Porzûs
Una pagina della Resistenza italiana che molti
hanno tentato di riscrivere e sulla quale gli storici hanno
ancora pareri contrastanti. Mancava un "lavoro"
cinematografico: l'hanno realizzato
Renzo Martinelli e Furio Scarpelli
con il film presentato alla Mostra di Venezia 1997.
Che cosa disse Pier Paolo Pasolini trentasei anni fa
sulla tragica morte del fratello Guido



7 febbraio 1945: a Porzûs un centinaio di "gappisti" comunisti alle dipendenze degli sloveni massacra 22 partigiani della brigata "Osoppo". È una pagina tragica della Resistenza. A guidare i gappisti era Mario Toffanin, il comandante "Giacca", ora ottantacinquenne, condannato nel 1952 per la strage. Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, era tra i ventidue partigiani della brigata Osoppo che furono uccisi.

Alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 1997, è stato presentato il film di Renzo Martinelli e Furio Scarpelli che rievoca quegli avvenimenti. Sono qui di seguito riportati alcuni commenti al film e inoltre il brano "Mio fratello" nel quale Pier Paolo Pasolini il 15 luglio 1961 rispondeva a un lettore di "Vie Nuove" proprio sulla morte del fratello Guido.


Tullio Kezich commenta così il film Porzûs (dal "Corriere della Sera"dell'1 settembre 1997)
Quando nell'aprile '45 il IX Corpus dell'esercito jugoslavo liberò Trieste dai nazisti ci fu chi espose alla finestra il tricolore. La risposta fu una scarica di mitra. Nei giorni successivi centinaia di persone sparirono e vennero massacrate senza processo. Alcuni erano fascisti, altri no: unico comune denominatore fu che le vittime erano tutte italiane. E quando non mise mano nei misfatti, il Partito comunista finse di non vedere. Questo fu il genocidio di cui le fucilazioni dei partigiani della Osoppo a Porzûs erano state il sanguinoso "prossimamente".

Un episodio che ha le sue radici in una lunga serie di soprusi e violenze, senza paragoni su altri confini, con cui il fascismo aveva perseguitato sloveni e croati: e va letto come espressione di uno spirito di vendetta intinto di quella barbarie razzista riaffiorata recentemente in Bosnia.

Al semplice annuncio del film Porzûs molti si sono fregati le mani tutti contenti di smascherare la "faccia sporca della Resistenza", che Forattini nella rubrica Mascalzonate di "Panorama" effigia in veste di Morte sdentata con falce e martello.

La verità è che la strage della malga friulana anziché finire sul conto dei contrasti nel movimento di liberazione va iscritta nella storia dell'imperialismo balcanico, anche se i sicari furono italiani che avevano subito il lavaggio del cervello titoista. Presentato a Venezia, il film riaprendo la piaga ha avviato una proficua discussione: tuttavia i suoi meriti si fermano qui.

Credo si possa dire che nella sceneggiatura scritta dal regista Renzo Martinelli con Furio Scarpelli, nonostante le libertà dell'affabulazione, la ricostruzione degli eventi risulta corretta. La scintilla scoppia con il sopravvissuto Gabriele Ferzetti che mezzo secolo dopo va a snidare nel suo rifugio sloveno Gastone Moschin, capoccia degli assassini. C'era da aspettarsi ben altro dal confronto di due attori di tale autorevolezza, ma il regista li spinge sopra le righe e tra cachinni e sbocchi di sangue ne ricava una recitazione un po' da grand Guignol e un po' da favola radiofonica. Per di più i due "doppi" giovani dei contendenti non gli assomigliano affatto e il tentativo di raccontarne l'invecchiamento con un trucco da dottor Jekyll è uno degli spunti costernanti del film.

Nel nutrito contorno l'unico che fa simpatia è Gianni Cavina: ma come credere al buon comunista che all'ultimo momento per non farsi assassino si lascia assassinare? Questo è puro senno di poi; e per farlo accettare ci voleva almeno la regia di un Costa-Gavras. E invece Martinelli, imbevuto di stilemi pubblicitari, si scatena in effettacci, botti, lampi, zumate e stacchi musicali. Quando non si affida fiducioso a citazioni di musica classica.

Insomma se la mostra ha appena finito di celebrare Rossellini, questo è l'anti-Rossellini: ve lo immaginate Paisà commentato da un trio di Schubert?


