meglio che tu ci pensi ancora un poco. Se poi non avrai cambiato idea, torna pure da me.”
Uscii sconcertato da quel colloquio. Perché non mi aveva preso sul se-rio? Io ci avevo pensato abbastanza, ero deciso. Andai da don Attilio. Lui cercò di mitigare la ferita al mio orgoglio. “Il Signor Prevosto ha ragione, perché la vocazione è una cosa seria. Bisogna proprio essere sicuri che uno l’abbia. Se tu l’hai non ti passerà certo perché ci pensi su ancora un poco. Adesso vai cogli amici a giocare al pallone. Senti, sono qui nel campo dell’Oratorio.”
Quel prevosto in fondo fu più saggio di quanto pensassi in quel momento. Non ne parlai più con nessuno. Poi venne il cambiamento. Altri paesi, altre idee, altre inclinazioni.