Da "PITHECANTHROPUS ERECTUS" - Charles Mingus -

 

Mi ricordo la soddisfazione nella voce di Mingus, quando mi lesse, al telefono, questa parte delle note di copertina, discutendo il brano che dava il titolo all’album. Aveva scelto un contenuto piuttosto ampio, sul quale stava meditando, non sotto il profilo armonico, ormai da molto tempo, e che aveva trasformato, non solo in musica, ma che aveva pure condotto i suoi colleghi a condividerne la coraggiosa e decisa visione. Come egli stesso spiega, non può aver fatto questo disco semplicemente mettendo gli spartiti davanti agli occhi dei suoi musicisti. Essi dovevano imparare la musica ascoltandola da lui, per poi trovare le loro strade all’interno del disegno, per così comprendere la nascita ed il declino del Pithecanthropus Erectus.

Nei brani di questo LP, come del resto in tutte le esibizioni d’insieme di Mingus che verranno, i suoi musicisti erano coesi per poter indagare a fondo se stessi. Un alunno di Mingus mi disse poco tempo fa: "Nel mezzo di un assolo lui ti urlava: ‘Smetti di suonare con leggerezza ed entra in te stesso!’ Cristo, aveva più fiducia lui nei nostri riguardi, che non noi stessi".

In questo disco si può sentire ad esempio, la dilatazione di Jackie McLean, di J.R. Moterose, di Mal Waldron, di Willie Jones, e di Mingus stesso. Nella gioia come nella collera, e comunque nel ricordo di un amato passato, celebrando con la musica la forza vitale, Mingus lo faceva con serietà; parafrasando la scrittrice inglese di libri jazz, Valerie Wilmer, "La sua musica era importante come la sua vita". Lo stesso Mingus affermò infatti: "Nella musica, cerco di suonare la parte vera di ciò che sono; il motivo per cui risulta difficile, sta nel fatto che sono un essere mutevole".

Certo, determinate tematiche e preoccupazioni riguardano, e talvolta consumano, la sua vita. Spesso infatti, egli parla di Pithecanthropus Erectus, perché soventemente pensa al futuro delle specie. Tempo fa viveva queste sensazioni, le trasponeva poi in quella musica che dovremmo ascoltare, prima che sia troppo tardi per imparare, quanto deleteria sia la falsa sicurezza di chi asservisce.

Peraltro, vi fu un pomeriggio, poco prima che morisse, in cui stavamo parlando del razzismo che aveva combattuto per tutta la vita, e a tal proposito disse: "Non è solo una questione di colore della pelle; è qualcosa che va oltre. Voglio dire che è molto difficile per un uomo ed una donna amare e basta. I popoli si stanno disintegrando, e ciò dipende dal fatto che solo poche persone stanno facendo uno sforzo per cercare di capire chi sono realmente. La maggior parte delle persone è costretta a fare delle cose che non farebbe mai spontaneamente e che occupano buona parte delle loro giornate, per poi realizzare che non gli è rimasto molto tempo da dedicare alle cose importanti, compresa quella di chiedersi chi sono. Abbiamo dato vita alla nostra stesssa schiavitù".

La persistente energica presenza della musica di Mingus, è visibile sotto vari aspetti, ma in questo album risulta più evidente e luminosa, frutto di un uomo dal carattere fermo e deciso.

— Nat Hentof

 

 

 

 

 

Note tratte dalla prima edizione dell’album (1956).

 

Il gruppo di brani registrati in questo LP, sono il risultato di un’idea concepita quattordici anni fa, quando stavo frequentando il Los Angeles City College. Allora il gruppo di lavoro era inteso in senso classico: musicisti che s’incontrano per discutere delle idee, provare cose nuove, ed imparare gli uni dagli altri. Quando nel 1951 giunsi a New York, mi sembrava che nel jazz mancasse quest’intimità, la spontaneità, il suonare ed il progredire assieme. Nell’estate del 1953, ebbi l’occasione di fare dei concerti con altri musicisti al Putnam Central Club di Brooklyn, che diede l’opportunità a diversi musicisti di trovarsi per suonare assieme brani nuovi composti da loro o da altri giovani autori. Una di queste esibizioni vedeva quattro trombonisti, e rappresentò l’inizio della nuova combinazione detta "Jay & Kay".

