-XLIV-

 

La vita doveva per forza continuare. C'erano mille cose da fare a seguito della morte di mia madre, gli altri concerti già programmati, di lì a pochi giorni, lo studio e l'esercizio necessari a me e al violoncello. Hannah prese l'aereo per Copenaghen il mattino dopo; io ero distrutto da una notte agitata, nella quale sognavo di essere nuovamente costretto a partire per il servizio militare, e mi si prospettava un intero anno di interruzione di tutte le mie attività. Salutavo Hannah ad occhi bassi, e così non ho neppure in me il ricordo della benedizione dei suoi occhi.
Settimana dopo settimana, nell'arco di quattro mesi, lettera dopo lettera, con lunghe telefonate, sempre più dure e terribili, riuscii a distruggere il nostro amore, a cancellarla dalla mia esistenza, a salvarla da me. Credimi Hannah, se leggendo queste mie memorie non ti basterà ancora l'avermi visto e scoperto: io non ho avuto gioia che da te, unica benedizione della mia vita, unico amore vissuto, unica speranza. Abbi pietà di me. Donami il tuo perdono, per quelle carezze che ti ho negato, per quel sogno che ho infranto.
Furono mesi frenetici. Suonare era una lacerazione ininterrotta del mio animo, fra troppe emozioni e linguaggi sovrapposti, dissonanti. Concentravo me stesso nello studio, e questo mi convinceva dell'esistenza di un progresso, che prima o poi m'avrebbe aperto le porte che ora non riuscivo neppure a individuare.
Rimandavo al domani la coscienza, agendo nell'oggi con l'apparenza d'un ordine di ricerca; ma ciò che cercavo era superiore alle mie forze: troppo grande per me. Cercare delle prove era la mia ossessione: compravo altre montagne di libri, tanti che sapevo della matematica impossibilità di leggerli nell'arco di una vita ragionevolmente lunga.
Se inizialmente rigettavo testi di carattere esoterico pubblicati negli ultimi cinquant'anni del nostro millennio, dopo poco mi trovai costretto a cercare pure in quelli delle tracce, dei segni, e presto mi resi conto di quale sconfinato e disgustoso labirinto si può creare falsificando con leggerezza i dati storici, o anche solo ammucchiando supposizioni.
Una traccia della storia del Guadagnini, attraverso Liszt e Victor Hugo, a Parigi, mi guidava a un certo Prioré de Sion; contai in un unico negozio di libri non meno di trenta titoli, quasi tutti degli ultimi dieci, quindici anni, tutti di genere mistico-esoterico, intorno ai misteri direttamente connessi a quel nome; ognuno trovava piccoli nuovi dettagli che portavano ad altre decine di libri sulle piramidi di Giza, o sui misteri di Agartha, quasi sempre ai Templari, Jacques de Molay e il Graal-Sangue Reale di Gesù, e la Sindone e i nazisti e i Rosa+Croce e Amfortas e Parsifal e Wagner e il Talmud in edizione tascabile...
Cominciai a ridere di tutto questo: ridere di come si riusciva a riconoscere un preciso paesaggio dei Pirenei in una tela di Poussin, o si scoprivano straordinari significati trasversali e intrecciati del Vangelo di Giovanni e del libro delle Cronache e nuove letture dell'Apocalisse; nella follia, tenevo lontani da me, almeno, i libri che legavano tutte queste cose antiche agli extraterrestri, se non altro perché, come le stelle, non sarei stato capace di contarli.
Eppure si intersecavano leggende affascinanti, e veniva voglia di continuare in eterno, a leggere, illudersi di capire e scoprire segreti, e spendere i propri soldi nell'industria libraria. Già gli antichi avevano affidato alla carta o alla pergamena troppe parole, troppe figure, troppi libri: "Tutta vanità, e pascersi di vento"; Ecclesiaste 1:14. E pure: "Non c'è nulla di nuovo sotto il sole", Ecclesiaste 1:9. Kohèleth, figlio di Davìd, ci aveva avvertiti in maniera esauriente al riguardo delle vanità.
Restava il fatto che la memoria di Auschwitz contava almeno tante pubblicazioni quante se ne potevano contare sulla teoria che le piramidi o il libro di Toth fossero d'origine non terrestre. Ma Auschwitz, in realtà, era terrestre?
C'era uno straniamento talmente forte, nella lettura delle testimonianze, nell'allontanarsi dalla realtà delle foto sbiadite, nella somiglianza sconcertante degli attori cinematografici con le vittime più autentiche...
Tacevo, nei miei concerti, il mio pesante segreto; ma esso era anche, o soprattutto, un dubbio sull'autenticità. Suonavo Bach e i barocchi con strumenti restituiti alle condizioni originali, corde di budello, archetti di modello antico; l'esecuzione si svolgeva nei confini precisi del dettato delle ricerche filologiche in campo musicologico, con una severità scientifica tale e talmente seria, che era difficile avere un quartetto d'archi con meno di cinque diverse epoche barocche sovrapposte caoticamente, rappresentate in dettagli filologicamente diversi sopra ad ogni strumento. Ma ragionandoci su "ragionevolmente": chi avrebbe potuto fare uso di dieci diversi violini, per avvicinarsi plausibilmente all'autenticità dello strumento di un qualsiasi autore barocco, nei confini di una "ragionevole" selezione dai modelli storici?
