Parlando all'amico violoncellista...

 

.......Desidero dirti subito qualcosa in risposta a ciò che mi hai scritto nella tua ultima lettera:
se nel corso dei miei tanti anni di lavoro musicale ho creduto di reggere senza troppo soffrire il giogo dei compromessi, con questo mio "progetto Bach" ero veramente e duramente caduto in un pozzo senza fondo...
Me ne rendo conto inaspettatamente solo adesso, dopo aver letto ciò che mi hai scritto, ed è questo che mi stupisce e mi fa scrivere queste righe..............


....era come se qualcosa, in fondo in fondo a quella vicenda, volesse comunicarmi un messaggio infinitamente subconscio, inafferrabile senza scivolare nella parte più buia del mio abisso...Insomma, c'è troppo di me dentro a quell'incisione:
essa è "un'incisione delle mie carni" ...
e temo che ciò che ne scaturisce sia troppo simile al mio sangue, ovvero "troppo MIA e di nessun altro".

O almeno, questo è quanto io ho più o meno inconsciamente creduto fin'ora, e tu, amico D**** –più o meno in-coscientemente!...– mi stai liberando dalla trappola che mi ero costruito da solo.

Ascolta ad esempio il passaggio fra la Corrente e la Sarabanda della terza Suite; già te ne sei accorto, credo di capire: la Sarabanda irrompe nell'eco della Corrente in modo brutale, quasi violento, forse disperato... Bene, se all'inizio di quell'impresa quel che volevo realizzare era un'incisione interamente rielaborata in fase di editing, ho finito in effetti per cambiare radicalmente progetto per poter basare il mio lavoro di montaggio esclusivamente sul principio di ripetere esattamente il procedere unico e irripetibile dell'azione (Drama!...). Ecco appunto che la Sarabanda della terza Suite giungeva sempre in tutte le mie incisioni come "un colpo di spada" a cancellare l'accordo finale della Corrente. E se questa sensazione di violenza mi era ovviamente chiara, e se persino mi sbalordiva poiché inattesa anche da me stesso, mi era pure evidente come di fatto, ogni volta che l'avevo eseguita in quei giorni, la Sarabande della terza Suite l'avevo resa con gesto "tragico" e sofferto, sebbene in qualche modo "eroico". Dunque questo carattere dovevo rispettare, anche se non ricordavo di averla mai eseguita prima esattamente in quel modo...
Ancora una volta: perché?

Amico, ascoltami: io suono su un violoncello che conserva in sé memoria della tragedia. E ciò vale per ogni violoncello io abbia fra le mani.

Ti vorrei pregare di leggere ancora le mie note a quel concerto dell'integrale delle Suites, che io avevo intitolato "A Sculptural Performance", così come le trovi nel mio sito web. Ciò che ho scritto in quell'occasione dovrebbe (vorrebbe...) giustificare la libertà interpretativa che io mi sono imposto nelle scelte generali della mia proposta pubblica (e quindi non "privata"!) delle Suites di Bach, e peraltro potrebbe essere accolta anche da altri interpreti/esecutori di qualsiasi oggetto musicale divenuto nel tempo e nella storia un "monumento classico", ovvero un "punto di riferimento culturale", una "matrice" necessaria alla vita o alla sopravvivenza di una cultura.


Quel "senso della tragedia" –nel senso alto, "eroico" dell'accezione classica del termine– nella mia visione interpretativa delle Suites di Bach eseguite nel terzo Millennio, nella disillusione intellettuale e spirituale, nell'epoca storica in cui la verità non può più essere in alcun modo assoluta, univoca e certa (pensa all'11 settembre 2001 e alla guerra in Iraq, pensa all'illusione di realtà che ogni giorno passa per i telegiornali e i canali regolari o irregolari dell'informazione, pensa ai presunti "valori morali" delle democrazie occidentali e al rifiuto di quelle da parte dei governi e dei popoli mediorientali!), si esprime in particolar modo nelle Sarabande, luogo forse da sempre privilegiato dell'introspezione, della calma osservazione di ciò che sta nel profondo delle cose.

Dunque, nel mio suonare, quelle Sarabande non sono più "danze", o almeno non lo sono più per il "corpo" che si è mosso danzando insieme alla sua anima durante il resto dell'immagine globale della Suite. Nelle mie Sarabande il "corpo danzante" si arresta in un punto, lì rimane fermo per il tempo dei suoi due ritornelli.

In quel punto –il punto centrale, assoluto, il cuore pulsante del corpo dell'intera composizione– il tempo è quello dell'attesa, così come lo osservavano i primi filosofi romantici, come lo descriveva Friedrich von Schlegel:

"Il momento centrale, il momento dell'attesa, la crisi;
ecco il momento che conta, pieno di passato, carico di avvenire..."

