Le lettere di Antonella

«Io, nel "dare" musica dal mio violoncello, sono in una posizione di debolezza, di fragilità estrema: ho accettato di annullarmi nel mio strumento per "vestirmene" e "vivere dentro" di lui; la mia condizione è un po' come quella del bruco, che attraversa passaggi di estrema vulnerabilità nel suo cammino verso la metamorfosi in farfalla. Io dico "muoio" quando comincia l'esecuzione musicale, ma non è lì alcuna sofferenza: anzi, potrei quasi credere che questo "morire" sia quasi un premio, come un esercitarsi ad accogliere la propria inevitabile morte biologica; come una "prova generale", più volte ripetuta, di quell'estremo momento finale dell'esistenza nella nostra temporanea forma. Il premio è proprio nel constatare che non c'è dolore, che è un'eutanasia, una "bella morte"; e nulla mi vieta di credere che qui sia svelato il segreto occulto della nascita della musica nel mondo: imparare a morire bene.»

(Claudio Ronco, Lettera a Julie, 1998)

 

Grazie Claudio.
Esiste un tempo in noi e fuori di noi, una vita interiore ed esteriore. Sono piani e tempi diversi e li si può vivere in contemporanea, sebbene l'uno si ritragga per far spazio all'altro. E' anche una questione di spazio. Chi non ha tempo interno non è contenitore di nulla e vive la sua vita cronologicamente in tempi ristretti che lo allontanano da se stesso. Qui si innestano le paranoie, i fanatismi, i fondamentalismi... perché il bisogno di evitarsi diventa ragione dell'esistere. Il tempo interno ha una connotazione di spazio profondo, in cui la vita esterna la si guarda e la si ad-sorbe, facendola aderire a se stessi. Fortemente e delicatamente. Le esperienze precoci, archiviate nella memoria più arcaica, sono l'asse portante della formazione del nucleo emozionale più profondo, attorno al quale si sviluppa la personalità. E condizionano la nostra vita affettiva, emozionale, cognitiva e sessuale. Proprio perché sfuggono a ogni elaborazione mentale, gli eventi traumatici più remoti possono indurre a mettere in atto pulsioni negative, sulla spinta di emozioni oscure, delle quali non si conserva il ricordo. Su questo terreno si sviluppano forme di angoscia legate all'impossibilità di pensare il dolore, il vuoto, la mancanza. Il senso di vuoto e la minaccia di disgregazione dei nuclei profondi causa l'incapacità di elaborare il lutto della separazione, a cominciare dal primo legame, quello con la madre. Ogni distacco crea una morte interna, si preferisce uccidere i propri oggetti d'amore, anziché mantenerli vivi dentro di sé trasformando il dolore in qualcosa che si può tollerare, che non ci distrugge. Come avviene invece quando perdendo chi si ama si perde una parte di sé.
Buon Shabbat. Antonella

 

 

“Baruch Spinosa di Amsterdam

provò il desiderio di giungere fino a Dio.

Molando
le lenti, in solaio, squarciò d'improvviso il velo

e si trovò faccia a faccia con Lui.

Parlò al lungo,

e mentre parlava gli si dilantavano la mente e l'anima.

Poneva domande sulla natura umana,

—Dio si carezzava la barba—

l'interrogò sulla causa prima,

—Dio guardava l'infinito—

l'interrogò sulla causa ultima,

—Dio si tormentava le dita e schiariva la voce.

Quando Spinoza tacque, Dio disse:

—Parli bene, Baruch.

Mi piace il tuo latino geometrico,

e anche la tua sintassi limpida,

la simmetria delle argomentazioni,

parliamo però delle Cose Veramente Grandi;

guarda le tue mani ferite e tremanti;

ti rovini gli occhi nell'oscurità,

ti nutri male,

sei malvestito.

Comprati una casa nuova,

perdona agli specchi veneziani il ripetere la superficie,

perdona ai fiori fra i capelli,

la canzone da ubriaco;

bada alle entrate come il tuo collega Cartesio,

sii scaltro come Erasmo,

dedica un trattato a Luigi XIV,

tanto non lo leggerà.

Placa la furia razionale:

farà cadere i troni e annerire le stelle;

pensa a una donna che ti dia un figlio.

Vedi, Baruch: stiamo parlando di Cose Grandi.

Io voglio essere amato dagli incolti e dai violenti:

sono gli unici che davvero mi bramano.—

Ora il velo si abbassa, Spinoza rimane solo;

non vede la nuvola d'oro, la luce nell'alto dei cieli;

vede l'oscurità,

sente lo scricchiolio delle scale,

i passi che scendono in verso il basso.”


 

Zbigniew Herbert

«Così mi è tornata in mente la poesia di Zbignev Herbert su Baruch Spinoza, l'ebreo convertito a Cristo... e il suo incontro con quel dio ambiguo, che scenderà le scale verso il buio. Era forse il demonio? O proprio quell'oscurità è il "luogo" prediletto del Dio in terra? Un Dio che si aggira in preda a disperazione nel caos da lui generato, fra i "cocci" dei vasi distrutti dalla deflagrazione primordiale... Su questo vortica la mia mente questa mattina, guardando i pentagrammi su cui ho scritto i primi temi che compongono i lati del CHIOSTRO dell'opera musicale cui ti ho invitata.»

(C. R., e-mail ad Antonella, 12 luglio 2002)

 

Ti invio un dipinto che si trova nei musei vaticani. E' uno dei miei preferiti e genera assonanze con l'alchimista.
Antonella.
 

 

 

continua