Grazie al successo di queste nuove collaborazioni musicali, prese piede un’altra idea che venne realizzata, e che vedeva la collaborazione tra Bill Coss del Metronome, Teddy Charles, John La Porta e Teo Macero, riuniti sotto il nome di "Composer’s Workshop". Sebbene il loro successo fosse indiscutibile, ero dell’opinione che, analizzando l’insieme, questa corrente aveva tralasciato il termine "Jazz". Scrissero ed interpretarono dell’ottima musica, che però era più scritta e strutturata, piuttosto che improvvisata. Mi ricordo di un episodio accaduto durante alcune prove, quando Teddy lascò delle note in sospeso per poter prendere fiato, e tutti noi gli dicemmo: "Ehi, ma sei proprio pigro. Perché non te le scrivi?".

Da quella serie di concerti ho tratto due importanti conclusioni. La prima è che, una composizione di jazz, come la posso sentire nelle orecchie della mia mente, anche se viene scritta con precisione ed accuratezza, può essere suonata solo o da una band di jazz, o da un’orchestra classica. Secondariamente, il jazz, per sua stessa definizione, non può essere limitato a partiture scritte, suonate con un sentimento che si limita alla forza con cui si immette aria nello strumento. Un musicista classico può correttamente leggere tutte le note presenti sulla partitura, ma poi suonarle senza capirle; un jazzista, sebbene possa leggerle e suonarle con il feeling tipico di questa musica, vi introduce inevitabilmente una propria e personale emotività, che non è detto possa coincidere con quella del compositore. È sorprendente in quanti modi un fraseggio di quattro battute possa essere interpretato!

Il concetto di gruppo che collabora che ho attualmente, non ha niente a che fare con la musica scritta. Certo, scrivo le partiture, ma solo nella mente, e poi le espongo, pezzo per pezzo, ai musicisti. Suono loro la struttura al piano in modo tale da renderli familiari con l’interpretazione e lo spirito che ho voluto dare al brano e con le scale e le progressioni armoniche che si devono utilizzare. Considero lo stile personale di ogni singolo musicista, sia nell’insieme, che durante gli assoli. Ad esempio di solito do loro da suonare su ogni accordo una rosa di note, che scelgono ed eseguono liberamente secondo la loro inclinazione, dalle scale agli accordi, tranne ovviamente quando la musica richiede particolari esigenze. In questo modo è quindi possibile ottenere il giusto sapore compositivo permettendo agli stessi musicisti una libertà interpretativa dei brani e degli assoli.

Sono spesso stato accusato di essere un compositore eccentrico, fuori dagli schemi. Vero o falso che sia, non ho cambiato idea, ma solo il metodo per realizzarla. In questa particolare formazione, trovo che la qualità dello stile di musicisti come J.R. e Jackie, (J.R. proviene dalla scuola di Rollins, mentre Jackie da quella di Bird), sia già familiare al pubblico. Posso anche dire di aver imposto loro determinate scale e di aver tagliato delle battute, ma le loro linee abituali suonate sulla mia, forse finora inconsueta ossatura, dovrebbero servire a spiegare meglio ciò che voglio dire.

PITHECANTHROPUS ERECTUS. Questo brano è una poesia jazzata, in quanto descrive musicalmente l’idea di un moderno sosia dell’uomo eretto, la sua arroganza che lo porta a ritenersi il primo tra tutti gli animali ad essersi eretto su due zampe, che si batte i pugni sul torace e proclamando la sua superiorità quando, in fin dei conti, è ancora prostrato. Tutto preso da un’alta considerazione di sé, se ne va in giro pensando di governare il mondo, se non l’universo, ma fallendo clamorosamente nel realizzare l’emancipazione di coloro che ha visto ridotti in schiavitù, e con la bramosia di mantenere false certezze, nega loro il diritto di essere degli uomini, per poi alla fine distruggerli. Sostanzialmente la struttura di questo pezzo può essere suddivisa in quattro fasi: (1) l’evoluzione;(2) Il complesso di superiorità; (3) il declino e (4) la distruzione.