 
Il resoconto dell'inviata del "Corriere della Sera", Giuseppina Manin(1 settembre 1997)
Porzûs, la parola al film. Dopo attese, polemiche, accuse, minacce, ieri è stata la volta della pellicola di Renzo Martinelli, accolta in modo contrastante: con applausi a una proiezione, con gelo a un'altra. Ma comunque sia andata, i riflettori sono stati tutti per loro, per il regista e per gli interpreti di quella pagina "oscura" della Resistenza di cui, come ha ricordato Martinelli, "non c è traccia nei libri di storia". "Era tempo che se ne parlasse", ha proseguito il quarantottenne regista milanese. "Se gli americani hanno fatto decine di film critici sul Vietnam, perché non accettare Porzûs?"

Ma che fare in casi come questi, dove la verità è pirandelliana, ognuno ha la sua? "Gli unici due sopravvissuti a quei fatti, Mario Toffanin, che guidò l'eccidio, ci ha intentato una causa; Aldo Bricco, il solo scampato, sta a Pinerolo e non vuol parlare. Così ho scelto di attenermi agli atti dei processi". Ben sapendo che, in ogni caso, avrebbe scatenato tempeste. "Proteste e insulti non sono mancati, ma ciò che più mi pesa è la disapprovazione dei miei genitori, entrambi partigiani comunisti. Mio padre mi ha quasi tolto il saluto. Così organizzerò una proiezione speciale a Cesano Maderno, dove i miei vivono, per i partigiani del paese. E mio padre e mia madre avranno la sorpresa di trovare il film dedicato a loro". Infine una stoccata a Laudadio. "Non ha voluto mettere Porzûs in gara, una scelta sbagliata. Vuol dire che quando farò io un festival ricambierò il favore".

Di giudizi non ha voglia Gastone Moschin, che presta il volto duro e fiero a Geko (alias Giacca, alias Toffanin). "A quei tempi avevo sedici anni, ma ricordo amici di poco maggiori costretti a scegliere una parte o l'altra. Non si poteva star neutrali, l'odio degli ultimi tempi fu feroce. La guerra stravolge gli uomini, li rende belve. Quanto a Giacca, lo ritengo un estremista del pensiero. Un fanatico".

Aggiunge Gabriele Ferzetti, nel film Storno (alias Centina, alias Bricco): "Io ho partecipato alle brigate partigiane, ma ignoravo queste atrocità. Nella Resistenza accadde quello che, meno tragicamente, si ripeté negli anni Settanta tra i vari gruppi del 'Movimento', tutti erano di sinistra ma si odiavano".

E intanto, dal buio delle sale spunta a sorpresa un altro Porzûs. "Io quella storia la girai quattordici anni fa e nessuno la volle distribuire", svela Enrico Mengotti, filmaker veneziano. "Ne avevo fatto due versioni: un video che raccoglieva le testimonianze di storici e politici dentro a quella storia (oggi quasi tutti scomparsi) e un film che ne ricapitolava gli eventi. Ma nell'83 i tempi però non erano ancora maturi per osare tanto. Entrambe le opere furono rifiutate. Oggi vedendo questo nuovo Porzûs non ho potuto fare a meno di provare irritazione, anche perché l'ho trovato pieno di inesattezze. La più grave l'aver dipinto la Turchetti come una spia dei nazisti mentre è provato che non fu così. Inoltre è pieno di ingenuità... Insomma, con tutta l'antipatia per l'uomo, non posso dare torto a Toffanin che ne ha chiesto il ritiro. Le sue ragioni sono certo altre, ma che il film falsi molti fatti è indubitabile".

Dalle "lettere a Panorama" (n. 35 del 4 settembre 1997)
sono riportate le seguenti testimonianze
Il regista Martinelli dice di avere ricostruito i fatti del suo film Porzûs sulla base degli atti dei vari processi, soprattutto su quello di Lucca del 1951-52. Quel processo si svolse negli anni Cinquanta in piena guerra fredda, in un clima ferocemente anticomunista. Fin dall'inizio delle indagini è stato fatto ampio uso della carcerazione preventiva, con ricatti quotidiani ad alcuni degli imputati che rimasero in prigione parecchi anni prima di essere processati. E che dire dei testimoni addomesticati, dei documenti accusatori confezionati ad hoc? Con la storia non si scherza. Non si inventano i nomi, non si inventano i personaggi, non si inventano situazioni e motivazioni, non si istiga alla vendetta personale, come capita invece nel film di Martinelli.

