di Roberto Bertinetti
ROMA (26 dicembre) – “Verrà ricordato come il più grande e importante
drammaturgo inglese della seconda metà del Novecento”. Erano unanimi ieri
tutti critici britannici nel giudicare l’importanza di Harold Pinter,
scomparso a 78 anni alla vigilia di Natale, ucciso da un cancro contro il
quale combatteva da tempo. La scorsa estate, in un’intervista alla Bbc,
Pinter aveva annunciato l’addio al teatro: «Ho composto una trentina di
testi e sono stanco, voglio dedicare le energie che mi restano alla poesia e
all’impegno politico», disse allora. Leader carismatico della sinistra
radicale del Regno Unito, pacifista e difensore dei diritti umani, aveva
guidato l’opposizione interna alla guerra in Iraq, attaccando in ogni
circostanza Tony Blair, definito «un autentico criminale che va in giro con
un ipocrita sorriso cristiano stampato sulla faccia». Ancora più duro il suo
giudizio su Bush e sugli Usa: «Gli Stati Uniti sono il vero stato canaglia,
un paese arrogante, sempre sprezzante verso le leggi internazionali, la
potenza più pericolosa che il pianeta abbia conosciuto», ha scritto.
La sua corsa controvento contro il potere iniziò molto presto, nel
poverissimo quartiere operaio di Hackney, alla periferia di Londra, dove era
nato nel 1930 da una famiglia di sarti di origine ebraica. Per due volte,
diciottenne, finì in tribunale dopo aver rifiutato di indossare la divisa
militare durante il periodo di addestramento allora obbligatorio. «Fui
fortunato, visto che mi capitò in entrambi i casi lo stesso magistrato
comprensivo che si limitò a multarmi: 10 sterline la prima volta, 20 la
seconda. Forse sarà richiamato per la prossima guerra, ma di sicuro non ci
andrò», disse in seguito. Il debutto letterario è del 1950 con alcune poesie
apparse su una piccola rivista firmate “Harold Pinta”, nel 1951 esordisce in
teatro con l’Enrico VIII di Shakespeare e subito dopo inizia a lavorare per
la compagnia di Anew McMaster, che porta i classici del repertorio sui
palcoscenici di tutto il Regno Unito.
E’ un periodo difficile ma entusiasmante che permette a Pinter di
comprendere le sue doti di drammaturgo e di scrivere il primo testo, La
stanza, messo in scena a Bristol nella primavera del 1957. Pochi mesi più
tardi il grande salto a Londra, dove un impresario a caccia di giovani
talenti produce Il compleanno, oggi ritenuto un capolavoro assoluto che però
allora non piace alla critica. «Spiacente, signor Pinter, lei non è
abbastanza divertente», sentenziano i quotidiani, sconcertati dal gioco di
specchi portato sul palcoscenico, dall’atmosfera surreale che fa da
contrappunto a una vicenda e un dialogo all’apparenza naturalistici, con un
protagonista dall’incerto passato al quale danno la caccia due emissari di
una banda criminale.
Neppure ventiquattro mesi più tardi, la sera del 27 aprile 1960, i giudizi
su Harold Pinter si ribaltano. Dopo la prima di Il guardiano il consenso è
unanime: «Siamo alle prese con una seducente deviazione dalle consuete vie
battute in teatro, con un lavoro affascinante», si legge sul Guardian, «Mr
Pinter ci abbandona a una piacevolissima confusione», aggiunge il Times, «lo
spettacolo che ha debuttato l'altra sera al Lyceum è di un giovane autore
che promette di diventare uno dei più importanti del teatro contemporaneo»,
sostiene il New York Times.
Con una buona dose di sarcasmo lo stesso Pinter avrebbe in seguito
commentato: «A Londra hanno messo in scena due miei lavori completi. Il
primo ha ‘tenuto’ una settimana, il secondo un anno. Tra i due ci sono,
naturalmente, delle differenze. In Il compleanno ho impiegato delle
lineette fra le espressioni, in Il guardiano ho sostituito le
lineette con dei puntini. Si può dedurre, pertanto, che i puntini hanno
maggiore successo delle lineette. Il fatto che in nessun caso si possano
sentire durante lo spettacolo lineette e puntini, è una questione
secondaria. Non si devono gabbare i critici troppo a lungo. Sanno
distinguere un puntino da una lineetta a un miglio di distanza, anche se
non sentono né l’uno né l’altra».
