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Renzo Ferri

Album privato
Elegie e poesie d'occasione

 

(1-38) - [calco]

Berto,
ora che questo tuo corpo scarno
è irrigidito cadavere,
il nostro amore
l'ha posto tra le cose
che si serbano:
anfore, conchiglie,
polverosi volumi.
E l'abbiamo posto
su tappeti persiani
- le mani in un tenero
gesto quasi incerte-
o su lastra
di pietra rossa brecciata.
Basterà perché
non vada decomposto
e noi guardandolo sovente
come porfido antico,
greco, rilucente
o romanico aggetto,
ne ritrarremo
su bianco foglio,
con affetto,
le care membra immobili
e lo scavo del volto
già offeso dal sole
nella grande pianura,
vasta di cieli
e confinaria.
Ci piace
pensarti disteso in una sala,
senza ribrezzo di veli
o paura di donne e di fanciulli,
e di guardarti con amore,
levigato da queste nostre
mani aduse
alla carezza delle forme
perfette.

(8-11-1999)

 

(39-58)

Otto, sulla riva del Po,
sono i pioppi svettanti:
Otto le sorelle piangenti
- luttuose Eliadi
dai lunghi capelli
sopra l'urna sciolti
del fratello senza fortuna.
Ed è una bruma
quella che, fredda,
raggela l'orizzonte
autunnale. E d'un male
sottile tremulano
le ultime foglie,
alla carezza del vento,
per l'estrema stagione
che s'annuncia
e segreta s'avvera
nei ricordi, i più cari,
i più lontani,
della giovinezza.

(17-9-1999)

 

(59-84)

... in quanto tale
- trafitto da albe rigorose,
il male
stemperato nel verde ottanio
dei canali lagunari- dolce
il tuo sguardo volge
ad una luce al di là dei vetri,
se pur guardi, Adriana.
Perché gli occhi fissano
dentro la tua anima
- fuori essendo gelida
anche la primavera,
e nera la malinconia ultima
del giorno.
Se pur guardi,
oltre l'icona liquida
- se d'alghe fatta giardino-
che le tue ali gabbiane
han trasvolato
negli anni,
con tremori di bambino,
e nel cuore il sorriso di una ferita
immedicabile,
che solo nella poesia
ha il suo conforto.

(15-9-1999)

 

(85-107)

Carlo, alfiere e portacolori
di noi tutti, mi sembri,
nella disfida ironica col grande
fiume: immune l'anima
da ogni viltà, mesto
il sorriso. In verità molto
ti ho amato, amico
della perduta giovinezza:
la tua allegrezza temperata
dalla malinconia;
l'ironia dei gesti;
una grande - per altri
sconosciuta bontà.
Il fiume, che il vecchio ponte
periclitante valica,
è ancora qui
e scorre ai miei piedi
come sempre silenzioso. Ma tu
- amico, non sei più
e prezioso è il tuo ricordo,
oggi che la vita richiede
coraggio e la notte affatica.

(19-9-1999)

 

(108-143)

Di matrona o divinità
non pare l'umile frammento,
ma forse è il volto
d'Aufidia Venusta
dal mare dissepolto,
il bel portamento
di venustà raccolta
e pura, ad addolcire
le fredde venature
del calcare. Viatores,
voi che per gli argini neri
e i terrapieni avete passi
instancabili e voi, Velatores,
che del fiume ampio
solcate le acque
notturne - la luna
come presagio
intangibile di felicità -
Viatores et Velatores
fermate i vostri passi
e l'andare docile della candida
nave - dei cavalli
al faticoso alaggio:
La morte mi trascinò
nei sabbiosi fondali,
annodò i miei capelli
all'alga vischiosa, perduta
nell'andirivieni delle maree
ogni parola e i sorridenti
sogni dell'adolescenza
spenti con le notturne stelle ...
Di matrona non è, né di Dea,
l'umile frammento rigettato a riva
dalle correnti, ma d'Aufidia
Venusta che il Po rapinoso
disperse nel mare.