Qualche esempio. Storno non fu l'unico superstite. Si salvarono altri due che passarono nelle file dei gap rimanendo al Bosco Romagno per tutto il periodo delle esecuzioni dei loro compagni. Uno dei due, Leo Patussi, nonostante avesse tradito i suoi compagni, nel dopoguerra divenne generale dell'esercito. Nessuno può affermare che l'esercito italiano sia un luogo in cui gappisti o comunisti hanno fatto carriera. Evidentemente Patussi venne premiato per qualche altro servigio reso in quell'occasione. Sulle sue testimonianze e non su quelle di Storno si basò gran parte della ricostruzione processuale. Geko-Giacca non ha mai fatto parte della Divisione Garibaldi Natisone, né ha partecipato al passaggio oltre Isonzo del '44, né è stato ferito in quell'occasione, né nessuno ha mai sostenuto che l'agguato tedesco sull'Isonzo fosse dovuto a una spiata osoviana, né la ragazza uccisa alle malghe fu mai accusata di questo. Tutto il film di Martinelli si basa su quest'invenzione per addossare la responsabilità dei fatti ai comandanti della Garibaldi Natisone.

Eppure anche solo basandosi sulle testimonianze processuali il regista avrebbe potuto trovare delle interessanti e drammaticamente efficaci, ma soprattutto vere, motivazioni alla rabbia di Geko: per esempio gli accordi dei comandanti osoviani con tedeschi, repubblichini e Decima Mas di Junio Valerio Borghese. E avrebbe potuto verificare che Elda Turchetti era stata indicata più volte come spia dalla radio alleata, proprio su segnalazione del centro informazioni della Osoppo e per non rischiare di essere uccisa dai partigiani andava in giro circondata da guardie del corpo tedesche. Infine: nel film si dice che dei responsabili dell'eccidio nessuno fece mai un giorno di prigione. Nella realtà decine di partigiani furono a lungo incarcerati, perché con Porzûs si processò e si represse tutta la Resistenza garibaldina friulana.

Alessandra Kersevan, Udine
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Sono Giovanni Padoan, "Vanni", già commissario politico della Divisione d'assalto Garibaldi-Natisone. Assolto per insufficienza di prove nel processo che si svolse a Lucca dall'ottobre '51 all'aprile '52, condannato a trent'anni al processo d'assise d'appello a Firenze dal primo marzo al 30 aprile '54 e poi amnistiato l'11 luglio '59.

Il regista Martinelli dice di aver girato in lungo e in largo per il Friuli ma non ha trovato il tempo e il modo di venire a Cormons a parlare con me che volente o nolente sono ritenuto il mandante della strage dalla Corte d'assise d'appello di Firenze. Si è consultato Giacca che è stato il puro e semplice esecutore della strage, esecutore ottuso e feroce ma sempre solo tale.

Dieci anni prima della pubblicazione di Porzûs: due volti della Resistenza di Marco Cesselli, io avevo già pubblicato, nel febbraio del '66 Abbiamo lottato insieme presso l'editore Del Bianco di Udine, nel quale respingevo la tesi della responsabilità di Giacca e affermavo invece la responsabilità di Franco (Ostelio Modesti) e di Ultra (Alfio Tambosso, allora dirigenti della federazione del Pci di Udine). Fui messo al bando dal Pci per molto tempo e si arrivò al limite dell'espulsione. Nell'ottobre dell'84 davo alle stampe Un'epopea partigiana alla frontiera tra due mondi, sempre presso l'editore Del Bianco. Dimostrai che la Divisione Garibaldi-Natisone non era mai stata coinvolta nel barbaro eccidio e che il mandante principale era il comando sloveno, probabilmente attraverso la lunga mano dell'Ozna (il servizio segreto di controspionaggio), ribadendo anche la responsabilità di Franco e di Ultra che avevano dato via libera a Giacca.

Ho sempre detto e affermato che fu un grave errore dare a Giacca un simile compito: Giacca aveva già in tasca l'ordine dell'Ozna, era come mandarlo a nozze. Difatti fucilò sul posto Bolla (Francesco De Gregori), Enea (Gastone Valente) e la giovane Elda Turchetti, presunta spia denunciata da Radio Londra. Dunque Giacca fu il macellaio, l'esecutore ottuso e feroce, ma proprio per questo non avrebbe mai potuto essere il mandante.

Vorrei aggiungere che non sono d'accordo con lo storico Giovanni De Luna quando afferma: "Ma la sinistra non ha mai nascosto quei fatti". Purtroppo la sinistra e il Pci in modo particolare si ostinarono a mantenere la tesi insostenibile della responsabilità di Giacca. Il Pci invece di darsi alla ricerca seria della verità sulla strage di Porzûs favorì l'accumularsi delle incomprensioni.

