Serpenti.



 

-LV-

 

      Quella sera, dopo cena, passeggiammo fino al margine della foresta. Paul e sua moglie Marie mi chiedevano di spiegar loro qualcosa della musica contemporanea, di giustificare col ragionamento l'abbandono così totale, così definitivo della melodia e dell'armonia.
Conoscevo un vasto repertorio di argomentazioni possibili, a diversi livelli di linguaggio, ma nessuno poteva soddisfarci; potevo solo dubitare che la libertà del pensiero e della forma di una qualsiasi comunicazione fosse poi una così gran conquista, stretti com'eravamo nelle condizioni della nostra intelligenza, se una semplice sequenza di accordi composta secondo l'arte e la scienza dell'armonia classica restava l'unica cosa a convincerci dell'esistenza di un Paradiso fuori dalle cose terrene, e di un messaggio universale di pace e serenità.
Col mio silenzio, in quel momento, io riducevo l'ultimo secolo di musica ad essere una lunga discesa agli inferi, una lenta degradazione della verità musicale, senza possibilità di ritorno. Orfeo, ormai, incantava le fiere coi loro stessi suoni animali, con l'uso intelligente delle corrispondenze fra reazioni chimico-fisiche, e non con la bellezza del numero, separato dalle sue diverse manifestazioni sensibili. Io, però, non avevo risposte. La mia -mi era così chiaro in quell'istante!- era solo la constatazione di essere un uomo di un'altra Era, disperatamente aggrappato alla certezza che non dovesse mai finire, né annullarsi, e neppure mutarsi... anche per me ormai una dissonanza ostentata e non risolta era solo più la manifestazione del demonio...
Ricordai allora una poesia di Tagore, che avevo creduto di intendere, in quei miei giorni a Calcutta; era stata composta il giorno di Natale del 1937; la dissi a Paul e Marie, presso il buio della foresta:

Dovunque
I serpenti spirano il loro perfido fiato;
Parlare di dolce pace è una beffa!
Lasciatemi dunque, prima che io me ne vada,
Lasciatemi mandare l'estremo saluto,
A coloro che al mondo si dispongono
Per dar battaglia al Mostro del Male.

Paul mi strinse così forte il braccio, fino a darmi dolore, e mi disse che nessuno aveva il diritto di scegliere di andarsene via dal mondo, neppure augurando buona fortuna a chi resta, neppure dal monte già troppo alto della sua vecchiaia.
«Bisogna saper scendere, Claudio! Sempre, ovunque! Prendere la mano del più debole! Stringerla, sostenerla nel farlo risalire! Guai a chi si ritrae là dove la battaglia è in atto! Nessuna sconfitta è più devastante, catastrofica, irrimediabile di quella battaglia che si è fuggita!»
«Ti sbagli! Bisogna invece prender coscienza dei propri limiti umani! Tagore aveva appena visto l'Europa di quegli anni, l'aveva capita probabilmente benissimo, ma era un vecchio a quattro anni dalla sua morte, e per di più un indiano! Che poteva fare, nel suo tempo e nella sua condizione, se non tentar di comunicare qualcosa ai posteri, sperando che il suo linguaggio rimanesse intelligibile? Che potrei fare io? In che modo dovrei mettermi a comporre musica? Come Bach o come Mozart? E chi mi ascolterebbe? E se per dare armonie non mi rimane che offrire ancora l'armonia degli antichi, chi è che vuole considerarla davvero ancora attuale, o anche solo qualcosa di più che un piacevole giardino esclusivo, in cui passeggiare sereni, lontani dagli orrori, dalla banalità del mondo?»
«...È necessaria la conversione del mondo, Claudio!»
«Questa è una follia ancora più grande! Non ci può esser posto per la parola, in questa conversione, eppure l'unico mezzo per convertire il mondo resta ancora e solamente la parola! Nessuna parola umana è verità, Paul! Questo tu lo sai benissimo! Quello che non vuoi capire è che la parola di Dio non si articola come la nostra: lui non usa un dizionario di termini, un ordine umano! I nomi e le parole che ci persuadono sono solo immagini, idoli!»
«Non puoi sottrarti al richiamo di Dio, Claudio!»
«Sottrarsi alla parola con la musica, ha già pienamente dimostrato il suo fallimento! E non dovrei essere io ad insegnarti che per lottare in battaglia, la battaglia devi poterla vedere, anche solo con gli occhi dell'intelligenza; devi poter sentire coi piedi il suo terreno, percepire fra le mani la tua arma! Fintanto che nulla di tutto ciò mi è possibile, come vuoi che io mi metta a combattere?»
«...Cerca la fede, trovala! Senza la fede l'uomo è cieco!»
«Tu intendi "la vera fede"! E pertanto la si deve poter riconoscere senza dubbi! Questo è un limite che io riconosco, e pertanto freno la mia volontà di agire, e la trattengo nell'atto di conservare, se non altro, la "materia" di un messaggio, di una comunicazione possibile, che spero un giorno sarà realtà... un giorno che io so bene quanto è lontano...»
«Quella comunicazione è già possibile, Claudio; lo è sempre stata, da che è sceso fra noi il Cristo... È la preghiera a realizzarla, come premio ultimo e grandissimo di chi ha aperto il suo cuore alla vera fede!...»
«Disprezzo quel nome...»
«Non farlo... Vai a riposare, ora. Domani ti attende il tuo concerto.»
Dal balconcino della mia torre, quella notte, io piangevo, gli occhi rivolti a quella tomba oscura.
 
