Il legno sacro.

 

 

-XLI-

 

Il mattino, tardi, ero come caduto in una malattia senza speranza; dentro di me la depressione era un buco senza fine che mi risucchiava. Chiamai Hannah col nome di Giulia. Mi portò del caffé e una colazione dolce. Volle fare una passeggiata; le chiesi di venire con me al Museo Egizio, senza sapere perché.
Entrammo in quelle grandi sale piene di fascino e di segreti, del profumo di oli, balsami e cere; in silenzio.
Io avrei voluto raccontarle di quante ore avevo passato lì dentro, da bambino, fra quei profumi, a copiare geroglifici che non capivo, ma che la mia mano amava inseguire ripetendoli. Al secondo piano mi soffermavo come ipnotizzato, a guardare la materia del papiro, nei lunghissimi rotoli del Libro dei Morti, incorniciati alla parete più lunga.
Hannah mi indicava con le sue dita bianche, diafane, disegni armoniosi, perfettamente conservati.
Poi restavo stupito, a guardare il nitore del corpo delle mummie, privi di liquidi, senza il ribrezzo della lucentezza di materie viscide, senza odori. Ammiravo i sarcofaghi dipinti con pazienza e rigore, gli smalti preziosi, i colori perfetti.
Ed eccomi, di colpo, agghiacciato da quella visione, lì davanti ai miei occhi: vera, tangibile, indubbiamente autentica, dentro alla cassa di vetro, sopra alla mummia fasciata, la tavola di legno tagliata dall'artigiano egizio, con strumenti di bronzo affilatissimi, devozione incondizionata alla sua arte, nel silenzio sacrale delle sue stanze rituali: il legno! Vena per vena, linea dopo linea: il legno gemello della tavola del mio strumento!