Giovanni Padoan, "Vanni", Cormons.


"L'Espresso" (n. 35 del 4 settembre 1997) contiene un lungo articolointitolato "Ritratto dei due Pasolini da giovani",tratto da un colloquio-intervista di Enzo Golino con Nico Naldini,cugino dei fratelli Pasolini.Qui di seguito, un ampio stralcio di tale documento
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Era il 12 febbraio 1945. Guidalberto Pasolini, detto Guido, fratello minore di Pier Paolo, cadde ucciso "da mano fraterna nemica" nell'eccidio di Porzûs, un episodio fra i più orrendi della lotta partigiana. Accertata ufficialmente la notizia della morte un terribile giorno del maggio di quell'anno, Pier Paolo e Susanna, la madre, "rimasero abbracciati per ore e ore, a lungo, piangendo, in quel letto di sfollati, a Versuta. I figli dei contadini, come usa dalle nostre parti, portavano dei doni funebri, chi uova, chi farina. Fu la loro unica consolazione", ricorda Nico Naldini, cugino dei due ragazzi Pasolini.

Mesi dopo, il 21 agosto 1945, Pier Paolo scrisse all'amico Luciano Serra parole inequivocabili sul dolore che gli aveva schiacciato l'anima e sul senso di colpa che l'opprimeva: "Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio. di una innocenza che non si possono credere. E quanto è stato migliore di tutti noi: io adesso vedo la sua immagine viva, coi suoi capelli, il suo viso, la sua giacca, e mi sento afferrare da un'angoscia così indicibile, così disumana". Un trauma mai estinto.

La figura di Guido, sia per la tragica morte in giovane età, sia perché oscurata dalla prorompente personalità di Pier Paolo, oggi viene ricordata quasi soltanto per la strage di Porzûs, a cui il regista Renzo Martinelli ha dedicato un film, presentato il 31 agosto 1977 alla Mostra del cinema di Venezia [...]