(Aforismi, 1792)


E non è forse quella frase di Schlegel qualcosa che ben si adatta a commentare ogni "monumento dell'Arte" della nostra cultura? Opere come il David di Michelangelo, la Gioconda di Leonardo, la Divina Commedia di Dante o la nona Sinfonia di Beethoven o l'opera di Johann Sebastian Bach, non trovano in quella frase il loro significato più "storicamente" evidente? Non sono forse queste opere nate caricandosi della lezione dei maestri del passato e della crisi di fronte a quella, per poi diventare "matrici" di tutte le opere che sarebbero state ideate e realizzate in seguito, qualsiasi direzione i nuovi maestri avrebbero scelto e intrapreso?

La mia poetica nelle Sarabande di Bach mostra luoghi della crisi e della sofferenza, ma solo nel senso e nel rigore del Dramma Tragico. Non vi esprimo i miei dolori o le mie inquietudini personali: io mi tengo al di fuori di simili intime, personalissime visioni tanto quanto certamente faceva il loro legittimo autore.

In quei "luoghi", l'attore tragico si veste del costume di scena e si trasforma: "egli è" per noi e grazie al nostro ascolto ciò che delle informazioni della storia è stato "transustanziato" in mito.


Laciami però citare nuovamente Schlegel:
"La nostra poesia, dico, manca d'un centro quale era la mitologia per quella degli antichi, e tutto l'essenziale per cui la poesia moderna resta addietro all'antica può essere espresso col dire che noi non abbiamo una mitologia. Ma, aggiungo, siamo prossimi ad averne una o, piuttosto, s'avvicina il momento nel quale dobbiamo seriamente collaborare a crearne una. Poiché essa verrà a noi per una via del tutto opposta a quella dell'antica, che fu soprattutto la prima fioritura della giovanile fantasia, riattaccandosi e informandosi immediatamente a ciò che di più vicino e più vivo era nel mondo sensibile. La nuova mitologia deve, all'opposto, venir tratta dalla più remota profondità dello spirito, deve essere la più artistica di tutte le opere d'arte perché deve comprendere tutte le altre, un nuovo letto e un nuovo vaso per l'antica eterna primigenia sorgente della poesia, la poesia infinita stessa che cela i germi di tutte le altre poesie"

(Frammenti critici e scritti d'estetica, Firenze, Sansoni, 1967, p.192).


Per cercar di capire il senso di quest'ultima citazione:
la poesia degli antichi si comunicava attraversando tutte le diverse intelligenze, proprio come una Madonna con Bambino dipinta da Leonardo poteva essere contemporaneamente la visione speculare di una madre amorosa per la contadina in contemplazione, o "l'uovo cosmico" per la contemplazione di un alchimista. In una cultura musicale qual è quella indostana ancora oggi, nell'atto dell'ascolto del pubblico coesiste la percezione dell'eterno immutabile (Dhrupad) con quella del piacere effimero, immediato del discorso musicale (Khayal), e in tal modo l'evento concertistico è al tempo stesso evento mondano/sociale, sacro/spirituale, intellettuale ed emotivo; non c'è bisogno in India –per ora, e temo per poco tempo ancora, finché il cinema, la televisione e quant'altro non imporranno le loro leggi!– di offrire tante diverse forme di musica alle diverse tipologie sociali dei fruitori: la stessa musica serve ai colti così come ai semplici.

Al contrario, nel mondo globalizzato e tecnologicizzato, la "poesia" di oggi si comunica solo fra strati socio-culturali simili o strategicamente resi compatibili. Però in tal modo la poesia racconta solo qualcosa di confinato a se stessa, mentre la poetica –che è la sola a poter dare poesia senza limite alcuno!– poco a poco muore, e con essa le possibilità di sopravvivenza dell'umanità, ridotta a consumare sempre più stupidamente le risorse vitali del pianeta.


Dunque Schlegel ci avvertiva: dobbiamo seriamente collaborare a creare una nuova mitologia, ma questa non potrà più permettersi di scaturire da "giovanile fantasia", ovvero da "quel che ci piace perché ci è piaciuto quando l'abbiamo visto"... La nuova mitologia di cui ci indica la principale qualità, ossia l'essere "l'antica eterna primigenia sorgente della poesia, la poesia infinita stessa che cela i germi di tutte le altre poesie", somiglia in modo impressionante a ciò che si cela dentro ai sogni e al loro significare, così come li intendeva un uomo dei tempi di Schlegel qual era lo scrittore Georg Christoph Lichtenberg (1742-1799), quando osservava:  "Viviamo e sentiamo tanto nel sogno quanto nella veglia e siamo l'uno come l'altro. Sognare e saper di sognare è uno dei privilegi dell'uomo. Fino ad ora non se n'è tratto tutto il possibile vantaggio", e pure così come lo cercano e trovano gli psicanalisti, sebbene utilizzato con diversa intelligenza: quella dell'artista del XX secolo, non più guidato dai valori estetici tramandati attraverso i secoli di un'arte asservita a delle verità politiche che hanno cessato di essere attuali o condivisibili, ma ostinato ricercatore di nuove frontiere dell'etica.

