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L’INDAGINE PSICOLOGICA SULLA PERSONALITA’ DEL MINORE[1]

di Claudio Foti
 

1. Ruolo dello psicologo nel contesto giudiziario fra idealizzazione e svalutazione

 

Innanzitutto occorre domandarsi: chi è il soggetto che compie questa indagine?  Che strumenti ha in mano per conoscere la personalità di un minore presuntamente maltrattato o abusato? Fino a che punto lo psicologo  valutatore può dire qualcosa di utile sulla storia di questo minore e sulle violenze subite da quest’ultimo?

Se proviamo a metterci nei panni del giudice, con quel viaggio mentale esplorativo dell’alterità che si chiama empatia, non possiamo non chiederci: ma chi è questo psicologo, questo carneade, che pretende di valutare la credibilità di un bambino? Chi è questo parvenu delle scienze umane, con appena un secolo di elaborazione  culturale alle spalle al confronto di  altri studiosi di scienze e discipline (fra cui il diritto) molto più consolidate ed affidabili? Quali carte ha in mano lo psicologo per dire qualcosa di attendibile sull’attendibilità  di un bambino  che potrebbe essere stato tradito e violato? Quali strumenti possiede per dire qualcosa di veramente credibile  sulla credibilità di un minore, qualcosa che non sia troppo personale sulla personalità del bambino, qualcosa che risulti almeno “un po’ oggettivo”, “un po’ scientifico”?

 

     L’immagine dello psicologo e della sua funzione rischia di essere deformata nel contesto giudiziario da idealizzazioni e nel contempo da forti squalifiche.  Talvolta il giudice può distorcere il  ruolo dello psicologo nel senso di idealizzare le sue conoscenze e di sopravvalutare l’oggettività del suo responso, per es. formulando quesiti peritali in base ai quali si chiede   allo psicologo di accertare la verità storica dell’eventuale violenza compiuta ai danni del minore e sottovalutando che l’impianto probatorio di un’accusa tanto grave  non dovrebbe esclusivamente basarsi su una valutazione psicologica.       All’opposto – e più frequentemente – il giudice può fraintendere il ruolo dello psicologo nel senso di svalutarlo, di non comprendere il suo contributo specifico, tutt’altro che esaustivo ed onnisciente, ma tuttavia importantissimo alla comprensione non solo del mondo interno del bambino, ma anche della sua storia mentale e relazionale.

     Un altro rischio del magistrato è quello di negare il contributo rilevante che lo psicologo può dare non solo alla conoscenza della vicenda psichica ed esistenziale del bambino, ma anche all’accompagnamento di quest’ultimo nell’intero iter giudiziario per evitare che questo cammino, lastricato di buone intenzioni di tutela e di giustizia, si riveli per il bambino stesso, in quanto soggetto debole e privo di capacità contrattuali, una via ulteriore dell’inferno traumatico,  un momento  di traumatizzazione secondaria.

  Il magistrato Elvio Fassone ha scritto tanto tempo fa che il giudice con la sua cultura umanistica presume di essere un grande intenditore di vicende umane e a partire da questo atteggiamento rischia di misconoscere  il ruolo delle scienze umane ed in particolare della psicologia.[2] Ma non sono solo schemi culturali ad impedire ai giudici di comprendere il ruolo della psicologia e dello psicologo. Sono soprattutto schemi mentali e atteggiamenti emotivi a produrre nei magistrati atteggiamenti di presunzione e di misconoscimento delle competenze psicologiche necessarie all’approccio con le persone. Si pensi ad affermazioni, esplicite o implicite, del tipo : “Devo certo nominare un perito, ma comunque le persone le conosco ben io come sono fatte e le so valutare ben io”.  Oppure:  “Sono una madre di famiglia,  oltre che magistrato e non ho bisogno di uno psicologo per le audizioni protette: con i bambini ci so parlare”.

 Ma se è vero che il giudice per proprie responsabilità rischia spesso di fraintendere e svalutare il ruolo specifico dello psicologo nell’accostarsi ad una vicenda di abuso o maltrattamento, non vanno dimenticate le forse maggiori responsabilità degli psicologi  che spesso esibiscono o lasciano intendere competenze scientifiche che non posseggono e soprattutto  non definiscono con sufficiente precisione gli strumenti a loro disposizione, soprattutto le competenze emotive e relazionali che dovrebbero attivare.

