-XII-

 

    Già... ci volle la calma forzata del viaggio in treno per farmi osservare che io avevo un indirizzo ma non un nome, a meno che veramente quel matto non avesse scritto sul suo campanello, o ancor peggio, sull'elenco telefonico, il nome "Ahasvero"!
Alla stazione di Vienna mi attendeva il mio agente; fu immediatamente informato che se il mio albergo non era in prossimità dell'inizio di Neulinggasse, avrebbe dovuto subito disdirlo e cercarmene uno intorno a quella zona. Ci facemmo consigliare dal taxista, e inviai l'agente a fissarmi l'alloggio in un hotel distante solo pochi minuti a piedi dalla casa che mi interessava. Poi il taxista mi scaricò di fronte al numero 4 della mia strada.
Era una palazzina anni '30, polverosa, triste, che formava tutto l'isolato e lasciava passare la Neulinggasse sotto di sé, aprendosi in uno spazio sgraziato, con brutte colonne laterali d'un lugubre colore rosso cupo, fra le quali c'era la porta del mio numero. I campanelli erano molti: alcuni nomi cechi, altri forse ungheresi, un medico viennese, poi campanelli senza nome, e in nessuno era scritto Ahasvero, oppure "pazzo amico vecchio ebreo".
Faceva un freddo penetrante, e scendeva una pioggia finissima, fitta quasi come una nebbia. Sentivo una rabbia severa nei confronti di quell'uomo, perché non riuscivo a decidere se le sue erano delle prove o solo delle stupide sbadataggini. Ora non mi restava altra cosa da fare che passare il più tempo possibile lì intorno, sperando d'incontrarlo per strada, perché, se non aveva preso la decisione di venire al mio concerto, io non avrei potuto fermarmi a Vienna un solo giorno in più: la tournée continuava altrove, e chissà dove sarebbe stato lui l'anno dopo, quando era previsto un altro mio concerto a Vienna.
La mia prova era alle due, nella sala del Musikverein. Restai fermo, seduto vicino a quel maledetto portone, fino all'una e mezza: inutilmente.
Poi passai il pomeriggio e la sera a compiere i miei doveri di solista, anche quello di cenare col direttore d'orchestra e gli organizzatori del concerto. Appena vidi, però, che non sarei sembrato scortese, mi congedai da loro con la scusa di dover riposare, e corsi nuovamente di fronte a quella casa: speravo di vederlo a una finestra, o forse di riuscire a trovarlo in strada.
A mezzanotte misi un biglietto nell'ingresso di quella palazzina. C'era scritto a caratteri cubitali "FÜR HERR AHASVERUS", e dietro c'erano le mie gentili maledizioni e il mio recapito viennese.
Furono quattro giorni lunghissimi, tutti passati in quello stesso modo, finendo le giornate con l'inserimento di un biglietto sempre più fantasioso sotto il portone di quel numero quattro, che ora mi ossessionava. Nelle ore passate ad attenderlo lì davanti cercavo il quattro nelle cose: le quattro ruote delle automobili, i quattro lati delle finestre e delle porte, le quattro corde del violoncello, le quattro lettere ebraiche del nome di Dio. E se diventavano cinque?
Cominciai a tracciarle in terra, col retro della penna che mi aveva regalato tanto tempo prima, come se quel rituale potesse, chissà come, richiamarlo a me.
Poi vidi: quelle cinque linee parallele non erano il disegno delle corde, ma un pentagramma. Ci scrissi le note dell'accordatura d'un violoncello, a cominciare da basso, e poi aggiunsi un'altra quinta all'acuto: Do, Sol, Re, La e Mi. Aggiunsi la chiave di Basso, a stabilire il nome di quei punti sulle righe, e mi accorsi che quel Re che stava al centro non cambiava il suo nome se lo guardavo capovolto, mentre tutte le altre note erano simmetriche ma sostituite: il Sol diventava La e il Do diventava Mi. Meravigliosa visione di un cerchio perfetto, dove tutte le armonie potevano riunirsi intorno al loro sovrano risonante! Ahasvero! -pensavo fra me- mi facevi attendere per questo? Ora avevo anche la risposta che chiedevi; perché mi lasciavi là al freddo?
