-XIV-

 

   Andai a piedi. Passai attraverso lo Stadtpark, dove mi fermai davanti al monumento a Johann Strauss, per cercare di calmarmi un po'.
Guardavo e consideravo quel mediocre tentativo dello scultore di rappresentare la vertigine del valzer in un pesante arco di marmo bianchissimo, con figure di ragazze svolazzanti, schiacciate dal peso della pietra; peso che era rimasto tutto lì, nei segni delle giunture dei blocchi, nell'esecuzione troppo precisa di un'idea banale.
Il violinista, tutto sfavillante dell'oro lucidissimo di cui era ricoperto, era scolpito nello slancio del levare, con la torsione del torace degna d'esser raffigurata nel miglior metodo per violino: elegante ma controllata, concentrata, eppure nel più perfetto rilassamento.
Quella figura dava un senso di sicurezza e prudenza, come la rassicurante solidità dell'arco di marmo che la contornava come un'aura. Fiducia nella tecnica, nella correttezza del progetto, nella sua efficacia nel comunicare concetti semplici e precisi. Mi chiedevo cosa ne avrebbe pensato uno scultore africano di totem, abituato a chiedere ai nodi del legno il loro parere sulle proporzioni e sull'estetica.
Poco più avanti, una fontanella di acqua potabile era decorata col monumento a un prete cattolico, dal volto laido, pingue, in un bronzo quasi nero. Ai piedi del basamento lo scultore aveva realizzato dei bambini nudi intenti a giocare con l'acqua, costruendo così, nell'insieme del laidume degli occhi sfuggenti di quel busto, e della tenerezza, dell'innocenza dei glutei e dei genitali di quei bambini, una specie di orrido monumento al pedofilo, immortalato nella pietra e nel metallo.
Mi chiedevo quanto l'arte di Vienna avesse conservato di questi grotteschi errori, quanto, dopo averli immortalati in materiali nobili nei suoi parchi pubblici, fossero penetrati indissolubilmente nel suo "stile".
Provavo un odio convulso per quel direttore d'orchestra, per quell'impiegato della musica; aveva ridotto anche l'espressione musicale a un mero fatto di stile, il miracolo della visione del sublime a una naturale, ovvia conseguenza della perfezione esecutiva di una partitura sempre uguale a se stessa.
Ma ora era un temibile pericolo per me; dovevo innanzitutto proteggermi.
Mi fermai a una cabina telefonica e chiamai la persona che mi aveva fatto avere l'ingaggio a Vienna: un Barone, un uomo ricchissimo che avevo incontrato un'unica volta, a Parigi, durante un mio concerto privato.
Riuscii a parlargli solo dopo una lunga serie di attese al telefono e il filtraggio di due o tre segretari o maggiordomi. Finalmente potei sfogare con lui tutta la mia rabbia per quel che mi era successo, e spiegare che non ero un maniaco sessuale che passava il suo tempo a cercar sesso nei giardinetti di Vienna.
Gli dissi che naturalmente ero assai mortificato per quella mia superficialità un po' eccessiva alle prove, ma che comunque la mia qualità non era mai stata l'esattezza delle prestazioni tecniche, quanto la capacità di persuadere il pubblico, di trascinarlo nell'emozione pura, nella visione di un'esperienza musicale sempre inattesa, irripetibile. Cosa avrei dovuto dunque provare in più dei tempi, degli attacchi, delle sospensioni e delle riprese? La mia volontà sulle frasi e sui tempi l'avevo dettata accuratamente a quel direttore durante gli incontri al pianoforte: tanto doveva bastargli. Ma lui voleva rendere anche me un oggetto manipolabile come la sua orchestra, e questo non solo mi era impossibile accettarlo e realizzarlo, ma avrebbe pure reso insignificante la mia presenza al posto di qualunque altro violoncellista.