(30-9-1999)

 

(144-168)

Là dove occhieggiano gli aironi
dalle garzaie e lievemente posa
silenzioso il piviere,
là dove all'ombra tra i canneti
riposa il bracconiere
e tace il cielo
nei suoi profondi azzurri,
là - ancora - dove
l'acqua del fiume smarrisce
e muove l'ampio mare
incontro alle nostre
solitudini; là
il silenzio
ha striduli voli di gabbiani
e l'alitare freddo
del vento: là dove l'infinito
puoi toccarlo con le mani,
là per sempre mi vorrei fermare
e bagnarmi all'acqua
delle fonti, e dei rossi frutti
nutrirmi dei roveti
e per le seti ardenti dell'estate,
con te godere del Fortana,
il dolce vino delle sabbie.

(10-10-1999)

 

(169-198)

Il tuo viso, Pier Paolo,
che una scabra bellezza
d'altorilievo
volge di lato,
cosa guarda, e perché
tanta tristezza?
Forse docile alla mannaia
del fato già porgi il collo;
già vedi la brulla
periferia suburbana,
là dove il mare
ha il suo fiato salmastro;
già sulla tua fronte
assorta la notte
è precipitata
con il suo dolore,
sfregiata
dalla turpitudine
di ombre senza volto, voce
o memoria. E forse
già trema il tuo cuore
nel presagio che a schiacciarlo
- là sul litorale,
sarà questa brutta
umanità col suo male
fatto di sogni senza compimento,
col suo mortale affanno
per una irraggiungibile
felicità.

(14-10-1999)

 

(199-229)

In breve posa per la fotografia bella
amicale, la mano sulla macina rotonda
litica del farro, immobile
in un chiaroscuro catacombale,
Enrica ti guarda,
il profilo sottile
tagliato dall'ironia del sorriso;
gli occhiali neri
sul viso,
ché potrebbe ferirti
il suo occhio d'antica Sibilla
per uno sguardo rovente
di parole consacrate
al dolore, deluse alla speranza,
figlie di un cuore smisurato -
per uno sguardo
dove giacciono i sogni
prosternati e gemono inermi
le speranze della giovinezza,
dove l'asprezza
del verbo è radura e rifugio
nella dura realtà e a parità
d'ogni altra fatica
sola gioia e conforto.
Beato te se nello stesso porto
di poesia conduci la tua
fragile nave del vivere
e trovi pace la notte.

(9-7-1999)

 

(230-250)

Non fosse stato
che per quel debole moto
del cuore, certamente
sarei passato oltre.
Ma poi ho visto il cielo
nell'acqua del fiume
riflesso,
e le rive sabbiose
dove correvo fanciullo
incontro alla speranza,
ad un sogno quasi perfetto;
poi ho visto i pioppi
e le querce
e gli arbusti e i canneti
delle sponde. Ho sentito
il lento frangersi
delle onde
ai miei piedi,
e finalmente ho pianto
nel ricordo di tanta innocente
felicità.

(12-11-1999)

 

(251-282)

Ecco, nel buio risplende
la Torre di Babele,
montagna di libri e di
parole, dove tu
guardi, Jorge Luis,
senza vedere:
Parole che comandarono
agli astri nascimenti
e agli oceani profondità;
parole nell'agorà
di Atene; parole
come la pietra
che uccise il fratello,
come una faretra di frecce
ricolma,
lanciate contro il cielo.
Nel buio risplende immensa
la Torre di Babele,
montagna di parole
e di luce,
e tu la vedi
nella notte
dei tuoi occhi offesi,
Jorge Luis, e sono parole
di poesia,
parole di felicità
e di sangue, parole
di musica e di vento,
di acqua e di animali;
parole e libri sacre
tra le tue mani
sacerdotali.