Ma dovetti tornare ancora il mattino dopo, un giorno di pausa dalle prove.
Ormai conoscevo ogni sassolino di quella zona, e ben poco di tutto il resto di Vienna, seppur abbastanza per sentirla sinistra, infinitamente triste, e a tratti ostile.
Davanti a quella casa un giardino pubblico ben curato tentava in modo insulso di nascondere agli occhi la visione inquietante di due ciclopiche fortezze grigie, che credetti essere immensi bunker antiatomici. Un signore simpatico, a cui avevo chiesto cosa fossero, mi spiegò che erano i vecchi rifugi antiaerei dell'ultima guerra, ed erano ancora lì perché praticamente ineliminabili a causa della loro mole massiccia in cemento armato.
Cominciai a passare il tempo della mia attesa passeggiando sotto quei mostruosi giganti, come affascinato. Ci camminavo intorno, facendo un lungo giro che mi riportava infine al mio portone, poi riprendevo ancora lo stradino che fiancheggiava il primo dei colossi.
Quell'angosciosa massa di cemento aveva un immenso terrazzo sporgente per nascondere il cielo, e saliva ancora, sopra quel suo lontanissimo tetto, con quattro giganteschi cilindri, come grigie zampe d'elefante, appoggiate sulle stelle.
Da quel punto -che forse, pensavo, poteva essere anche la vista dalla casa di Ahasvero- si vedeva la ciminiera di una fabbrica, un camino a tronco di cono, stretto e molto alto, tutto in mattoni, come quelli che ricordavo d'aver guardato con orrore, nelle vecchie foto sbiadite dei campi di sterminio nazisti.
Lì mi fermavo, e osservavo sbalordito la grandezza delle quattro ciclopiche aperture quadrate della facciata sulla Neulinggasse, sollevate a quell'altezza irraggiungibile dalle paure più oscure dell'umanità, dal terrore cieco che viene dal cielo, dalla pioggia di fuoco che devasta la vita e le anime.
Guardavo quella superficie grigia e annerita, con l'edera che saliva a fatica solo per riuscire a coprirne un'inezia, e perdevo ore intere nell'osservare dettagli minimi, nell'esaminare il calco delle venature del legno delle innumerevoli assi di pino usate per quella costruzione, rimaste indistruttibilmente impresse in quel cemento, come impronte di anime violentate, recise, dannate; alberi con la memoria degli anni e delle stagioni nelle loro vene, strappati ai loro monti solenni, alle loro albe umide innamorate dal sole, ai loro tramonti carichi di saggezza.
Giravo ormai lì intorno come un uomo impazzito, un essere senza più anima e cervello, soffrendo il freddo, battendo i piedi e le mani intirizzite, mangiando panini ghiacciati per non perdere tempo prezioso in ristoranti troppo lontani dalla vista di quei luoghi. E avrei dovuto starmene in un rilassante hotel, con la vasca da bagno e l'idromassaggio, a riposare e prepararmi per il concerto.
Ero veramente diventato un folle? Gli organizzatori e il direttore d'orchestra mi guardavano già con sospetto, e parlavano a bassa voce fra loro. Il mio agente non mi aveva ancora detto nulla, ma io vedevo bene la sua agitazione e sentivo il tono della sua voce nel chiedermi in ogni momento se stavo bene o se avevo bisogno di qualcosa. Tutti diventavano troppo gentili con me: si offrivano di accompagnarmi in macchina, di portarmi a un buon ristorante, o di offrirmi un camerino più confortevole per le pause delle prove.
Sapevo perfettamente che quegli atteggiamenti servivano solo ad aggiustare la loro coscienza nel caso di una catastrofe, com'era l'annullamento di un concerto così importante.
Pian piano mi accorgevo, però, che non me ne importava nulla: mi rendevo conto che tutti loro erano insignificanti per me; avrebbero annullato il mio concerto? Pace: non sarei più tornato a suonare a Vienna per qualche anno; lì per lì avrei perso un sacco di soldi, ma non sarei certo andato in rovina per quello.