Il colore, la densità, il peso: tutto corrispondeva a perfezione! Là, cinquemila anni mi separavano dai boschi da cui era stato tagliato! Di colpo capivo che era tutto vero! Tutto! Sentivo Cervetto ordinare con sommessa severità, ai suoi servi: "Attenzione! Portatelo con delicatezza, con rispetto! Ecco, caricatelo qui, piano! Copritelo, copritelo meglio. Posate il coperchio, pregate! Voi benedite le vostre braccia con questo peso! Pregate, pentitevi! Lasciate il coperchio, ora. Bruciate tutto, qui intorno, cancellate ogni traccia, via! Dimenticate ciò che avete visto e fatto, ne va della salvezza della vostra anima peccatrice. Avete compiuto un sacro compito; finitelo bruciando, nel sacrificio del fuoco; avete redento le vostre anime, oggi. Dio perdonerà i vostri peccati e guarirà la vostra malattia, per quel peso che avete trasportato! Pregate, pentitevi, e tornate alle vostre case!". Vedevo il giovane liutaio modellare quel legno con infinita attenzione, ogni suo movimento delle mani e del corpo in sequenze rituali, cavare, estrarre da quella materia la tavola del violoncello, scavata come quel coperchio di sarcofago, con la stessa rotondità, finezza, precisione; seguendo la natura del legno, tastandone la consistenza per stabilire lo spessore perfetto, con movimenti misurati e precisissimi di sgorbia, raschietto, pelle di palombo, pomice, silicati, oli finissimi, propoli, balsami, alcoli, resine, succhi, estratti di erbe, fiori e insetti rari: a dare immortalità al legno, a renderlo pietra preziosa e immarcescibile, immortale.
Vedevo nella stanza più segreta le ampie vasche antropomorfe, riempite dei liquidi rituali, dove il legno si caricava di metalli preziosi e pesanti. Vedevo la solforazione, per giorni e settimane, gettando manciate di giallo e rosso polverizzati con cura, pregando con voce monotona, cospargendo col gesto del seminatore le acque ribollenti, e i vapori penetrare nel legno, e trasformarlo, lentamente.
Dunque era tutto vero! La mia era eccitazione gioiosa mista a terrore, sincopi frenetiche nel pulsare del sangue e dei pensieri.
Gridai nella sala: «Non può essere un falso, questo!»
«Perché dovrebbe?», mi chiese Hannah, trattenendomi col suo sguardo e il suo tono dolcissimo.
Continuavo a fissare come un folle quel coperchio sospeso in aria da fili sottili e quasi invisibili; lo scrutavo, guatavo da tutte le angolazioni, piegandomi, inginocchiandomi per scoprirne i lati più nascosti. Il colore tendente a quel rossiccio: non potevo ingannarmi, quasi terra di Siena e ocra gialla; era lui, ineluttabilmente! Era precisamente quella strana e affascinante densità di sabbia, cristallo, terra grassa, materie distanti, opposti del senso, amalgamati oltre gli apparenti limiti delle leggi di natura.
L'avevo visto bene, quel legno, quando Enrico l'aveva aperto per fare la catena: da mesi io contemplavo la bellezza della lunga scheggia di abete antico che avevo trovato in quella chiesa barocca del cuneese, ma nulla era comparabile allo splendore di quel che vedevo allora; Enrico era rapito, estatico: posava con lentezza religiosa quella grande coppa larga e quasi piatta, che vibrava fra le sue mani ad ogni fremito dell'aria, sensibile come fosse ancora tesa dalle corde. Restavamo ammutoliti ad ammirare quella curva lieve e continua, che seguendo le linee della bellezza dei suoi contorni, saliva al bordo e portava, spingeva in pneumatiche espansioni l'energia del suo centro.