(29-11-1999)

 

(283-323)

"Ascolta, oh ascolta:
mi hai custodito nel cuore
ai tempi della giovinezza,
insieme abbiamo tracciato
sentieri tra le stelle
e cantato canzoni amorose
nel silenzio del fiume:
io, Dáimõn,
il tuo pensiero costante, io
che della tua poesia Musa
mi hai chiamato.
Ascolta, oh ascolta:
mi hai tenuto segretamente
nei giorni lenti
e distratti
in cui la città
t'imprigionava, nelle ore
silenziose dei giardini
autunnali;
Oh ascoltami ora che
la vita ti ha concesso
una gioia grande
e fatica;
Oh ascolta il tuo Dáimõn
oggi che le notti
sono corone di ferro
strette attorno al capo,
ora che le parole
sono ciottoli
e cristalli luminosi
in fondo
ad un ruvido tascapane,
ora che il tempo
è una bestia malvagia
che t'ha colpito
alle spalle a tradimento;
Ora che stai diventando vecchio
- oh ascolta il tuo Dáimõn,
ora che stai diventando vecchio
avrai ancora cura di me?"

(1-12-1999)

 

(324-355)

Segretamente,
dall'angolo nordoccidentale
dirama una luce
sul tuo viso, Giampaolo:
da quel settore dell'universo
dove convergono gli astri
affaticati e il sole
tramontando
splendidamente deterge
il dolore del mondo;
Segretamente,
Giampaolo, alle tue spalle
le rose fioriscono
e in un sospiro
ad un vento gelido
autunnale
abbandonano i loro petali
e il bel Giardino
(hortus conclusus di poesia,
cerchio d'amore
privilegiato)
ha un brivido mortale.
Ma tu guardi oltre, Giampaolo,
socchiudendo gli occhi
offesi dall'ultima luce,
e sulle labbra
antiche l'accenno
affiora di un sorriso
che la poesia e la speranza
e la perfezione
di un sogno condiviso
han benedetto.

(3-12-1999)

 

(356-380)

Fatti d'aria luminosa
e di silenzio
ora vi vedo, Renato e Clara,
passeggiare
su questo prato
della Certosa
fiorito di minuscole
croci bianche - voi,
cari amici
dei miei primi giorni
ferraresi, giorni solitari
e offesi dalla perfezione
dolente
di questa nostra città
nebbiosa ...
Dolci prati della Certosa,
neppure un brivido
serbate, etereo,
delle orme
dei miei cari amici,
tanto leggeri posano
ora i loro piedi
e segreto nell'anima
sta il loro amore
intatto.

(7-12-1999)

 

(381-416)

¿Qué cantan los poetas andaluces
de ahora?
E i poeti che vivono
indecenti periferie, cosa cantano,
Rafael i poeti che vegliano
nell'ombra dei portoni, cosa cantano?
Le loro sono parole umiliate,
parole d'ombra
che nessuno ascolta, Rafael!

¿Qué miran los poetas andaluces
de ahora?
Cosa guardano
i poeti vittime della notte,
straniti dalle rare luci
azzurre nei corridoi degli ospedali,
trafitti dal nero putrido
delle carceri, Rafael, cosa guardano?
Guardano dentro cuori umani
saccheggiati dall'odio,
dentro bocche chiuse
piene di parole vane,
guardano dentro ai nostri occhi
vuoti, Rafael!
¿Qué sienten los poetas andaluces
de ahora?
Cosa sentono i poeti
di oggi, i poeti d'ogni contrada
del mondo, Rafael,
quando la solitudine li uccide,
quando la parola
- fragile linea d'acqua
è isterilita, quando la vita
sembra vuota d'ogni felicità?
Il cuore dei poeti cessa di battere,
Rafael, e la poesia
è come quella rondine ferita
dai profondi cieli azzurri
andalusi fuggita via
per sempre.