Fra quei patrioti uccisi [nell'eccidio di Porzûs] vi era l'appena diciannovenne Guido Pasolini, iscritto al Partito d'azione, arruolatosi nella brigata Osoppo, nome di battaglia Ermes, nato a Belluno il 4 ottobre 1925 da Carlo Alberto Pasolini, di professione militare, e da Susanna Colussi, insegnante. Abbiamo chiesto a Nico Naldini, figlio di Enrichetta, sorella di Susanna, di raccontare il rapporto che legava i due fratelli e altri particolari della breve vita di Guido (tracce se ne trovano in pagine di Enzo Siciliano e di Dacia Maraini, in lettere di Guido e Pier Paolo e in altre testimonianze). [...]
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Alcuni miei amici e io siamo stati allievi della scuoletta privata di Pasolini nel 1944-1945. Il suo grande ascendente pedagogico, ma anche le sue tecniche didattiche che si erano imposte quasi spontaneamente, formavano già allora un'idea sublime della scuola. Scuola socratica, se mai ce ne fu una nella nostra epoca. Per prima cosa Pier Paolo ci fornì gli strumenti della critica stilistica, [...] la lettura delle "Georgiche" divenne, sotto la sua guida, un evento memorabile. Guido invece non frequentava la scuoletta di Pier Paolo, e non solo per ragioni di età: aveva scelto le severe matematiche, quasi a ristabilire l'equilibrio in una famiglia dove prevalevano le inclinazioni umanistiche di Susanna e di Pier Paolo. Per di più, terminato il liceo scientifico, negli ultimi giorni del maggio 1944 Guido decise di andare in montagna a combattere la guerra di liberazione, abbandonando il rifugio di Versuta. Portava con sé un tascapane pieno di bombe a mano ricoperte da uno strato di panini imbottiti preparati dalla madre, i Canti orfici di Dino Campana, e una rivoltella nascosta in una nicchia scavata nelle pagine di un dizionario.
  Guido aveva la testa grossa di suo padre, Pier Paolo gli zigomi alti di sua madre: un tratto, questo degli zigomi alti, molto amato nelle donne che sono state sue amiche (Elsa Morante, per esempio, o Silvana Mangano), che evidentemente gli ricordavano la madre. Ma anche Guido aveva nel viso richiami materni. Nei due figli si erano scontrate e mescolate le forti eredità della linea genetica di entrambi i genitori.
    E il carattere, gli interessi culturali?
Mentre Pier Paolo a 18 anni leggeva un libro al giorno, pubblicava poesie, dipingeva, suonava il violino, suscitando l'ammirazione di tutta la famiglia, Guido andava a caccia e a pesca. Gli piaceva frequentare le baracche del tiro a segno. Era un ragazzo molto coraggioso, votato all'azione, senza per questo rinunciare a una sua vita intellettuale, non ritagliata però su quella di Pier Paolo. Amava la musica classica, stava per ore accanto alla radio ad ascoltare i concerti dell'Eiar.
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    Naldini, la sua amicizia con Pier Paolo, tra affetto e complicità, si estendeva ben oltre i legami di parentela. Guido ne era geloso? Partecipava alla vostra intesa?
No, anche perché la sua dignità di diciottenne non gli consentiva di aggregarsi a me (e a i ragazzini miei coetanei) nell'assidua frequentazione di Pier Paolo. Credo anzi che osservasse con un certo distacco quel fanatismo letterario che Pier Paolo mi aveva trasmesso. Mentre io recitavo i versi di Giuseppe Ungaretti con un tono sicuramente petulante, andando su e giù per le scale di casa, Guido leggeva dei libri quasi di nascosto. Un austero riserbo gli impediva di misurarsi con Pier Paolo, di accodarsi a noi nella dipendenza dal maestro e dalle sue grandi capacità maieutiche.
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    Lei era amico di Guido?
Non ho avuto il tempo di diventarlo. Credo che lui mi vedesse, nell'ambito familiare, solo come un segmento del tessuto parentale. Mi pare di ricordare che a volte fosse indispettito dal fatto di avere un cuginetto campagnolo un po' sdolcinato.
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    Pier Paolo e Guido, accomunati da una morte violenta: sappiamo, da fonti orali e scritte, che si volevano un gran bene, e che litigavano anche, come accade nelle migliori famiglie. Ma quali erano i rapporti più segreti fra di loro?
Si distinguevano, questi rapporti, per pudore e sobrietà. Guido, a Casarsa, viveva un'esistenza che incrociava raramente quella del fratello. Aveva i suoi amici, la sua bicicletta, i pattini a rotelle, il flobert a pallini e, dopo, anche un vero fucile da caccia. Era sempre in giro per la campagna con il suo amico Renato Lena. In un laboratorio da falegname costruivano velieri in miniatura con tanto di vele e cordami, alianti, e pistole a tamburo, quelle di Tom Mix, un eroe dei fumetti di quegli anni, una delle quali fu regalata anche a me. Nello scambio di gesti e di parole, di pensieri e di sentimenti, Pier Paolo e Guido avevano ereditato le caratteristiche del mondo contadino a cui apparteneva la madre. In quel tipo di civiltà due fratelli potevano passare una vita intera senza mai rivolgersi la parola se non per qualche lavoro campestre. Così i ragazzi Pasolini, frutto antropologico di un mondo dominato dalla figura materna.
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    Quando si accorse che fra Pier Paolo e Guido, sia pure con questi limiti, cominciava a stabilirsi con maggiore consapevolezza il senso dell'essere fratelli?
Dal racconto che mi fece Pier Paolo di un episodio doloroso. Abitavano ancora a Bologna. Alcuni ragazzi, non riesco a identificarli nel ricordo, una sera assente Pier Paolo, cominciarono a sghignazzare su di lui pronunciando più d'una volta una parola in dialetto: busone, che vuol dire omosessuale. Guido, che ascoltava, prese subito le difese del fratello. Ne nacque una rissa dalla quale uscì malconcio, con un taglio sulla fronte. In ospedale gli fu diagnosticata una commozione cerebrale. Pier Paolo andò a trovarlo ogni giorno, riempiendo di riconoscenza il cuore di Guido, e gli fece diversi ritratti. Nei cataloghi delle mostre di Pasolini questi ritratti vengono scioccamente intitolati dai curatori, in modo anonimo, "Ragazzo a letto" e simili.
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    Lei si sentiva escluso, come cugino, dal più stretto vincolo di parentela che c'era tra Pier Paolo e Guido?
Per nulla. Anzi, mi sentivo in una posizione privilegiata. Avevo 14 anni, Pier Paolo leggeva le mie poesie e ne discuteva come se fossi stato un vero poeta. Era il segreto della sua pedagogia: considerare tutto allo stesso livello di importanza e degno di essere discusso. Anche le opinioni più arbitrarie e ostili, come quelle dei giovani fascisti degli anni Settanta.