Enrico cercava di stabilire delle linee immaginarie ma geometricamente concepite, per rintracciare quel centro in cui concepire il punto di contatto più teso della catena; doveva crearne il progetto attraverso l'osservazione, e poi tagliare. Usava la lunga barra flessibile, per raccogliere da quell'interno la curva precisa della bombatura, disponendola nella stessa inclinazione di quella preesistente, che pareva autentica: a un settimo della metà dell'asse orizzontale in alto e a un settimo dello stesso in basso, distanziandola poi di quei due numeri dall'asse verticale. Passava il palmo delle mani su quella superficie senza vernici, e ad ogni contatto lo vedevo quasi svenire dal piacere.
«Non è abete, Claudio, è qualcosa che viene dal Giardino dell'Eden...» Io restavo incantato a guardare la sua commozione, ma non potevo ancora capire...
La costa del legno, in lame lunghissime e perfettamente parallele, qua e là muovendo brevi fremiti ondulati, in perfetta sincronia, era d'un marrone scuro con profondità rosso cupe, come aste di rame rese archi elasticissimi e nervosi dall'arte misteriosa dell'Alchimista. Erano quelle linee parallele nel senso verticale dello strumento, -simmetriche per le due parti del quarto di tronco, congiunte in quella parte che, quand'era albero, si espandeva verso l'esterno-, a ricevere, trasportare, emettere la vibrazione in ogni senso e intreccio di linee circoncentriche: come onde sulla superficie dell'acqua, intorno all'oggetto che la penetra.
Lame di lunghe scimitarre allineate, la punta rivolta all'alto e al basso insieme, legate da una materia che ne frena, eppure esalta il movimento; archi tesi per scoccare la freccia, uno per uno ma tutti nello stesso istante, in un sincronismo ammirevole e perfetto.
Enrico adattava con piccole, attentissime carezze di coltello, la forma della catena a quella superficie di linee e direzioni infinitamente complesse, frenando il suo pensiero nei confini dell'intuito, appena sostenuto dalla sapienza del numero, cosciente che solo l'indicazione del suo spirito, attraverso la vertigine delle connessioni e permutazioni, avrebbe scelto ed eletto la linea giusta. Il numero del peso, il numero della consistenza, il numero della linea, il numero dell'intersecazione, il numero delle ossa della sua mano, dei nervi, dei tendini, della pressione del sangue nel suo cuore; tutto doveva coincidere, in un risultato scritto nel progetto divino, nell'imponderabile: non altrove.
Seguivo con occhi che raccoglievano tutta la mia anima, quel rallentato procedere di infiniti processi, il miracolo avvenire di fronte al mio sguardo, attraverso l'anima compassionevole, umile e devota di quell'uomo abituato a vivere in complicità e quasi amicizia con la morte, seduta sulla valvola del suo cuore.
Enrico sarebbe morto dopo solo tre mesi: quella valvola la chiuse la morte dopo averlo guardato negli occhi, e chiesto il suo consenso. La mattina, la moglie lo vide intento a guardare beato fuori dalla finestra, ancora coricato nel letto; «Non vieni a far colazione, Enrico?», ma non ebbe altra risposta che quello sguardo nell'infinita beatitudine, ultimo dono alla donna che aveva amato: dono di speranza e sicurezza nell'aldilà.
Ecco quel legno... lì di fronte a me, coperchio bombato di sarcofago, vibrante dell'espansione e ritrazione dell'anima del defunto, quando si recava a mangiare dei suoi cibi, quando tornava a coricarsi per il suo riposo; tagliato con la stessa arte d'una tavola di violoncello, allo stesso scopo. Poggiato sulla sua cassa, i bordi perfettamente coincidenti, per contenere corpo, spirito e identità compatte, e non disperse, nella vita eterna.