Il mio agente mi avrebbe abbandonato? Ne avrei trovato un altro: io possedevo il più grande violoncello del mondo; anzi, io possedevo il potere straordinario di quel violoncello: commuovere fino ai singhiozzi chi l'ascoltava, far vibrare tutto il suo corpo, le sue cartilagini, rovesciargli fuori l'anima, corromperla con quell'energia formidabile, struggente, della sua voce più interna, quella di cui solo io rivelavo il segreto!
E così me ne stavo là, ai piedi di quelle montagne di cemento, a contare gli spuntoni di ferro che ne uscivano come peli non rasati, come lance incastonate nella fortezza indistruttibile; e là mi interrogavo ancora, sui misteri dei suoi interni bui, dei cunicoli che dovevano attraversare quella massa, dei giganteschi stomaci che dovevano digerire e conservare uomini e donne e bambini.
C'erano due scritte, dal lato del giardino, dipinte con indelebile vernice bianca e in caratteri cubitali, nello stile di quei tempi dell'orrore:
WEHRMACHT, da un lato, indicato da una freccia orizzontale che dirigeva all'altra parte, e MUTTER U KIND, con una spessa freccia inclinata verso il basso ad indicare una grande apertura murata.
Io da tempo stavo fermo là davanti, incantato dal suono dolce e allettante di quelle due ultime parole: mutter und kind.
«Claudio! È davvero lei? Oh, ma no... è incredibile! Dopo tanto tempo... ma come fa... come mai è qui?»
L'uomo che mi parlava era qualcuno che non avevo mai visto prima, ne sono certo tuttora, anche se quella certezza non può che farmi credere malato di mente. Oggi mi sembra nuovamente d'impazzire, nel tormento del ricordare quel fatto, del sentirlo riemergere dalla memoria.
Io guardavo il volto sconosciuto di un uomo anziano, non molto alto, dai tratti regolari, quasi anonimi; gli occhi azzurri, acquosi; i capelli sottili e bianchi con sfumature giallastre; la pelle densa, chiara, rugosa ma non flaccida; il viso piuttosto rotondo, lo sguardo fermo, profondo, sicuro di sé.
In quel momento, nella mia memoria c'era un luogo vuoto, spaventoso, nel quale qualcosa si stava agitando convulsamente, come un fuoco frenetico, impazzito; non poteva essere che lui, ma io non ero in grado di ritrovarlo fra le immagini della mia memoria, e il suo viso cambiava ad ogni istante davanti ai miei occhi, in un'allucinazione spaventosa, come fosse uno, o nessuno, o tutti i visi del mondo compressi insieme.
Nel ricordare ciò che dico, provo insopportabile vergogna di me stesso e angosciosi dubbi sulla mia lucidità; eppure quella è l'immagine che torna ancora oggi ad agitare il mio sonno, divora la mia serenità, cresce come un cancro maligno presso il mio cuore, s'insinua in tutto il mio essere e tormenta i miei giorni.
«...Non si sente bene? Forse è il freddo. Venga su da me che è ben riscaldato, poi mi dirà tutto di questi lunghi anni senza più vederci...»
Salii nella sua casa come fossi drogato, gradino dopo gradino appoggiandomi al suo braccio, in silenzio, col capogiro, con lo stomaco oppresso da un senso insopportabile di nausea e repulsione.
Mi lasciò sulla poltrona d'un salottino, di fronte a due finestre. Sì, avevo ragione! Da quel punto vedevo proprio il camino e il lato sinistro del colosso!
«Amico mio, temo che lei abbia la febbre... è pallidissimo e bollente!»
«Lei come si chiama?» chiesi in modo violento.
«Come?... Ma non mi ha riconosciuto?»
«Ahasvero!!» gli gridai addosso.
«...Sì, ma... beh, quello è il mio nome d'arte...»
«Nome d'arte? Perché, fa l'attore forse?»
«No no, io sono Hans! Hans; non si ricorda, a Ginevra?»
«Certo che mi ricordo di Ginevra! Non penso ad altro!... Hans, e poi?»
«Hans, il suo amico. Dio mio, lei deve avere la febbre veramente alta... chiamo un medico?»
«Niente medico. Voglio sapere come si chiama: Hans, e poi cosa?»
«Hans ...Haas.»