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    Salvo poi scegliere secondo la propria scala di valori estetici, politici, culturali...
Certo, ma nei rapporti con Guido c'era quel riserbo di cui dicevo. Guido, però, stava già differenziando i suoi interessi culturali, forse per non incrociare troppo quelli del fratello ed evitare confronti. E amava Pier Paolo, lo ammirava con una intensità quasi nascosta, ne sentiva insomma la superiorità. [...]
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    Enzo Siciliano, nella sua Vita di Pasolini, scrive: "Guido amava le ragazze". E cita frasi a effetto indirizzate a una certa Wilma su un cartoncino pieno di cancellature, mai spedito. Guido aveva avuto delle ragazze?
Fino al momento in cui vissuto con noi, non mi pare. Lui e Renato erano troppo presi dalle loro prodezze. [...] Dopo l'8 settembre 1943 il campo di aviazione e le caserme di Casarsa furono occupati dai tedeschi. Nel campo di aviazione erano parcheggiati diversi Junker 52, trimotori da trasporto che eccitarono l'istinto avventuroso dei due ragazzi. Eludendo la sorveglianza delle sentinelle, Guido e Renato penetravano all'interno degli aerei prelevando ogni sorta di armi: un fucile Mauser, mitragliatrici, nastri di cartucce. Un poco alla volta trasportarono il piccolo arsenale fuori dal campo e lo nascosero in una boschina. Sono stato testimone dell'impresa perché li seguivo, tenendomi però al riparo di un fossato. Erano le res gestae di ragazzi coraggiosi fino all'incoscienza tanto che Renato, in una di queste occasioni, perse un occhio e rimase mutilato a una mano [...] un continuo girotondo di rischi. Dopo il campo di aviazione di Casarsa andarono in quello di Rivis. Alcune fotografie mostrano Guido e Renato, a turno, nei pressi di uno Stukas con tanto di svastica. Le armi dovevano servire per la guerra partigiana. Una notte Guido fu prelevato dalla nostra abitazione di Casarsa da una banda di fascisti. Prima di uscire, Guido sussurrò qualcosa a mia madre. Aveva nascosto alcune armi in un buco sotto le assi del pavimento. E così le ore successive le passammo a trasportare le armi fino alla più vicina vasca di letame, dove le facemmo sparire dentro i liquami. Tornato a casa dopo giorni di prigionia e di bastonature, Guido incaricò me e alcuni miei amici di acquistare dei barattoli di vernice. Il giorno dopo i muri di Casarsa fiorirono di scritte: "Viva Mazzini, abbasso Mussolini", oppure "L'ora ò vicina". Nelle vecchie case del paese ci sono ancora le tracce di queste scritte.
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    Guido sapeva che Pier Paolo era omosessuale?
Forse sì, ma non ne ha mai parlato dopo l'incidente di Bologna a cui accennavo. Credo che fosse disposto ad accettare la diversità del fratello, perché non si trattava di qualcosa di estraneo che piombava fra di loro all'improvviso. La vita di Pier Paolo, le sue amicizie, il legame con la madre, tutto predisponeva a questa rivelazione. Che non sarebbe stata una fastidiosa novità ma un dato del comportamento da mescolare con l'esistenza intima e artistica di Pier Paolo.
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Il matrimonio di Carlo Alberto e Susanna non andava bene. Genitori che litigano, ragazzi che soffrono. Un classico. Si sa che Pier Paolo aveva con il padre relazioni piuttosto conflittuali, mentre era legato alla madre in modo quasi morboso... così esclusivo da costituire una zona di luce dove tutte il resto era confinato nell'ombra. Ombre e luci che si contrastavano fatalmente malgrado la volontà di Susanna che nel suo ruolo materno, mai avrebbe mostrato predilezioni o commesso ingiustizie verso l'uno o l'altro dei suoi figli. Ma le intenzioni non bastano. Quel che non era ammesso esplicitamente, cioè il rapporto esclusivo fra Susanna e Pier Paolo, si rivelava però con lampante evidenza agli occhi di Guido, che ne pativa. Ma anche lui obbediva, e senza lamentarsi, a quella fatalità. Da qui la sua scelta per una vita avventurosa, votata al rischio, forse desiderosa di provocarlo.
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    Una caratteristica che appartiene anche ad alcuni comportamenti di Pier Paolo negli ultimi anni... Ma quale considerazione avevano di Guido in famiglia, al confronto con un Pier Paolo dalla personalità cosi spiccata?
Il modo in cui Guido veniva considerato da vivo non ha alcuna relazione con il periodo successivo alla sua morte. Il coraggio, la sfida al pericolo, la ricerca di emozioni forti, non esclusi il patriottismo e l'anelito alla libertà, era ciò che rimaneva per spiegare la drammatica fine alla malga di Porzûs. E non è poco... Pier Paolo diceva che la morte di ciascuno di noi opera un fulmineo montaggio a ritroso della nostra vita. Guido si può definire così: un puro segno del coraggio.
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    Come mai fu Guido, il più giovane, a fare la Resistenza, e non Pier Paolo?
La tacita decisione che uno dei fratelli restasse a casa e l'altro partisse per la guerra partigiana fu come una somma di tutta la loro vita precedente. Spettava a Guido il rosso colore del coraggio: tutto ve lo aveva destinato, anche i conflitti intimi, il rapporto con la madre, con il fratello (che gli era stato maestro di antifascismo), con il padre, il quale, nonostante i difetti, era anche lui un uomo coraggioso. A Pier Paolo toccavano in sorte la tranquillità degli studi, la carriera letteraria e, soprattutto, la protezione dell'adorata madre.
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    In quell'inferno che era la disperata vitalità di Pier Paolo l'azione non veniva contemplata...
Una divisione di compiti così perfetta non lasciava spazio a ripensamenti, rimorsi, pentimenti. Ciascuno dei due fratelli stava facendo la sua parte. Guido, dalla montagna, spediva lettere in cui si firmava Amelia e diceva che si era dato con molto divertimento agli sport invernali. A Pier Paolo chiedeva testi per canzoni che illustrassero il mondo partigiano, e libri di storia moderna e contemporanea, per esempio L'età del Risorgimento italiano di Adolfo Omodeo. Fra le lettere di Guido, una in particolare la dice lunga sul conto del fratello. Eccone un brano: "Il mio pensiero ritorna per una strana fissazione a Pier Paolo; anche nei giorni passati ho pensato a lui intensamente... Che cosa fa? Perché non mi scrive mai? Alle volte mi ossessiona l'idea che lui pensi a me con una certa amara ironia: ne rabbrividisco". Sono parole che valgono più di un commento.