 

-XLII-

 

«Hannah, guarda: questo... è esattamente il legno del mio violoncello!»
«Cosa vuoi dire? Che questo sarcofago è un falso fabbricato nella metà del Settecento? Potrebbe pure essere: c'era un grande mercato di antichità, poca esperienza e tanti soldi pronti per acquistare oggetti di questo genere...»
«No!... no, non questo! Questo non può essere un falso! È qui nel museo fin dalla prima metà dell'Ottocento, credo, ma la sua autenticità è certamente stata confermata, accertata
«Sì, dovrebbe proprio essere così... almeno speriamo! Voi in Italia, con tutto che siete ricchissimi di arte e storia antica, siete però anche dei faciloni, in quanto ai tesori che possedete!»
«...Sì, può essere... ma non fino a questo punto!»
«Beh, non credere: sapessi, con le ricerche, alla mia Università, sui testi latini conservati in Biblioteche italiane... quanti problemi, quante assurdità: volumi catalogati male, poi perduti, ritrovati incompleti; o catalogazioni sbagliate, o conservazione incosciente dei reperti, tanto da recar danni irreparabili all'oggetto... ne abbiamo viste di tutti i colori!»
«Ma questo... qui, nel museo di antichità egizie più importante del mondo, con quello del Cairo...»
«Sì, questo forse è differente, ma ha più l'aspetto di un museo fantastico di metà Ottocento, che di un'esposizione scientifica dei nostri tempi... è indubbiamente affascinante: fa sognare, correre con la fantasia; altri musei annoiano: non questo. Ma quanto alle certezze che impone e offre la scienza... l'impressione non è positiva.»
«No no: è magnifico che gli abbiano lasciato questo fascino, negli armadi ottocenteschi, nelle esposizioni ammassate, persino nella polvere che copre gli oggetti; ma nessuno qui ha preso alla leggera l'autenticità di quel che è esposto: niente che non sia certo e certificato è stato conservato qui!»
«Ti credo. E dunque quello è il legno del tuo violoncello barocco?»
«...No, non so... però è uguale... andiamo, andiamo pure; scusami, ma sono così... no, non so più cosa sono.»
Tornammo a casa: ero nuovamente vitalizzato, guardavo e riguardavo il mio violoncello, senza avere il coraggio di suonarlo, timoroso di ciò che ora avevo visto. Nuovamente, mi sembrava di ritrovarmi nei giorni della mia ricerca entusiasta, dopo l'arrivo del ponticello da New York: c'era ancora molto da fare, c'era tutto da riconsiderare, da guardare con occhi rinnovati. C'erano gli antichi ebrei che attraversavano il Mar Rosso portando oro, argento, metalli preziosi, grandi quantità di materiali pregiati, legno... l'Arca Santa aveva due aste per trasportarla; di quale legno erano i pali della grande tenda? Non certo legni trovati nel deserto! Dove potevo trovare, io, delle informazioni? E informazioni storicamente attendibili?
Se era certo che il Tempio di Salomone contenesse l'Arca Santa, allora doveva esserci pure tutto ciò che l'aveva accompagnata nel deserto, nube compresa. Era persino logico che tutte quelle cose non fossero più in un punto, ma diasporicamente disperse sulla terra.
Quella sera rimasi con gli occhi sui miei libri, come un folle. Hannah attendeva sorridente, chiamandomi "Rabbi Løve" col suo grazioso accento, e non senza una sottile malizia. Carezzandomi i capelli mentre stavo alla scrivania, indicò la lettera di Ahasvero aperta e lasciata in vista, e mi chiese: «Chi è questo signor Sværhaus?»; risposi «Un amico di Vienna.»
Hannah allora disse che era un nome davvero curioso. Trasalii: aveva capito l'anagramma? Anche se era sfacciatamente scoperto, pertanto bisognava avere in mente un nome davvero non comune, per pensarci.
«Perché strano?», chiesi.
«"Svær", in danese, vuol dire "pesante", "oppressivo", e deriva certamente dallo stesso etimo di servus, o schiavo; "Haus", invece, sai bene che è "casa" in tedesco; in danese sarebbe "hus", oppure "huus", secondo una vecchia maniera di scrivere. Così questo tuo amico viennese ha un nome che a me suona più o meno come significasse "la casa dell'oppressione", in un grottesco misto di lingue germaniche. Nome curioso, non trovi?»
«È la casa in cui io peso la mia anima...», ricordo d'aver risposto, con le immagini di Anubis ancora negli occhi, con la paura nel profondo del cuore.