Non chiariscono per esempio che la principale risorsa euristica di cui lo psicologo dispone nella valutazione  della personalità di un bambino a disagio  è l’empatia.

 

2. L’empatia come risorsa euristica nell’accertamento dell’attendibilità

 

     Vorrei parlare dell’empatia come atteggiamento indispensabile per la valutazione facendo riferimento al pensiero di Heinz Kohut,  fondatore della psicologia psicoanalitica del Sé,

      C’è un’idea diffusa nella cultura giudiziaria (ma non solo in questa) dell’empatia come qualcosa che si confonde con la simpatia o la compassione o l’intuizione: qualcosa di fumoso di suggestivo, di non affidabile, che non potrebbe rientrare nei fenomeni verificabili e discutibili scientificamente.

      In realtà  è possibile fondare una psicologia dell’ascolto e della valutazione attivando quella che Kohut definiva “empatia scientifica e scienza empatica”.  Secondo Kohut l’empatia ha tre funzioni:

1.    la funzione di definire il  campo dei fenomeni psicologici;

2.    la funzione di sostenere il soggetto che viene empaticamente ascoltato.[3]

3.    la funzione  di raccogliere dati ed informazioni;

 

 2.1. L’empatia come strumento di osservazione che definisce il campo dei fenomeni psicologici.

 

     Per Kohut “un metodo di osservazione definisce i contenuti e i limiti del campo osservato”[4].  Pertanto  “noi parliamo dei fenomeni fisici quando gli elementi essenziali dei nostri metodi di osservazione includono i nostri sensi; parliamo di fenomeni psicologici quando gli elementi essenziali della nostra osservazione sono l’introspezione e l’empatia”[5]. Per il teorico della psicologia del Sé l’introspezione e l’empatia sono costituenti essenziali di ogni osservazione psicologica, caratterizzandola e differenziandola  rispetto all’osservazione dei fenomeni fisici.

     Kohut fa due esempi interessanti: “Vediamo una persona eccezionalmente alta. L’eccezionale statura di questa persona è indiscutibilmente un fatto importante per la nostra valutazione psicologica; senza introspezione ed empatia, la sua statura rimane soltanto un attributo fisico. Soltanto quando ci mettiamo al suo posto, e per introspezione vicariante cominciamo a sentire la sua statura insolita come fosse la nostra, e riviviamo così esperienze interne nelle quali siamo stati fisicamente non comuni o ci siamo fatti notare, solo allora cominciamo a riconoscere il significato che la statura insolita può avere per quella persona.”  Fin tanto che non vengono messe in funzione introspezione ed empatia la realtà umana osservata rimane estremamente limitata e parziale. Fin tanto che non vengono attivate l’introspezione diretta e quella vicariante  il campo dei fenomeni osservati rimane quello fisico e non già quello psicologico.

      Vediamo il secondo esempio:  “Se vi fosse la possibilità di descrivere in termini fisici e biochimici, come le onde sonore di certe parole pronunciate da A abbiano mobilitato certe strutture elettrochimiche nel cervello di B, questa descrizione non conterrebbe ancora il fatto psicologico dato dalla constatazione che B è stato offeso da A”.[6]

     Per tentare di comprendere adeguatamente che B è stato offeso da A devo necessariamente andare al di là dei sensi e dell’intelletto che mi consentono di percepire dati fisici o biochimici e ricorrere all’introspezione e all’empatia.  

     Non vi sono fatti psicologici, fatti che implicano una dimensione emotiva e relazionale,  che noi possiamo tentare di comprendere con un’osservazione del mondo esterno priva di introspezione e di empatia. E questo vale non solo per gli psicoanalisti e gli psicologi, ma per qualsiasi figura professionale: operatori sociali e sanitari, educatori, giudici, ecc…