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Da Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965, a cura di Giancarlo Ferretti (Editori Riuniti, Roma 1977) viene proposto il brano "Mio fratello"
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La lettera alla quale Pasolini rispondeva su "Vie Nuove", n. 28, a. XVI -15 luglio 1961 - è la seguente:
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Caro Pasolini, mi rivolgo a lei non già per un dialogo o per esporre le mie idee e sentire poi la sua opinione: le scrivo per chiederle di illuminarmi su un avvenimento, cosa che nessuno può fare meglio di lei. La prego quindi di rispondere a questa lettera un po' fuor del comune, anche se ciò che sto per chiederle potrà arrecarle dispiacere. Nella ricorrenza del 25 aprile, sui muri di Roma sono apparsi dei manifesti fascisti i quali, con l'evidente scopo di gettar fango sulla Resistenza, si chiedevano perché mai non si commemorassero anche quei partigiani (e facevano alcuni nomi di quei partigiani) trucidati per ordine dell'Internazionale comunista. A questo manifesto come a tutti i manifesti ed altre notizie fasciste, avrei dato poca importanza se non fosse stato nominato fra gli altri "trucidati per ordine dell'Internazionale comunista", suo fratello. Ciò mi ha stupito e mi ha indotto a scriverle affinché voglia far conoscere a me e a tutti gli altri, la storia di suo fratello ed onorare cosi la sua memoria che hanno cercato di infangare. Distinti saluti. Giovanni Venenzani, Roma
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Non so cosa sia questa Internazionale comunista: solo la fantasia infantile e provinciale dei fascisti può immaginare siffatte entità, nebulose e nemiche, veri e propri mostri del sonno della ragione.