«Finalmente! Hans Haas! Piacere: io sono l'Ebreo Errante! Sa, io erro già da quattro giorni intorno a questa casa... Cos'è questa?» lo aggredii mostrandogli la penna stilografica d'argento.
«Beh, una penna stilografica... perché?»
«Non la riconosce?»
«No.»
«Non sa di avermi fatto dono di questa penna?»
«...Non ricordo... Ah, forse sì!»
«Dove ci siamo conosciuti io e lei?»
«Ma... a Torino, naturalmente. Non vuole che le prepari del tè caldo?»
«Dopo. Cosa facevo io a Torino?»
«Senta, ora la smetta. Lei mi sembra impazzito!»
«Io o lei? Non mi ha mai risposto nessuno al telefono di Ginevra, che fra l'altro era protetto da segreto, e io non ho mai avuto né l'indirizzo né il nome della persona che mi ha regalato questa penna! Lei dov'è stato tutti questi anni?»
«Solo tre, e non è cosa che la riguardi. Quanto a quel che mi dice dell'indirizzo... beh, mi spiace... ho passato momenti molto complicati; evidentemente troppo complicati...»
«E allora mi dica il perché si presentava alla gente come "Ahasvero".»
«...Perché lo sono.»
«In che senso?»
«In molti.»
«Non mi faccia indovinelli: dica il perché e basta!»
«Non venga qui a darmi ordini! Io la sto sopportando pazientemente solo perché vedo che lei ha la febbre!»
«Può darsi, ma io...»
«No: non "può darsi"; lei ce l'ha, eccome!»
«Allora mi risponda: qual è la domanda che mi ha posto nelle sue due lettere?»
«...Le ho chiesto se aveva mai provato a suonare un violoncello a cinque corde.»
«...E come lo sa?»
«Sta scherzando?»
«...Lei è un attore!»
«Mai calcato la scena di un teatro. Non ho idea di dove l'orso debba posare la sua zampa per quello, ma non riesco ad amare neppure il teatro...»
Questa frase mi provocò un fortissimo capogiro. Risentivo in quell'istante la voce nota, il tono, l'accento preciso di Ahasvero.
Voltai la testa verso la finestra, lontano dal suo sguardo.
«Mi parli ancora di quel suo orso...»
«...ET IN ARCADIA EGO...»
«Cosa dice?!», urlai d'istinto.
«Si calmi! L'ha scritto lei! Guardi qui...» e mostrò il pacchetto di sigarette che doveva essermi caduto dalla tasca, e su cui, in effetti, era scritta a penna quella frase latina, in lettere tutte maiuscole.
«Non l'ho scritta io!»
«...Non ho detto questo. L'ho letta giusto perché era scritta lì... ed è un fatto curioso...»
«...Non ci capisco più niente, Ahasvero; devo... credo di stare davvero male; sì, sento la febbre alta. Mi scuso, io do i numeri. Che ore sono, adesso?»
«Sono le otto di sera.»
«Dio!... È dalle otto di stamani che sto in giro lì sotto... con quel freddo...»
«Mi dispiace, caro amico... se l'avessi saputo...»
«Doveva saperlo! Lei non mi ha mai dato il suo vero nome!»
«È terribile. Ma a cosa serve un nome?»
«Ma... maledizione! Almeno serve a darsi appuntamenti!»
«Sì, anche con Dio...»
«No no, io intendo proprio appuntamenti fra esseri umani, con nome e cognome e coll'orologio al polso!»
«Ci sono volte in cui l'orologio lo si vorrebbe dimenticare, e ci sono età che hanno naturalmente questo desiderio...»
«Quanti anni ha, Ahasvero?»
«Troppi.»
«Non continui a rispondere in questo modo. Mi dica semplicemente la sua età.»
«Per lei, dirò che ho settantaquattro anni.»
Mi venne un brivido. «...Perché settantaquattro?»
«Perché lei me l'ha chiesto!»
Svenni. Mi ritrovai nel suo letto, coperto da una vecchia trapunta rossa. L'orologio sul comodino segnava mezzanotte. Provai ad alzarmi, ma il malessere era terribile, ed ero debolissimo. Mi trascinai alla porta, e da lì vedevo il salottino, vuoto ma illuminato. Temevo di cadere, camminai appoggiato al muro e raggiunsi la porta da cui potevo osservarlo, addormentato sulla poltrona che adesso era di fronte a me. Lo guardavo, e mi davo del pazzo: certo che era lui! Lui mi aveva dato il violoncello. Ora lo riconoscevo!

 

 

 

 

 

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