     A maggior ragione nessun approccio psicologico, nessun approccio clinico può avvenire senza introspezione ed empatia, senza un tentativo di conoscenza e di indagine mentale nei confronti della nostra soggettività e nei confronti della soggettività altrui, senza un duplice viaggio esplorativo di tipo mentale, che implica continue oscillazioni e continui approfondimenti nelle due direzioni: verso il Sé e verso l’altro.   In altri termini occorre un movimento esplorativo verso me stesso, verso le reazioni e gli atteggiamenti mentali che l’altro induce in me e verso le esperienze e le situazioni che risultano simili a quelle altrui e mi consentono di comprendere l’altro e, parallelamente e contestualmente, un movimento esplorativo per tentare di capire colui che è diverso da me, ma che non posso ascoltare e comprendere se non trovo dentro di me esperienze e situazioni che mi possano consentire d’identificarmi con lui. Ecco perché l’empatia può essere definita introspezione vicariante: conosco l’altro attraverso ciò che mi accomuna a lui.        La tendenza dominante della cosiddetta Psicologia Forense propone invece un modello di psicologo della valutazione della presunta vittima di abuso sessuale che  aborrisce l’introspezione e l’empatia e le disprezza addirittura come indicatori di una caduta irrimediabile di scientificità. Lo Psicologo Forense si rapporta alla soggettività di un bambino presunta vittima di abuso (una soggettività comunque dolorante e in conflitto indipendentemente dalla sussistenza dell’abuso), inseguendo i miti dell’Obiettività e della Neutralità scientifica, con l’atteggiamento che potrebbe avere il geologo di fronte alle sue pietre.

     I bambini maltrattati o presuntamene maltrattati rischiano di essere rappresentati dalla Psicologia Forense come oggetti con i quali non sarebbe possibile empatizzare.

      

 2.2. L’empatia come strumento di sostegno

 

    Tutti noi abbiamo sperimentato che possiamo comunicare autenticamente il nostro disagio ad un ascoltatore, soltanto quando il nostro ascoltatore assume un atteggiamento empatico di comprensione, di benevolenza e di vicinanza emotiva[7].

     Da anni come Centro Studi Hansel e Gretel proponiamo nella formazione e nella supervisione un atteggiamento tecnico fondamentale è quello di alternare nella conduzione dell’intervista interventi di condivisione e rispecchiamento delle emozioni con interventi volti ad interrogare il soggetto, al fine di meglio conoscerlo e di meglio partecipare alla sua situazione in modo emotivamente autentico; alternare atteggiamenti di comprensione empatica con atteggiamenti di curiosità, intesa come interessamento non pressante, ma attento ed amorevole. L’empatia senza curiosità partecipe non è sufficiente ad aiutare il bambino a superare le proprie difficoltà e rischia di essere fraintesa da quest’ultimo come un atteggiamento di non piena disponibilità dell’esperto ad avvicinarsi alla drammaticità dello svolgimento concreto della propria vicenda. Peggio ancora è la curiosità senza condivisione empatica, che rischia di diventare intrusiva e inquisitoria e di suscitare legittime resistenze. nell’interlocutore e pertanto di non realizzare affatto l’obiettivo di aiutare il minore, né quello di acquisire informazioni da lui.

     Qual è il fondamento scientifico di questa teoria della tecnica?  Nel  dialogo con il bambino (un discorso analogo potrebbe essere esteso all’adulto) noi facciamo delle domande e le domande costringono il nostro interlocutore a lavorare, a consumare energie psichiche non indifferenti nel tentare di rispondere ai nostri interrogativi.   Oltretutto il nostro interlocutore è piccolo bambino in grande difficoltà, sia se l’abuso è avvenuto, sia se l’abuso non è avvenuto e le nostre domande sono spesso difficili, impegnative, dolorose.  Tendiamo a tempestare di interrogativi il bambino e non ci chiediamo da dove il bambino trarrà tutta l’energia psichica necessaria a dare risposta alle nostre domande.

     Il bambino può trarre l’energia psichica soltanto dagli interventi di condivisione e di comprensione emotiva, perché questi interventi soddisfano bisogni emotivi profondi di regolazione dell’autostima e di sostegno del Sé.   Senza l’empatia dell’ascoltatore  la produttività e la qualità delle risposte del soggetto che viene ascoltato finiscono per impoverirsi.

    Questo è un discorso che va al di là dell’indagine psicologica sul minore a rischio e può essere esteso all’indagine in quanto tale.