Nei tempi che stiamo vivendo, noi che "conserviamo" l'estetica del passato al servizio di una incomprensibile modernità, diventiamo allora simili a ciò che Friedrich Hölderlin ci descrive nella settima strofa della sua elegia "Brot und Wein", "Pane e vino" :

"Aber Freund! wir kommen zu spät. Zwar leben die Götter,.......
Troppo tardi noi giungiamo, amico. Vivono certo gli dèi,
ma là, sul nostro corpo, in un altro mondo.......
.....intanto spesso mi chiedo se non è meglio dormire che stare così senza compagni a languire in attesa; e che fare intanto e che dire non so:
e perché poeti nei tempi di privazione?
Ma tu dici che sono come i preti sacri di Diòniso
Che di paese in paese andavano nella sacra notte."

..........Weiß ich nicht und wozu Dichter in dürftiger Zeit?
Aber sie sind, sagst du, wie des Weingotts heilige Priester,
Welche von Lande zu Land zogen in heiliger Nacht
. "


Se ci fermiamo qui, lasciando a parte i pensatori che ci hanno avvertiti su ciò che avremmo trovato nella modernità, e torniamo alla nostra quotidianità fatta di più umili doveri, spensierate leggerezze e insistente bisogno di attorniarci con cose che ci piacciano (siano pur queste ritenute universalmente belle o meno...), posso tornare con la memoria a una delle tue prime email indirizzate a me, nella quale mi dicevi come, se richiesto d'insegnare qualcosa di utile e produttivo al riguardo di un brano musicale di tradizione (mi sembra che tu portassi ad esempio il Concerto per violoncello di Schumann), tu avresti tenuto lontano da te ogni impulso a "spiegare e analizzare" il testo, per entrarci senza preamboli col violoncello in mano, in cerca di efficacia e bellezza... Non mi oppongo a nulla di tutto ciò, né lo giudico sbagliato: nello stato di saturazione e confusione in cui viviamo, forse non c'è miglior soluzione per raggiungere direttamente ed efficacemente lo scopo di "indagare" altre possibili manifestazioni di una bellezza comunque ineffabile e sfuggente ogni dogmatismo, metodologia, ragion pratica o filosofica, pena il soffocare nel buio di luoghi senza uscita.
E allora perché "analizzare" il "mio Bach", indugiando sui rapporti che intercorrono fra il Bach di Bijlsma e quello di Casals, di Jaap Ter Linden e di Mischa Maisky, e infine —più di ogni altro!– quello che avremmo voluto "ricevere" dal profondo di noi stessi?...

Bach ci ha forse "visitati"? O non siamo forse stati noi, e solo noi, a recarci da lui in visita? E perché l'abbiamo fatto? O meglio: in che modo l'abbiamo fatto?
Siamo entrati nella sua casa per ricevere la sua benedizione, oppure per portarci via –più o meno col far dei ladri...– qualcosa con cui cercar di sopravvivere al vuoto dell'intelligenza in cui siamo nati?

Queste sono le mie domande a me stesso così come al mio eventuale allievo; non altre.
Ascoltavo il disco di Bijlsma negli anni Settanta e mi dicevo "Così l'autore voleva che fosse suonata la sua composizione!"; più tardi mi resi conto che così parlavano da sempre i preti e i teologi cattolici che tanto odiavo: "Così l'Autore di tutte le cose ha voluto che le Sue cose fossero intese!"...
Per questo ho passato la vita a preoccuparmi di leggere la Bibbia ebraica interpretandola secondo l'insegnamento talmudico allo scopo di far barriera contro qualsiasi dogmatismo religioso; poi per conseguenza ho applicato la stessa modalità di lettura alla musica, a tutti i miei pensieri, a tutte le mie frequentazioni delle opere di letteratura, ai quotidiani di cronaca, alle discussioni in famiglia, ai litigi con moglie e figli, ai rapporti con i colleghi.... e qui ho scoperto che quasi nessuno vuole altro che illusioni di verità incontrovertibili.........

Ma ho detto "quasi nessuno".
In quel breve, ristretto spazio nel quale entra il "quasi nessuno" io ho programmato di incidere le sei Suites di Bach e l'ho fatto nei giorni d'inizio primavera di due anni fa...

Forse ora tu puoi capire che rimettermi al progetto di inciderle nuovamente non può essere per me un'impresa soltanto musicale o professionale... e neppure soltanto artistica, perché c'è troppo del mio subconscio in tutto ciò, e il rischio è di incidere ad esclusivo vantaggio dello psicanalista...
Dovrà passare ancora del tempo, e spero di non invecchiare troppo, ché ho cinquant'anni già da settembre scorso!

...Ma tu ascoltami con amore di amico, non perderti nella fantasia di infilare a forza quel che ascolti in un mondo che non gli corrisponde, ovvero quel "mercato della musica" che indubbiamente sta cristallizzandosi nella paura di non omologarsi abbastanza, di non rispondere ai canoni dei vincitori, di non conquistarsi definitivamente i cervelli di chi non ha più avuto la possibilità di scegliere.

Vivi felice,
tuo Claudio Ronco,

Venezia, febbraio 2006

Rings um ruhet die Stadt; still wird die erleuchtete Gasse,
Und, mit Fakeln geschmükt, rauschen die Wagen hinweg.
(...)

Friedrich Hölderlin, "Brot und Wein".

 

 

 

 

 

 

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