 


-LVI-




Livia, la figlia del direttore del Castello, mi aiutò a tradurre in francese il frammento d'un canto di Tagore che avevo faticosamente recuperato dalla mia memoria; volevo che la musica, ovvero l'oggetto di quella poesia, si sovrapponesse alle sue parole, ma ne corrispondesse l'esortazione.

...No, non cercherò più di raggiungerla
Con il richiamo dei sensi,
Cercherò invece di attirarla a me
Con la voce del mio cuore,
Questo mio cuore pesante, dell'ansia di dare.
Dov'è colei che io voglio ricevere?
Chi sa indicarmelo?
Non potrà dunque unirsi il mio dolore al suo,
Come il Gange all'acqua scura del fiume Yamuna?
Cos'è allora questo suono, che sgorga spontaneo,
E quando si perde, nuovamente
Lascia un'eco di speranza?...

Decisi di non parlare, di rinunciare al mio discorso introduttivo, alle spiegazioni, alle parole, persino alla mia voce; e per questo volevo che fosse Livia, ragazza ventenne e bellissima, a leggere quel frammento.
La pregai di vestirsi di bianco, se poteva, con un lungo abito che donasse l'idea dell'antichità classica. Le chiesi quindi di restar nascosta fuori dalla porta principale della chiesa, e di attendere i primi suoni del mio violoncello; solo allora sarebbe entrata, e avrebbe cominciato la lettura alle spalle del pubblico, camminando lentamente, in modo cerimoniale, declamando parola dopo parola, con voce forte, attraversando tutta la chiesa, al passo solenne della Sarabanda di Bach che io avrei eseguito.
La ragazza accettò divertita soprattutto dal gioco di preparare tutto ciò nel più assoluto segreto, per non rovinare la sorpresa. Si presentò a me mezz'ora prima, portando nascosta nella borsa una splendida tunica bianchissima e lunga fino ai piedi, con una scelta di diversi nastri colorati, per chiedermi quale fra quelli avrei preferito. Scelsi quello rosso carminio, perché pareva un taglio sanguinante sotto il suo seno, e lo legai in modo che pendessero due striscie lunghe fino all'inguine. L'aiutai poi a raccogliere i lunghi capelli biondi in una treccia, e quando ormai quasi tutto il pubblico era arrivato, lei uscì dalla porticina della sagrestia, per prepararsi al suo ingresso dal lato principale.
Fuori dall'abside, a metà dello spazio fra le due navate, avevo fatto disporre sei vecchi tavoli da pranzo, coperti di un grande tappeto orientale: erano messi in due gruppi di tre sovrapposti, così da formare una specie di alta piattaforma, simile alla prua di una barca, diretta, o sospinta verso un punto di mezzo fra la gente seduta nelle due ali della chiesa.
Io mi vestii di nero, e conquistai quella postazione così inconsueta dopo aver posto il violoncello ai piedi della sedia che vi avevo fatto mettere sopra, portandolo coricato sui palmi delle mie mani alzate, fin di fronte a quella prua di nave, così come un sacerdote pone l'offerta sacrificale sull'altare.
Alle prime note della Sarabanda, Livia aprì il portone, e un potente raggio di sole inondò la chiesa.
Lei avanzava radiosa, con la sua voce dorata, di bambina e donna insieme, d'innocenza e calore sensuale, declamando il canto di Tagore, mentre sui nomi del Gange e dello Yamuna, l'oscuro fiume sacro a Krishna, il mio violoncello già aveva concluso la Sarabanda, e continuava improvvisando sulle ultime note, inseguendo evocazioni arcaiche, voci di preghiera, inni alla natura e al sole.
Livia prendeva posto vicino a Paul, unico complice di tutto questo, il portale veniva nuovamente chiuso da Marie, e io iniziavo a disporre il terreno musicale della mia "Battaglia del desiderio e della Virtù". Scorrevano, una dopo l'altra, le composizioni di Piatti e Popper, alternandone le diverse lezioni, indagando nell'universo del violoncello e della sua musica. Giunto all'ultimo brano del programma, la divertita "parafrasi" di Popper della terza Giga per violoncello solo di Bach, d'istinto la sostituii con una melodia che mi ossessionava fin dalla sera prima: era una sorta di Recitativo drammatico, su cinque note in tono minore; le ascoltavo dentro di me declamare le parole di un canto Yiddish che mi sembrava di ricordare... diceva più o meno: «Zogh ze, Rebbeniu! Dimmi, Rabbino! Cosa succederà quando il Messia sarà giunto fra noi?», e, qualsiasi cosa avesse risposto nella canzone originale, io immaginavo quel Rabbino, nella luce di una modulazione in tono maggiore, dire la parola di speranza: «Il Messia è già presente, nelle azioni dei Giusti della terra...».
Improvvisai queste parole in francese, cantandole sulle note del mio violoncello, e mentre le cantavo mi accorgevo di non riconoscere affatto la mia voce, come se qualcuno cantasse per me, con il tono di un antico Cantore d'una Sinagoga, chiusa in un ghetto, in qualche luogo della terra, ma aperta al cielo e all'infinito: là, dietro le stelle, oltre la loro lontananza.
 