     Occorre superare l’idea del classico interrogatorio di polizia, in base al quale la persona oggetto dell’indagine deve essere necessariamente messa alle strette, affinché possa essere produttiva in quanto fonte di informazioni. In generale è vero il contrario: l’interlocutore di un’intervista finalizzata ad un’indagine non deve essere programmaticamente messo in difficoltà, affinché trasmetta informazioni: deve essere al contrario compreso e sostenuto nel corso dell’intervista

    Certo, in qualche passaggio del colloquio d’indagine si ha la necessità di porre alcune domande all’interlocutore che finiranno per metterlo in difficoltà (per es. di fronte  a certe sue resistenze o contraddizioni oppure di fronte all’esigenza  di ricordare eventi spiacevoli). Ma si tratta allora di mettere tatticamente e non strategicamente in difficoltà l’interlocutore e l’intervistatore potrà meglio affrontare un tale compito se imposta il colloquio con un atteggiamento complessivamente empatico. 

 

 2.3. L’empatia come strumento scientifico di indagine sui fatti umani

 

     L’empatia risulta scientifica nella misura in cui può consentire, se correttamente applicata, la raccolta più completa e meno distorcente possibile di dati e di informazioni dai soggetti umani e massimamente da quei soggetti umani più piccoli e più deboli che sono i bambini.

     Assumere una posizione empatica non significa trasferire nell’altro contenuti emotivi in modo inconsapevole, non significa neppure confondersi con l’altro: l’adulto può mantenere una posizione  se non obiettiva, equanime  ed autorevole,  pur tentando di sentire in qualche misura  ciò che ha provato e ciò che prova il minore sul piano emotivo. L’atteggiamento empatico consente di mantenere mentalmente una posizione di dubbio circa l’autenticità di quanto il soggetto esaminato dichiara, pur trasmettendo al bambino la sensazione di essere accolto ed accettato per ciò che in quel momento è in grado di dire. Per es. di fronte ad un bambino che con un filo di voce tremolo con un atteggiamento carico di paura dice al perito che il padre gli ha fatto delle “cose brutte” si può rispondere per esempio con un tono di autentica partecipazione emotiva: “Sento che raccontarmi questa cosa ti fa stare molto male e che in questo momento sei molto spaventato”. Il bambino si sentirà capito ed il perito potrà meglio esplorare le cause di tale stato emotivo (per esempio la rievocazione di un trauma realmente sperimentato oppure la paura per le conseguenze di una menzogna).[8]

      Vorrei ora soffermarmi sull’ascolto della falsa accusa per dimostrare in particolare che l’empatia è lo strumento che può consentire la maggiore sicurezza possibile nella valutazione dell’attendibilità, anche nelle situazioni dove l’abuso non sussiste, e che può garantire nel contempo il maggiore sostegno psicologico possibile ai minori che ricorrono ad una falsa accusa di abuso sessuale per esprimere la loro rabbia e la loro protesta nei confronti di alcune figure del mondo adulto circostante.

 

    L’empatia è lo strumento indispensabile per fare in modo che ciascun bambino possa comunicare la propria verità, quando la verità è un abuso sessuale, avvolto dall’imbroglio e dal silenzio, ma anche quando la verità è una falsa accusa, che può risultare, per alcuni aspetti,  altrettanto confusiva e destrutturante di un abuso reale. I bambini hanno bisogno di dire la loro verità, la verità dei loro sentimenti, la verità dei loro ricordi. I bambini ne hanno sempre bisogno e in genere ne sono capaci, purché si trovino di fronte ad un atteggiamento di ascolto empatico da parte degli adulti che incontrano.

   

3. L’empatia di fronte ai casi di falsa accusa

 

     Pino ha 7 anni e ha raccontato una vicenda piuttosto complicata e caratterizzata da tanti punti oscuri: “Mio padre – dice fra l’altro Pino - quando mamma non c’è mi mette un ossicino nel culo.”  Molti hanno preso per buone le sue dichiarazione, fra cui la sua psicoterapeuta. Dopo un lungo colloquio di consulenza faccio a Pino un intervento di confronto con la realtà delle incoerenze molti forti della sua rivelazione. “Senti, Pinuccio, i casi sono due: o tu non mi hai raccontato tutto, perché sei spaventato… magari qualcuno ti ha minacciato o c’è qualche altra grande difficoltà a dirmi tutto e in questo caso ti capirei: come si fa a parlare se si è minacciati o spaventati?  oppure questa storia te la sei inventata tu e anche in questo caso ti capirei.  Può succedere, sai,  che i bambini, quando si sentono arrabbiati  e in difficoltà, credono di poter risolvere i problemi raccontando una bugia e magari finiscono poi ancora di più nei pasticci perché si ritrovano ancora più soli e in difficoltà. Che cosa ne pensi?”    Formulando ad alta voce l’ipotesi della bugia, ma formulandola con un atteggiamento di comprensione empatica, il bambino, che evidentemente non aspettava altro, inizia a parlare, liberandosi dal peso opprimente che la falsa accusa produceva in lui, riuscendo a fornire informazioni convincenti che fanno escludere la sussistenza dell’abuso e chiariscono le motivazioni di disagio che l’hanno spinto a mentire.