 

-XLIII-

 

Dormii profondamente, quella notte, e al mattino invitai Hannah a visitare con me la Sacra Sindone nel Duomo. Quello era il suo ultimo giorno a Torino, non poteva trattenersi oltre: le condizioni di suo padre peggioravano rapidamente, e ora anche il cuore di sua madre dava preoccupazioni. Io cominciavo a riversare nella memoria di questo computer fiumi di parole e fatti, per cercar di capire; volevo ricostruire dettaglio per dettaglio il racconto di Ahasvero, studiarne i particolari, le coincidenze, le intersecazioni, controllarne tutti i dati storici, misurarne la plausibilità: non avevo tempo per le carezze e gli sguardi di Hannah...
Andammo al Duomo. Al fondo della navata centrale, sulla destra, in alto, c'era l'Organo grande, dal quale suonava Lanzetti, raggiungendolo, probabilmente, dal passaggio interno che collegava la Cappella al Palazzo Reale. Lì a fianco, l'imponente, lugubre scalone in marmo nerissimo e lucido del Guarini, per salire al Sancta Santorum, dov'era la ricca, sontuosa grande teca del sudario. Pochi anni prima tutto era bruciato, là sopra; ora erano ancora in corso i lavori di restauro, lunghi, delicati, sacri.
C'era un mistero, dietro a quel fuoco: uno dei tanti in quella Torino magica, esoterica e violenta. Sette sataniche, o giovani disperati nella droga e nel bisogno di soldi; disperazione di desolate periferie senza amore, senza dolcezza. Senza speranza: solo sogni di potere, ricchezza, sprezzo per l'altrui. Torino era una mappa della casa del demonio, con le sue varie stanze ben descritte e spiegate. Ma mi mancavano i codici d'ingresso, non ne conoscevo l'uso preciso: solo l'intuizione della loro presenza costante e puntuale, in mille dettagli.
Sull'architrave dell'ingresso alla scala, scolpite in quel marmo nero, c'erano cornucopie e cuori sfatti, simili a forme di cera che si scioglie al calore, come un canto sommesso e doloroso... Anima mea liquefacta est...
Sarei salito per una scalinata ripida, con gradini convessi, gonfiati verso l'esterno, verso di me: l'effetto ottico era quello di scendere negli inferi, non di salire al cielo! Salire scendendo al Sacro Sepolcro, lasciare ogni vanità alle mie spalle!
Avrei mosso i miei passi in un paradosso sensoriale straordinario, affiancato da nicchie nere e vuote, previste per restar vuote. Erano là a rappresentare l'umiliazione, commisurata a quell'ascesi verso il Santissimo Sudario, posando i piedi su stelle a sei, otto o dieci punte in bronzo lucido, incastonate in quel marmo. Sarei giunto sotto la cupola grandiosa, d'ispirazione orientale, in quella luce rarefatta e mistica che proveniva da occhi abilmente nascosti. Avrei osservato le alte colonne corinzie coi capitelli eleganti e finemente scolpiti, sormontati da gigantesche corone di spine, naturalisticamente realizzate in una materia certo metallica, ma simile a pietra.
Lì intorno avrei osservato le cose con gli occhi vuoti delle grandi statue bianche, assorte per l'eternità nelle loro pose retoriche. Dall'immensa vetrata sulla navata centrale avrei guardato attraverso le deformazioni ondulanti degli spessi vetri antichi, come calore invisibile che muove l'aria e fa vibrare la vista delle cose, e avrei visto il popolo adorante in preghiera, riunito, ordinato per caste e diviso per sesso, chiuso dentro alla grande Arca immobile, gli occhi verso l'alto: le altezze di Dio, di chi stava lassù, di quella teca medievale d'argento, contenente un lungo lenzuolo di lino impresso del disegno divino... un falso?
E allora? No, no! Gridano gli scienziati, quelli seri! No, è tutto vero! I pollini di antiche piante della Palestina, l'impronta delle monete romane sugli occhi! Tutta l'esattezza del medico legale e dell'Archeologo insieme è presente racchiusa in quel disegno misterioso!
Ma non potrebbe essere un "povero cristo" massacrato nel Medioevo per farne un lenzuolo sacro? Magari proprio in Palestina, la Palestina delle Crociate? Crocifisso, martoriato secondo le Scritture, solo perché passava di lì per caso, aveva la barba e i capelli lunghi, il viso d'un bell'ovale di nobile aspetto semitico, ma non caprino? Un Beniamita, un discendente di Davide, magari un Rabbino venerato, e rapito dal recinto maledetto in cui l'avevano rinchiuso? Il suo sangue e la sua impronta prodotte con semplice arte chimico-alchemica, sposata a violenza volgare, comune, abituale a quell'era di folli?
No! È insensato pensarlo! È irrazionale! Quello è Gesù! Gesù il Cristo, il Nazireo! È il calco di Dio! È il Nome fatto parola, suono, carne e sangue!
Com'è simile, quel telo, ai fazzoletti di Re Cristiano IV di Danimarca... Hannah ride indicandomeli, nelle fotografie a colori del sudario. Odio quel volto, che ho visto, che mi hanno imposto fin da bambino, che mettevano ovunque, nelle vetrine delle librerie cattoliche. Odio quel suo sguardo insulso, che pretende di dirmi chi è e dov'è la verità! Mi impone la ragione della scienza e della fede mischiate, ibridate, contaminate!
Le fiamme che bruciano di notte un grande Teatro! Sì, le avevo viste anch'io, proprio come me le aveva descritte Ahasvero! Erano uguali, in televisione, a queste della Cappella Reale! C'erano le stesse uniformi arancioni dei pompieri che giravano intorno, prudenti ma coraggiosi; c'era quell'uomo invasato da una fede rivelatagli proprio quella notte, che alzava il pesante martello, e con energia sovrumana, con botte disperate, violentemente paniche, batteva la teca di cristallo infrangibile, fino a distruggerla, per liberare l'arca d'argento! Come un grande rotolo di segni simili a lettere da leggere con sapienze segrete, insondabili messaggi divini, ineffabili misteri dell'aldilà dell'invisibile rivelato alla retina dell'occhio!
È vero o è falso quel che sta là dentro?! Il mondo la grida quella domanda, anche nella sua indifferenza e noncuranza!
Oh, sì, la vita continua indisturbata, con la Sindone o senza Sindone. Ma Lanzetti esegue la sua Sonata, e Nettuno affiora fragoroso dagli abissi! I Tritoni possenti soffiano acqua sulle fiamme e le domano, le spostano, le dirigono altrove. Le Sirene ammirano cantando con le loro voci acutissime, simili a fischi siderali, quella cupola meravigliosa, che sembra un mostro dai mille occhi infocati, a lanciare fiamme d'odio sul mondo! Eccoli: moltiplicazione sbalorditiva dell'unico, ampio occhio del calderone veneziano, col suo arco superiore di disegno antico, nell'affresco infernale-digitale dei cameramen eccitati dall'occasione fortunata e rara.
Hannah commentava la disgrazia dei nostri sistemi di sicurezza e protezione delle opere d'arte; io volavo fra pensieri proibiti, sempre più euforico, più moderno, più vitale, più sicuro, più folle.

 

 

 

 

 


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