-LXXV-

 

  Tutto era finito.
Senza quel violoncello, lo sapevo bene, non avrei mai più potuto suonare. Nessuno strumento al mondo somigliava a quel miracolo. Volevo correre nuovamente a Parigi, riprenderlo, a tutti i costi... poi mi davo del pazzo, dell'incosciente, e mi buttavo sul letto preso dalla disperazione.
Scrissi musica per un giorno intero: un lungo brano per violoncello solo; volevo sentire ancora nella mia memoria quel suono, segnarne sul pentagramma i richiami, le tracce.
Quella composizione mi sembrava straordinaria: credevo riuscisse ad evocarlo in tutta la sua grandiosità. Ma io mi muovevo come un fantasma, mangiando e dormendo senza alcun ordine, solo e disperato, in preda all'orrore di me stesso... non volevo più vedere nessuno; morire, forse, addormentandomi in quella casa maledetta, come un pazzo!... senza neppure piangere, eppure col dolore profondissimo di quel distacco, di quella lacerazione ultima, definitiva della mia esistenza... sentivo che a nessuno, nel mondo, poteva più commuoversi né alla mia musica, né a un violoncello antico... tutto era finito, morto, scomparso.
Uscii, forse il secondo giorno, col mio manoscritto di musica in mano, senza meta. Salii su un tram e scesi dall'altra parte della città; camminai un poco, mangiai dei dolci in un bar, avidamente, come fanno i barboni ubriachi tossendo dai loro bronchi malati e ricacciando in gola il cibo come fosse l'ultimo piacere dell'esistenza.
Presi un altro tram; e continuai così, scendendo e risalendo a caso dall'uno all'altro, senza scopo, fino al buio della sera. Poi ebbi paura del buio e delle luci al neon; chiamai un taxi per tornare a casa. Il mattino dopo mi accorsi di aver dimenticato la mia musica da qualche parte; passai forse tutto il terzo giorno chiuso in casa, poi, forse il quarto, cominciai a telefonare dappertutto, come un folle... dovevo assolutamente ritrovare quella composizione: non potevo neppure pensare che qualcuno la scoprisse, la suonasse, la giudicasse, magari la detestasse!...
Mi dissero di andare a recuperarla presso un certo ufficio dell'azienda municipale trasporti pubblici; ci andai: era là. Presi quella carta e la gettai con cura in un bidone di spazzatura; ricordo bene d'aver fatto solo pochi passi, poi d'essere tornato indietro, a recuperarla. La ridussi in piccoli pezzi; ripresi il cammino, ma subito tornai nuovamente indietro, appiccai fuoco al bidone. Quando finalmente me ne tornai a casa, continuavo a vedere quelle fiamme: nulla doveva restare vivo del mio maledetto millennio.
Credo fosse il quinto giorno, quello in cui Silvano venne da me; io avevo staccato il telefono, e lui mi ripeteva, concitato, d'aver composto il mio numero un'infinità di volte, preoccupato solo per la mia salute. Tutto era pronto per il mio ricovero: che altro potevo fare?
Silvano venne con me a Innsbruck, perché il mio Barone aveva assicurato a lui il pagamento delle mie cure. Firmai un numero incredibile di carte, prima di partire e prima di entrare in clinica, senza sapere cosa fossero: mi fidavo di Silvano... che altro potevo fare? Pensateci! Che altro avrei dovuto fare?! Io non volevo più vivere: questa era l'unica cosa che riuscivo a capire senza aver dubbi.
Arrivammo a Innsbruck di sera: ore e ore di viaggio in macchina senza mai dirci una parola. C'era una foschia terribilmente triste, e molto freddo. quando entrai in questo maledetto edificio: pulito, moderno, asettico, anonimo... mi misero in una comoda stanza singola, dipinta di verde chiaro e grigio, con la televisione su un piccolo tavolo in metallo lucido e un'unica finestra che dava sul cortile interno, davanti a un grande ippocastano, come quelli che ricordo di aver sempre ammirato nelle giornate in campagna, durante la mia adolescenza.
Da quel giorno in poi ho contato i cicli delle stagioni guardando quell'albero: diciotto cicli, da che sono qui.
Dopo qualche mese di buchi nelle vene e pastiglie colorate a tutte le ore, già non potevo più muovere le gambe, ed ero bloccato nel letto o su una sedia con le ruote; gli infermieri mi facevano girare lentamente per il cortile, intorno all'albero; io non parlavo mai, né li guardavo mai in volto; ricordo solo l'odore dei loro camici bianchi e puliti quando mi tiravano su dal letto per mettermi sulla sedia.
Dopo circa un anno mi infilarono in una prima macchina: per farmi respirare, mi dicevano. Io non ricordo di aver mai fatto sogni in tutto quel periodo, ma so bene che il resto dei miei anni, fino ad ora, è stato solamente una triste sequenza di incubi angosciosi, ora dopo ora, e non mi è più possibile alcuna chiarezza per distinguere il reale dall'immaginario.
Gli anni sono passati in fretta; io ho perso ormai tutti i capelli e ogni pelo del mio volto. Silvano non è mai più venuto a trovarmi, dopo quei primi giorni in cui mi consolava e mi faceva firmare modulo su modulo; ma è tornato all'inizio di quest'estate: lui non era cambiato affatto, col suo viso ancora giovane e sereno; io, ormai da tempo, sono totalmente irriconoscibile.