       Dunque l’empatia consente di acquisire nel modo più rigoroso ed approfondito informazioni sui sentimenti e sui ricordi, sui dati emotivi e sui dati informativi che il soggetto tiene dentro di sé.  L’empatia non è suggestione. Uno psicologo può correttamente dire ad un bambino in uno stadio avanzato della valutazione: “Le cose che mi hai raccontato mi fanno venire in mente che certe volte i bambini si possono trovare in una situazione in cui subiscono dai grandi cose molto brutte e pesanti  e allora questi bambini devono essere ascoltati, devono riuscire a parlare e così possono essere aiutati”.  Oppure lo psicologo può, altrettanto correttamente, dire, al momento opportuno, ad un altro bambino: “Le cose che mi hai raccontato mi fanno venire in mente che certe volte i bambini stanno proprio male, si sentono soli, hanno un problema e magari pensano di risolverlo costruendo una bugia, accusando qualcuno che li ha fatti arrabbiare. Ma poi il problema non si risolve e diventa sempre più grave. E’ importante che questi bambini riescano a dire la verità: solo così possono essere aiutati”. 

     In entrambi i casi lo psicologo cerca un avvicinamento mentale ed emotivo al bambino, come conditio sine qua non per consentire a quest’ultimo di esprimere la sua verità.

 

    Se si esaminano le preoccupazioni degli autori sensibili ai diritti della difesa e si prendono in considerazione i loro suggerimenti finalizzati a contrastare il rischio di atteggiamenti suggestivi nel corso di colloqui con  minori presunti vittime di abuso sessuale, si può osservare come tali suggerimenti non potranno essere efficaci se non fanno parte di un atteggiamento correttamente benevolo ed empatico nei confronti della personalità del minore a disagio.

    Si considerino per es. alcune indicazioni operative, del tutto  condivisibili, che Guglielmo Gulotta riprende dalla letteratura che si concentra sui rischi della suggestione positiva: 1. spiegare al bambino che l’intervistatore non è informato sugli eventi sui quali sarà interrogato; 2. incoraggiare il bambino ad ammettere eventualmente di non aver capito le domande che gli verranno poste; 3. incoraggiare il bambino a manifestare il proprio punto di vista, anche se in disaccordo con l’intervistatore.[9]    

    Certamente tali indicazioni, all’interno di un atteggiamento valutativo aperto a tutte le ipotesi, sono senza dubbio valide ed utili al fine di impedire il rischio di una pressione psicologica suggestiva di tipo positivo sul bambino intervistato.

    Ma se lo psicologo valutatore non sa mettere a proprio agio il suo piccolo interlocutore con un atteggiamento  gentile e rispettoso, anche le comunicazioni rassicuranti fatte al bambino del tipo: “Puoi dire liberamente ciò che pensi”, “Puoi dire di non aver capito una domanda”, “Puoi dare le risposte che vuoi anche se non sono d’accordo” rischiano di cadere nel vuoto  e di essere contraddette dall’atteggiamento freddo e distaccato dell’intervistatore, che tende ad inibire e a scoraggiare una comunicazione autentica e franca.  La comunicazione verbale dello psicologo finisce per  risultare in contrasto con la sua comunicazione extraverbale, veicolata dall’atteggiamento emotivo e relazionale.  In questo caso lo psicologo rischia di comportarsi in modo analogo a quegli insegnanti o a quei genitori che si vantano di essere democratici e che incoraggiano continuamente nei figli o negli allievi interventi franchi ed anche critici nei loro confronti, ma poi mostrano un atteggiamento talmente razionalistico e privo di empatia che nessuno dei bambini o dei ragazzi con cui hanno a che fare è disposto ad  aprirsi con loro ad un dialogo autentico e sincero.