Il Barone disse che capiva perfettamente e mi dava ovviamente ragione. Io non mi dovevo preoccupare di nulla: lui avrebbe immediatamente fatto visita a "chi di dovere", e tutto si sarebbe risolto alle mie condizioni e a nessun'altra.
Concluse scusandosi per la poca flessibilità mentale dei professionisti viennesi, augurandomi buon riposo e rassicurandomi ancora sul fatto che il giorno dopo avrei trovato quel direttore rimesso al suo giusto posto, ossia al rispetto e alla sottomissione dei miei desideri artistici.
Tranquillizzato, ripresi il cammino verso la casa di Ahasvero, su per la Reisnerstrasse, poi a fianco delle coloratissime cupole a cipolla della chiesa russo ortodossa, proseguendo la Neulinggasse fino a quegli inquietanti colossi di cemento armato.
Era già buio, e cercai di riconoscere l'appartamento dalla strada.
Vidi la sua figura, nel quadro della finestra illuminata del salotto: teneva in mano un libro e s'inchinava a piccoli scatti veloci di tutta la schiena, così come pregano gli ebrei osservanti, poiché tremarono di fronte alla montagna fumante, al suono strepitoso dello Shofàr, al tuono e ai lampi della voce di Dio.
Rimasi là a guardarlo pregare, in un senso profondo, meraviglioso, di pace, di benessere. Non avevo pensato che era il venerdì sera, l'inizio di Shabbat, ma non sapevo neppure che Ahasvero l'osservasse.
Mi sedetti su un muretto, il colosso alle mie spalle, la sua finestra dritto di fronte. Mi sembrava di pregare con lui, come se ogni suo inchino mi liberasse dal male; riconobbi gli inchini delle tre ripetizioni della parola Kadosh, "Santo, Santo, Santo", e la ripetei anch'io, pronunciando ad alta voce l'Amén alla fine, come avevo fatto quelle volte che ero andato al Tempio con amici, a Torino, e capivo l'ebraico meglio di loro, pur non avendo alcuna religione in me, nella mia vita, ma solo vaghe curiosità.
Avrei dovuto essere un cattolico, per mio padre e per mia madre, ma il rifiuto che provavo per quella religione era viscerale, assoluto.
Forse era anche lì una ragione per quel mio malessere in Vienna: sentirmi circondato da un cattolicesimo che percepivo addirittura sinistro, ipocrita, malvagio.
Mi rendevo conto che in quella stanza là in alto, dietro quella finestra, in quel momento era in atto un'interruzione del tempo, o meglio: una dilatazione, che proiettava l'uomo in uno spazio futuro, senza una fine o un inizio, là dove il Messia era già presente; ed era il dono, la pace rigenerante il bene, la luce sulle tenebre, l'innocenza primitiva.
Ripetevo fra me il canto del venerdì sera, che celebrava il sabato come la sposa: "Lechà dodì, likràt challà, pené shabbàt nekabbelàh... vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo la festa; osserva e ricorda, le due cose insieme: così Dio si è fatto ascoltare; il Signore è uno, il suo nome è uno, ed è la sua gloria, la fama, la lode. Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo la festa; incontro alla festa, su, andiamo, poich'è la fonte di benedizioni; fin dall'origine essa fu l'eletta: venne alla fine dell'atto, ma la pensò al principio!..."
Cantavo immerso in una gioia luminosa, solenne e serena; pensavo al fatto meraviglioso che quel tempo sabbatico si stesse dilatando nello stesso modo, nello stesso istante, in tutte le Sinagoghe del mondo, in tutte le case dov'era un ebreo, di fronte alla tavola con le candele accese, col vino, col pane fatto a treccia, dove ogni cosa era benedetta con parole antiche, col suono segreto, inudibile, delle lettere dell'alfabeto sacro.
Fu come una folgorazione l'accorgermi che Ahasvero pregava rivolto ad ovest, al contrario del precetto, come in un mondo rovesciato!

 

 

 

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