Da due anni, io non usavo che corde di budello sul Guadagnini, come faceva non Cervetto nel lontano Settecento, ma Popper, o chiunque fosse stato a suonarlo dopo di lui ad Auschwitz; eppure, quando eseguivo musica barocca lo si ascoltava come uno strumento d'epoca, giudicando ciò positivo o negativo a seconda delle abitudini, e quando il repertorio era romantico, altrettanto. Questo la diceva lunga, sull'autenticità; d'altronde, uno dei miei maestri mi aveva insegnato che l'autenticità in musica non può esistere in null'altro che nel persuadere il pubblico di quella il più onestamente possibile proposta come tale.
Solo in musica?...
Ma Auschwitz era un'altra cosa. E tutto cominciava coi significati del Tempio di Gerusalemme, forse anche per accettare le leggi razziali, e la persecuzione, e la Shoah: questo era scritto nella storia, sulla carta stampata e oltre quella.
Il problema di dirigere la mia mente, dirigere i miei atti verso un'etica, si confrontava non solo con l'autenticità del sentimento o della storia narrata, ma anche con la visibilità dell'oggetto della memoria: come presentare al pubblico il suono che "conteneva" - ancor più che evocare, o conservare, o "congelare"- le grida e i gemiti del martirio ebraico? Mi era ben difficile ridere della pur buffa, grottesca ricerca di sponsor per questa nobile missione evocativa-educativa.
Trattenere nel silenzio, nell'intimo segreto, quel messaggio universale, era ciò che innumerevoli sopravvissuti avevano fatto per decenni, coi loro figli, col mondo che continuava a vivere tutt'intorno come se nulla fosse successo. Nessuno di loro, però aveva mai voluto e potuto affermare che quella fosse la vera, l'unica, l'insostituibile maniera di conservare e osservare l'autenticità della memoria; per i sopravvissuti, però, la verità era in loro stessi, dentro all'Arca della loro mente.
Affidare alla carta stampata quei ricordi, impossibili da trasmettere, neppure creando una nuova lingua, aveva già dato i suoi frutti nell'accumulo informe, nella saturazione, nella banalizzazione, nella globalizzazione... mancava solo un umorismo di Auschwitz, e questa non era un'ovvietà: era un messaggio preciso, da meditare.
Auschwitz era solo più questo? Niente di più d'un nome che evoca, una Sinfonia a programma, un'immagine in musica, un oceano di parole scritte e stampate.
E la memoria? Risolveva il suo compito in uno stanco: "non dimenticare Auschwitz", come uno slogan della tivù. Parole che rimandano a nomi, nomi che vivono di parole, parole e nomi che nutrono le vanità; parole, concetti, idee ben protette, se attente alle regole della migliore Retorica, difese da qualsiasi attacco, grazie al "peso specifico" di quel nome.
Ogni disciplina, ogni sapere, ogni linguaggio, ogni religione, ogni idea politica, ogni particolare emotività, ogni diverso carattere personale, ormai si erano appropriati Auschwitz: sapevano benissimo cos'era, dov'era, cosa significava, quanto si soffriva, come si soffriva, cos'è la morte, cos'è la vita, cos'è l'odio, cos'è la sopportazione, cos'è il mistero di Auschwitz! Auschwitz come un modo per dire: "bene, adesso siamo seri! parleremo di cose serie.", come la luce rossa che si accende negli studi di registrazione, e significa: "silenzio, ora si registra! smettetela di ridere, scherzare, chiacchierare, eccetera; diventate seri: ora si lavora! attori comici o tragici che voi siate, o uomini politici.".
Accumuli di dati, nomi, numeri, fatti, commenti e commentari, divisi in saperi separati e litigiosi, che si contendevano anche l'ultimo dei dettagli, per un libro o per un breve, effimero articolo di giornale, o per un'intervista televisiva, o per i quindici minuti di notorietà concessi virtualmente ad ognuno in questo nuovo mondo, come credo dicesse Andy Warhol. Compresi il silenzio, la sordità, la pudicizia nel nascondere le colpe o la vergogna.
Forse qualcuno ricordava ancora le testimonianze filmate da Claude Lanzmann per nove ore di una pellicola che poteva far tremare il mondo: "Shoah"; ma si preferiva comunque portare a memoria gli attori di Hollywood che pronunciavano frasi commoventi e comprensibili; soprattutto: ben studiate dagli sceneggiatori e non troppo lunghe, senza troppi silenzi. Era cosa nota, fatto evidente, discussione da bar, davanti a una buona birra, con l'aria seria e concentrata, come fosse il racconto di qualcosa successo a noi o ai nostri parenti stretti.
Auschwitz ridotto a mezzo d'affascinazione per gente che ama le emozioni forti.
Auschwitz per lo scrittore che non sa più come scrivere un sentimento di orrore in modo che si percepisca veramente, sulla pelle del lettore.
Auschwitz che, in generale, si vende sempre discretamente bene.
Se non è troppo autentico. Tanto anche ormai i testimoni veri, quelli col numero tatuato, sono solo più immagini digitali: numeri dopo numeri dopo numeri...
Che ero io, se non uno come tutti gli altri? Che era un violoncello più d'un pezzo di legno lavorato? Dov'era il media che ci avrebbe resi autentici agli occhi e agli orecchi del mondo? E poi, perché?
Anch'io avrei dovuto scrivere il nome di Auschwitz, e sperare di essere letto.

 

 

 

 

 

 

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