(8/9-12-1999)

 

(417-447)

"Vedi, Odisseo, è segno
del rapido mutare delle stagioni
il girare che fa il vento,
ora spirando tiepido
dall'entroterra; ed è altro
segno sicuro il trasmigrare
altissimo degli aironi
oltre le lagune e le sabbie
di questo delta vuoto di solitudini
e consacrato al silenzio.
Il tuo sguardo che ancora
scruta l'orizzonte, Odisseo,
è piagato dalla nostalgia,
visitato nottetempo
dai fantasmi della tua casa
in Itaca, incrinato
come ampolla colma
di lacrime.
Gli dèi ostili
ancora non ti hanno concesso
il ritorno, Odisseo,
ma già le donne d'Hatria
dai lunghi capelli
hanno preparato di te
un'immagine di pietra:
ricordo del tuo amore
e della tua sofferenza,
segno da conservare con quelli
- sacri, di Fetonte, d'Icaro
e d'Argo dalla bella prua
scolpita nel bronzo"

(11-2-2000)

 

(448-469)

Dalle ceppaie nere
lungo i fossi tra i campi
e le bassure,
sembra muovere
un'idea di spazio
circoscritto da spesse
cortine di nebbia
e insieme aperto
su infiniti sconfinati
orizzonti.
A questo universo
contadino
- piagato nell'anima
dalla fatica,
condussi i passi
incerti e pensosi
della mia
giovinezza, trovai,
in quel silenzio,
le parole commosse
della poesia.

(28-2-2000)

 

(470-516)

"Bastardo!" era la parola
di sabbia che udivi
sibilata dai Gin del deserto,
invisibili, col vento delle dune;
E nell'andare incerto
della giovinezza
tu l'avresti sentita, Yeshua,
quella parola di sangue e vergogna,
sulla bocca dei compagni,
nello sberleffo degli amici
che poi fuggivano via,
in una brezza di vento,
per i vicoli di Cafarnao
e di Betania,
oltre gli orti di Cesarea.

"Bastardo!" era la parola
che ti spinse a percorrere
le strade errabonde
di Giuda e polverose,
alla ricerca di quel padre
che ti era negato
e del quale chiedevi, spesso,
fermandoti all'ombra di un pozzo,
a qualche donna giovane
e distratta
o a un gruppo di bambini
- abbandonati il gioco e le corse.
Quel padre, Yeshua,
che forse ti sembrava di vedere
negli occhi di qualche amico fedele
o nelle piaghe di un misero
abbandonato
alle porte del Tempio.

"Bastardo!" fu l'ultima parola
che udisti nell'agonia
dalla bocca infame
di una folla vociante,
quando ti ricordasti, Yoshua,
di quella favola che tua madre
tante volte
ti aveva raccontato,
di quel raggio di sole che un giorno
la penetrò,
entrando furtivo dai balconi
ed era un mattino lontano e dolce
di primavera.

(28-2-2000)

 

(517-530)

Specchia di sé la vecchia torre
nel canale antichi fasti
e pleniluni inargentati
dai venti lagunari.
Brume sottili dondolano
nelle reti inermi dei pescatori
che un mezzogiorno
scialbo ha dimenticato
appese. Non ha ritorno
il tempo che trascorre, via
portandosi di noi ogni speranza
a svanire come nella luce incantata
dell'autunno i sogni disperati
dell'estate.

(2-3-2000)

 

(531-547)

Torna la vecchia
alla sua casa di salsedine
scrostata nei vecchi muri
addossati al nulla
nebbioso delle valli,
ma della sua vita,
della smarrita sua giovinezza
quale traccia o segno
rimane nel disegno
dei canali melmosi,
o nei ventosi crocicchi
dei vicoli?
Morte è la sola certezza,
fragile carezza delle cose,
pace, dopo tanto dolore,
nel colore incerto
della sera.

(16-8-2000)

 

[Uroboro - Rassegna contemporanea, Edizioni Mediateca, Campi Bisenzio, 2000.]


 
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