 


-LVII-




Fu un tiepido successo. Alcuni battevano le mani con aria euforica, ma nessuno si alzava in piedi, né tantomeno qualcuno chiedeva un bis. Sullo scemare degli applausi, Paul prese la parola.
«Signori e Signore, onorevole pubblico; ieri commentavo, con rammarico, il concerto davvero strabiliante dei nostri eccellenti artisti; anche oggi mi pesa quest'incarico che la nostra tradizione m'impone, perché ogni parola è vana, e suona così povera e fuori posto, dopo l'esperienza della musica... ma soprattutto di questa Musica... là, dove ci ha guidati il formidabile virtuosismo del Maestro, forte della sua infallibile Tradizione, con la generosità, con il sacrificio eroico che domina lo strumento e lo rende utensile di Dio, modello di Virtù!
Permettetemi dunque una riflessione: dai tempi in cui i musicisti Piatti e Popper componevano anche per noi questi preziosi doni della loro esperienza d'umanità e poesia, possiamo ben meditare su quanta strada ha fatto l'uomo verso un mondo di ricchezza, benessere, giustizia e libertà.
Ma se molto è stato conquistato, e se ancora è null'altro che una conquista destinata solo ai pochi, è pure cresciuta insieme alla nostra ricchezza e libertà anche la nostra indifferenza, mentre la nostra memoria è andata sempre più indebolendosi.
È così che abbiamo dimenticato troppo presto le sofferenze della guerra, per giungere a credere che essa non possa più devastare le nostre vite e le nostre terre, solo grazie alla forza della ricchezza che ci attornia e ci protegge...
In queste condizioni, la guerra in un paese lontano ci sembra una guerra in un tempo lontano dal nostro, e finiamo col credere che nel nostro non ci sia più necessità e urgenza di ricordare e pregare, affinché l'errore non si ripeta!
Ed è così pure che le nostre giovani generazioni finiscono col non rimpiangere affatto la scomparsa di quell'umiltà profonda che gli uomini avevano appreso a pretendere da se stessi, di fronte agli Eroi e ai Maestri; oggi, liberi e fieri di quel che tutti noi popoli ricchi stiamo diventando, acclamiamo coloro che abbiamo giudicato "superiori" solo a seguito di quanto ciò che essi offrono ci ha persuasi, affascinati e conquistati!
Ognuno crede di essere libero giudice per se stesso, senza aver più tempo per rendersi conto profondamente che ormai la scelta di ogni individuo ricade materialmente su tutto il mondo; in questo disequilibrio mostruoso, in questo disordine rispetto alla volontà divina che ci ha creati tutti con gli stessi diritti di innalzare la nostra anima al Creatore, si finisce col non trovarsi mai in un "silenzio", in un luogo che ci permetta la riflessione e la presa di coscienza nel più profondo dell'anima, su ciò che siamo e su ciò che diventiamo...
Claudio, con umiltà di grande artista, ci ha portato di fronte al messaggio più importante: la forza che è conservata nella Tradizione, e che a nessun individuo è concesso di appropriarsi, perché essa è al di sopra dell'oggetto della sua manifestazione temporanea e chiusa nello spazio dell'opera; essa è nel metodo e nella disciplina, nel sacrificio e nell'eroismo, nell'umiltà e nella FEDE.
Questo ci hai dimostrato con la tua arte musicale, Claudio; e per questa lezione che ci hai dato ognuno ti deve il rispetto e l'applauso che va a colui che ogni Civiltà degna di questo nome chiama, con devozione e affetto: MAESTRO.