Oltre all’impiego di lineette e puntini (che nei drammi indicano le lunghe
pause tra una battuta e l’altra, elemento inconfondibile del suo stile),
cosa caratterizza il teatro di Pinter? L'impiego contemporaneo di elementi
presi dalla tragedia e dalla farsa, si è detto spesso. Aggiungendo che i
suoi testi rammentano i quadri iper-realisti in cui tutti gli elementi che
vi appaiono sono la riproduzione accurata di particolari reali, ma al tempo
stesso vengono immersi in una dimensioni al di fuori dal reale. Di fronte a
Pinter va in ogni caso evitato il ricorso a luoghi comuni interpretativi
che banalizzano una ricerca articolata e complessa, non riassumibile nelle
formule abituali. Campione dell’assurdo, maestro di silenzi, drammaturgo
della minaccia? Certo, Pinter è anche questo. Ma non solo, perché da
un’attenta lettura dei suoi testi emergono altri temi di cui schemi troppo
rigidi non possono dar conto. E’ lo stile “pinteresque”, così riassunto
dagli accademici di Stoccolma quando, nel 2005, gli assegnarono il
Nobel: «Una modalità assolutamente originale per svelare il baratro sotto le
chiacchiere di ogni giorno e costringerci a entrare nelle chiuse stanze
dell’oppressione».
C'è un aneddoto rivelatore, narrato dallo stesso Pinter, che indica
l’inconsistenza di alcune formule. «Una volta, parecchi anni fa, mi sono
trovato in mezzo a una discussione in pubblico a proposito di teatro. Uno
mi ha chiesto di che cosa parlavano le mie commedie. Ho risposto senza
pensarci tanto, tanto per troncarla lì, e ho detto: "Della donnola sotto il
mobile bar". Che sbaglio! Per anni e anni ho visto questa espressione
citata in non so quante recensioni. Ora sembra voglia dire chissà cosa, ha
acquisito un significato profondo e passa per una osservazione acuta e
sensibile a proposito del mio lavoro. Per me non voleva dire assolutamente
niente».
Se esiste un denominatore comune per riassumere un lavoro che si è protratto
per circa mezzo secolo, consegnando all’umanità capolavori assoluti (Il
guardiano, Il calapranzi, Ritorno a casa, Vecchi tempi,
Tradimenti, Il linguaggio della montagna) lo si rintraccia
nell’idea di “teatro problematico”. Pinter, in altri termini, privilegia
una ricerca aperta su temi che possono essere di volta in volta esistenziali
o politici senza mai chiudere il cerchio, evitando di offrire risposte. Nel
suo teatro, poi, il linguaggio riveste una importanza cruciale, viene usato
in una maniera diversa rispetto ad altri autori che pure condividono le
sue scelte in campo estetico: non per sottolineare difficoltà di
comunicazione (è il caso, ad esempio di Beckett o di Ionesco), ma per
portare in primo piano il bassissimo livello di conoscenza assicurato dal
dialogo, come appunto spiega la motivazione del Nobel per la letteratura.
Che cosa intenda esprimere con questa tecnica è riassunto in un intervento
del 1984 dove osserva: «Voi, io e i personaggi per la maggior parte del
tempo restiamo inespressivi, reticenti, incostanti, elusivi, impacciati,
svogliati. Ma è da simili attributi che nasce un linguaggio. Un linguaggio
in cui sotto ciò che viene detto si dice un’altra cosa». L’obiettivo è,
dunque, mettere in evidenza il modo in cui la comunicazione tra gli uomini
tenda a rivelare la loro miseria spirituale e le loro paure. Si tratta di un
tema che ha avuto valenze quasi metafisiche durante la prima parte della sua
carriera per assumere in seguito venature politiche a partire dalla seconda
metà degli anni Ottanta. Quando Pinter ha fatto dell’impegno esplicito la
sua bandiera, arricchendo di nuove tonalità lavori di altissimo livello
artistico, segnati da una forza espressiva e da una originalità estetica che
per mezzo secolo gli hanno assicurato una leadership indiscussa nell’ambito
del teatro di lingua inglese.
Harold Pinter
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Morto il premio Nobel Harold Pinter
"Ho scritto 29 piece in 50 anni, non è abbastanza?