Le prime tre parti vengono suonate sullo schema ABAC eseguito dal gruppo, con i sax alto e tenore che assieme descrivono la seconda fase; poi ogni solista ripete lo schema raccontandolo a modo proprio. L’ultima parte si basa sulla terza, ma aumenta nel tempo e d’intensità, per poi raggiungere un punto definitivo di massima tensione che rappresenta la distruzione finale, paragonabile ad un organismo in fin di vita che dà un estremo colpo di coda prima di esalare l’ultimo respiro. Il pezzo è stato scelto come titolo dell’album per l’ampiezza della visione e della percezione musicale contenuta nella tematica.

A FOGGY DAY. Questo brano è per la verità sottotitolato "A Foggy Day in San Francisco", in quanto non sono mai stato a Londra, ed ho quindi raccolto i suoni della zona del porto. Al primo ascolto potreste essere tentati di farvi una risata (una sana risata non ha mai fatto male a nessuno), ma quando la riascoltate, provate ad immaginare il sax tenore che suona una melodia nello stesso modo in cui John Doe percorre Market Street verso l’approdo dei traghetti, e sente i suoni di una grande città immersa nella nebbia: il rombo dei camion, lo sferragliare dei tram, il taccheggiare della gente che cammina, il caos del traffico, il lamento delle sirene ovattato dalla nebbia, i fischietti dei poliziotti, i claxon delle automobili, l’ubriaco rimasto là dov’era dalla notte precedente, e che si è appena scolato l’ultimo goccio, ed il maledetto fischio delle dodici che mi sveglia sempre! Tutti questi suoni sono in grado di creare molta musica. Ho provato a riprodurne qualcuno con gli strumenti, e se pensate alle immagini che vi ho appena descritto mentre ascoltate questo pezzo, come il traghetto immerso nella nebbia, che guidato da una sirena, stride al contatto col molo per ormeggiare (rumore riprodotto col contrabbasso), potreste dire che ci sono riuscito.

PROFILE OF JACKIE. Questo pezzo si spiega brevemente così: è una ballata tratta da una serie di ritratti musicali che ho fatto per diverse persone.

LOVE CHANT. Questa è una versione ampliata di un pezzo composto da variazioni di accordi più o meno standard. Proprio per la sua struttura, essa sfida il musicista all’esecuzione di note lunghe, nel primo ritornello, per svilupparle poi in due o tre accordi (o ritmiche o scale), e quindi risviluppare la linea sulla strofa. Tutto ciò usando uno o due accordi per volta, di modo che le linee debbano essere sviluppate per un più lungo tempo, che di solito si prende prima del cambio di accordi. Ottavi e quarti di note, diventano mezze ed intere note legate a tutte le altre. Il successo di questo tipo di struttura, dipende dall’abilità del musicista nel saper fare ciò durante l’assolo, quando accompagna, o durante l’esecuzione normale del brano. Ad esempio, di fronte ad un accordo di Do minore 9 e ad un Fa 7, J.R., utilizza solo una nota per l’apertura di sei battute, e con due variazioni di mezzo tempo, usa questa stessa nota per tutte le prime sedici battute.

 

Come ho spiegato prima, questa struttura permette una certa libertà, fatta eccezione per le parti che non la richiedono. Parlo di "parti che non la richiedono", perché le versioni ampliate non vengono mai ripetute esattamente; l’esecuzione come la lunghezza delle linee di note su ogni accordo, dipendono da come le suona il musicista. L’esecuzione dipende da lui, e l’accordo, in questo tipo particolare di struttura viene cambiato dall’attacco de piano di Mal quando sente che lo sviluppo del pezzo ne ha bisogno. Le sezioni solistiche si basano su un insieme di accordi fra loro vicini, fatta eccezione per il collegamento che si riporta sulla tonalità di base della tonica in chiave minore, per poi tornare sulla tonalità originale per le ultime otto "battute lunghe".

 

¾ Charles Mingus

 

Torna a Charles Mingus

Torna all'elenco