Ma per questo affetto, per questa riconoscenza che tutti noi ti dobbiamo oggi, Claudio, ascolta! il Messia è già venuto! Egli è già sceso fra noi, e noi l'abbiamo dimenticato! Noi uomini l'abbiamo crocifisso mille e mille volte, con la nostra superbia! Accogliamo infine la sua Buona Novella! Incamminiamoci dunque sulla sua strada di Verità! Prima che sia troppo tardi, prima che la rinnovata barbarie ci travolga senza più speranza di risollevarci!
Il potere che abbiamo oggi sulla Natura è troppo grande perché venga diretto e comandato solo dalla nostra superbia! Dall'orgoglio della nostra conoscenza incompiuta!
Questa musica che tu ci hai suonato, Claudio, raccontava di paure che il Novecento ha poi vissuto nell'orrore dei suoi massacri tecnologicamente avanzati! Carne umana al macello industriale, insieme allo sfacelo dello spirito e dell'intelligenza! Quando capiremo la lezione? Quando comincerà davvero il nostro pentimento e la nostra conversione? Quanto orrore, quanta sofferenza dovrà ancora patire l'umanità per questa nostra ingordigia di libertà senz'ordine e senza memoria del passato?... Questa perfetta lezione di Musica che ci hai portato, sta a noi renderla cosa che non svanisca nel soffio di vane parole... grazie, grazie infinite per portare e conservare in te questo preziosissimo tesoro! E un augurio a tutti noi, di conservare il più a lungo possibile la memoria di questo tuo suono divino nei nostri cuori...»
E con le lacrime agli occhi, incapace di continuare anche solo con un'ultima parola ancora, mi abbracciò d'improvviso, sull'imbarazzato applauso del pubblico in quella chiesa.
Partii poche ore dopo, per essere a Parigi a un'ora non troppo tarda: il mattino dopo sarebbe ricominciata la preparazione dei concerti per i penitenziari, e sarebbe iniziata già alle otto del mattino. Paul e Marie mi riempirono di abbracci e carezze come amorosi genitori con un figlio in partenza; raccolsi ogni loro augurio, ogni loro carezza, come la cosa più preziosa nel bagaglio che mi sarei portato appresso per quei giorni a seguire, in quel viaggio nel giusto e nell'ingiusto del giudizio umano e divino.
Sulla strada del ritorno, a circa quattro chilometri dal castello, da poco usciti dalla foresta, c'erano sul lato due strane sculture in legno smaltato, alte quanto due piani di un edificio. Chiesi all'autista di fermarsi un attimo per lasciarmele guardare; erano come due lunghi angeli deformi, ritorti su se stessi, ma spinti verso il cielo, in un paradossale slancio, o forse un avvitamento verso l'alto, che sembrava incollarli alla terra col loro peso. Metà totem e metà alberi liquefatti, mostravano il segno della loro fragilità e corruttibilità nelle grandi crepe del legno in cui erano tagliati, e nelle screpolature della spessa laccatura che voleva nascondere o camuffare la loro materia.
L'autista mi disse che erano sculture di Salvatore Gallo, e che l'artista abitava proprio lì davanti, ma era morto da circa due anni; così nessuno si occupava più di restaurare quelle sue sculture. «Personaggio d'artista un po' diabolico, ma in fondo era un brav'uomo...», commentò.
Ahasvero! Stavo tornando da te!
Il diciotto agosto partii con Julie, per far ritorno a Parigi solo dopo dodici lunghi giorni senza riposo.