Non fosse che per questa orrenda genericità, il manifesto di cui lei mi parla non dovrebbe nemmeno essere preso in considerazione. Non rispondo a quel manifesto, dunque, ma a lei che mi chiede notizie del mio povero fratello con animo così amico.

La cosa si racconta in due parole: mia madre, mio fratello ed io eravamo sfollati da Bologna in Friuli, a Casarsa. Mio fratello continuava i suoi studi a Pordenone: faceva il liceo scientifico, aveva diciannove anni. Egli è subito entrato nella Resistenza. Io, poco più grande di lui, l'avevo convinto all'antifascismo più acceso, con la passione dei catecumeni, perché anch'io, ragazzo, ero soltanto da due anni venuto alla conoscenza che il mondo in cui ero cresciuto senza nessuna prospettiva era un mondo ridicolo e assurdo. Degli amici comunisti di Pordenone (io allora non avevo ancora letto Marx, ed ero liberale, con tendenza al Partito d'Azione) hanno portato con sé Guido ad una lotta attiva. Dopo pochi mesi, egli è partito per la montagna, dove si combatteva. Un editto di Graziani, che lo chiamava alle armi, era stata la causa occasionale della sua partenza, la scusa davanti a mia madre. L'ho accompagnato al treno, con la sua valigetta, dov'era nascosta la rivoltella dentro un libro di poesia. Ci siamo abbracciati: era l'ultima volta che lo vedevo.
Sulle montagne, tra il Friuli e la Jugoslavia, Guido combatté a lungo, valorosamente, per alcuni mesi: egli si era arruolato nella divisione Osoppo, che operava nella zona della Venezia Giulia insieme alla divisione Garibaldi. Furono giorni terribili: mia madre sentiva che Guido non sarebbe tornato più. Cento volte egli avrebbe potuto cadere combattendo contro i fascisti e i tedeschi: perché era un ragazzo di una generosità che non ammetteva nessuna debolezza, nessun compromesso. Invece era destinato a morire in un modo più tragico ancora.

Lei sa che la Venezia Giulia è al confine tra l'Italia e la Jugoslavia: così, in quel periodo, la Jugoslavia tendeva ad annettersi l'intero territorio e non soltanto quello che, in realtà, le spettava. È sorta una lotta di nazionalismi, insomma. Mio fratello, pur iscritto al Partito d'Azione, pur intimamente socialista (è certo che oggi sarebbe stato al mio fianco), non poteva accettare che un territorio italiano, com'è il Friuli, potesse esser mira del nazionalismo jugoslavo. Si oppose, e lottò. Negli ultimi mesi, nei monti della Venezia Giulia la situazione era disperata, perché ognuno era tra due fuochi. Come lei sa, la Resistenza jugoslava, ancor più che quella italiana, era comunista: sicché Guido, venne a trovarsi come nemici gli uomini di Tito, tra i quali c'erano anche degli italiani, naturalmente le cui idee politiche egli in quel momento sostanzialmente condivideva, ma di cui non poteva condividere la politica immediata, nazionalistica.

Egli morì in un modo che non mi regge il cuore di raccontare: avrebbe potuto anche salvarsi, quel giorno: è morto per correre in aiuto del suo comandante e dei suoi compagni. Credo che non ci sia nessun comunista che possa disapprovare l'operato del partigiano Guido Pasolini. Io sono orgoglioso di lui, ed è il ricordo di lui, della sua generosità, della sua passione, che mi obbliga a seguire la strada che seguo. Che la sua morte sia avvenuta così, in una situazione complessa e apparentemente difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze: e che quello che conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la loro segreta e inalienabile verità.
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Pier Paolo Pasolini ricordò la tragedia del fratello ucciso nella poesia "Vittoria", (in Poesia in forma di rosa, ora in Bestemmia, Garzanti, Milano 1993)
 
Dove sono le armi? Io non conosco
che quelle della mia ragione:
e nella mia violenza non c'è posto
.
NEANCHE PER UN'OMBRA DI AZIONE
NON INTELLETTUALE. Faccio ridere
ora, se, suggerite dal sogno,
.
in un grigio mattino che videro
morti, e altri morti vedranno, ma per noi
non è che un ennesimo mattino, grido
.
parole di lotta?
[...]
.
Se ne vanno... Aiuto, ci voltano le schiene,
le loro schiene sotto le eroiche giacche
di mendicanti, di disertori... Sono così serene
.
le montagne verso cui ritornano, batte
così leggero il mitra sul loro fianco, al passo
ch'è quello di quando cala il sole, sulle intatte
.
forme della vita - tornata uguale nel basso
e nel profondo! Aiuto, se ne vanno! Tornano ai loro
silenti giorni di Marzabotto o di Via Tasso...
.
Con la testa spaccata, la nostra testa, tesoro
umile della famiglia, grossa testa di secondogenito,
mio fratello riprende il sanguinoso sonno, solo
.
tra le foglie secche, i caldi fieni
di un bosco delle prealpi - nel dolore
e la pace d'una interminabile Domenica...
.
Eppure, questo è un giorno di vittoria!
* * *
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