Certamento lo è per me'’. Harold Pinter amava ripetere questa frase negli
ultimi anni, segnati dalla malattia che lo aveva colpito nel 2002, dalla
soddisfazione di aver avuto il Premio Nobel nel 2005, ma anche dalla
rinnovata voglia di impegno politico e di difesa dei diritti civili, che lo
aveva fatto attaccare duramente Bush e Blair.
Lo scrittore, scomparso a Londra all’eta di 78 anni, aveva infatti già
consegnato la sua opera al passato, vendendo il suo archivo alla British
Library, giusto un anno fa per 1.65 milioni di euro. Centocinquanta
scatoloni contenenti lettere, manoscritti, fotografie. Tra le gemme preziose
quella del capitolo segnato dalla sua amicizia con Samuel Beckett, con il
quale condivideva la passione per cricket e il rugby, ma anche ovviamente
quella teatrale.
Non è certo un caso, anzi indica la forza di suggestione che ha la sua
opera, il fatto che dal nome di Harold Pinter sia nato un aggettivo,
pinteriano, che segue, ma si diversifica da beckettiano, derivato dal nome
dell’autore di cui è sempre stato considerato un po’ l’erede. Il primo
esprime comunque un disagio, una sensazione forte di incertezza e timore,
mentre l’altro ha un sapore di catastrofe e smarrimento più totale.
Raramente un autore è stato così immediatamente metaforico per forza
poetica, per qualità e invenzione drammatica come Harlod Pinter, che era
considerato da tempo un classico del Novecento. Non si è mai tirato indietro
davanti all’impegno civile e col tempo è passato da una vena più
esistenziale a una più decisamente politica mantenuta fino all’ultimo. Di
pochi mesi fa il suo ultimo appello per fare giustizia ed individuare i
responsabili dell’uccisione di Anna Politkovskaia.
Il suo impegno radicale contro ogni prevaricazione del potere, anche quello
democratico, e in nome della pace, che diventa pubblico negli anni del
governo Thatcher, lo avvicina, per certi versi, a un altro premio Nobel,
Dario Fo. L’impegno lo avvicinò anche ad Arthur Miller con il quale nel 1985
fu protagonista in Turchia di una violenta denuncia dell’oppressione
politica che costò ad entrambi la cacciata: ne nacque la commedia
Mountain language.
Ma tanto fu diretto nella vita quanto invece allusivo sulla
scena, dove diede vita al teatro della minaccia ('’La vita di ognuno di noi
è sempre minacciata e incerta. Viviamo nella repressione e fingiamo di
vivere nella libertà'’). La sua è l’arte di scrivere per sottrazione,
costruendo personaggi e vicende esemplari, sganciate da ogni contingenza. E
nonostante questo riuscendo a farli sentire vivi, concreti, esemplari.
Vale per le figure dei primi drammi anni Cinquanta e Sessanta, dal
Calapranzi al Guardiano, come per quelli più politici degli
ultimi venti anni, da Il bicchiere della staffa a Ceneri alle
ceneri, passando per le tragicommedie che trattano apparentemente
dell’amore e delle sue menzogne, da L’amante a Tradimenti,
ma che forse parlano di inganni ben più profondi e esistenziali, della morte
inevitabile di illusioni e speranze.
Pinter, nato ad Hackney, un sobborgo di Londra, il 10 ottobre 1930, iniziò
la sua carriera teatrale come attore, prima frequentando grandi scuole di
recitazione, poi girando l’Irlanda con una compagnia shakespeariana con lo
pseudonimo di David Barron. La sua carriera di drammaturgo iniziò, quasi per
caso, nel 1957, quando scrisse per un amico in quattro giorni un atto unico
intitolato La stanza. Del 1958 il celebre Festa di compleanno,
in cui due ignoti visitatori piombano a casa di un giovane misantropo che
vive isolato. Ancor maggiore impatto suscita i lavoro di Pinter quando gli
argomenti diventano più drammatici, e si capisce che il riferimento è, per
esempio, alla tragedia dei desaparecidos argentini in Il bicchiere della
staffa del 1984 o alla Shoah in Ceneri alle ceneri del 1996.
Autore del suo tempo, Pinter ha anche scritto testi radiofonici, volumi di
poesia e sceneggiature per il cinema, legando il suo nome a film di qualità
e successo, come La donna del tenente francese di Reisz, per cui è
stato candidato all’Oscar e al Golden Globe, Cortesie per gli ospiti
di Schrader, Messaggero d’amore di Losey. Ha adattato per il cinema
anche il capolavoro di Proust, mai realizzato e uscito solo in volume.
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