    Solo l’impegno empatico dello psicologo valutatore può autorizzare veramente un bambino ad esprimere disagio, dubbio, perplessità od opposizione.      E’ uno psicologo clinico, portatore di sperimentate competenze emotive ed empatiche, capace in altri termini di riconoscere e valorizzare la vita emotiva nella relazione di aiuto, che può favorire nel bambino un atteggiamento di autonomia psicologica, non limitandosi ad enunciare a parole di fronte al suo piccolo interlocutore l’incoraggiamento a dissentire, bensì mettendo a proprio agio il bambino con i propri atteggiamenti e comportamenti coerentemente comprensivi e rispettosi per rendere psicologicamente possibile al bambino l’espressione del proprio originale punto di vista.

    Lo psicologo della valutazione applicherà in altri termini il principio che sta alla base della teoria dell’intelligenza emotiva[10] , secondo il quale tutti i sentimenti di un bambino sono legittimi, anche (e soprattutto) quelli  di disagio e dissenso, in quanto maggiormente conflittualizzati  ed inespressi, e pertanto maggiormente meritevoli di attenzione ed ascolto.

    Occorre un valutatore capace di  non farsi strumento né di suggestioni positive, né di suggestioni negative e disponibile ad un ascolto a trecentosessanta gradi nei confronti di ogni forma di bisogno conflittuale del bambino: bisogno conflittuale nei confronti delle stesse domande del valutatore, ma anche eventuale bisogno conflittuale nei confronti delle pesanti suggestioni provenienti dal suo ambiente familiare, vuoi da parte di adulti inducenti, vuoi da parte di adulti violenti, minacciosi e manipolatori.

       Un  valutatore,  maggiormente preoccupato della tecnica che non della vita emotiva del bambino, scoraggerà in quest’ultimo la possibilità di contrastare i propri interventi inconsapevolmente suggestivi, vuoi di tipo positivo, vuoi di tipo negativo.   Un consulente psicologo, interessato ad esaltare il proprio ruolo forense e a far dimenticare il proprio ruolo clinico,  finirà per  determinare nel colloquio con il bambino forti barriere all’ascolto e finirà per emettere nella comunicazione con il suo piccolo interlocutore inconsapevoli  messaggi di “no entry”, di “divieto di accesso” alla comunicazione  nei confronti dei bisogni espressivi e comunicativi del bambino.

  

4.    Psicologo clinico in ambito forense

 

    Va affermato con nettezza che lo psicologo, incaricato di un accertamento peritale sulla personalità del minore abusato o sulla sua attendibilità, deve essere uno psicologo clinico, che certamente accetta le procedure, le regole  e le richieste del contesto giudiziario, ma che porta in questo contesto il proprio DNA clinico,  le preoccupazioni e le finalità del procedimento clinico, finalità e preoccupazioni legate alla presa in carico e al compito di aiuto nei confronti della sofferenza umana.  

     Nell’accertamento sulla personalità del minore ha senso l’attivazione di uno  psicologo clinico, che fra l’altre cose lavora anche in ambito forense e che ovviamente accetti di sintonizzarsi con le regole del contesto giudiziario.

     Non  ha senso invece la figura del cosiddetto Psicologo Forense come distinto e contrapposto allo psicologo clinico.  Lo Psicologo Forense è una figura scientificamente insostenibile e per di più potenzialmente rischiosa e maltrattante (scriverlo con la maiuscola evidentemente non compensa la carenza logica e psicologica della sua attività concreta). 

     Nel contesto giudiziario l’alienazione dello psicologo dalla sua funzione di aiuto, funzione che si sostanzia nella comprensione emotiva e nel sostegno alla chiarificazione del mondo interno del suo interlocutore,  può comportare un grave abuso nell’ascolto del minore abusato o presuntamente abusato. 

     Che valore e significato  ha uno Psicologo Forense chiamato a valutare le radici dell’angoscia e del malessere di un bambino e che di fronte a questa angoscia e a questo malessere si rifiuta di porsi in una posizione di ascolto empatico dichiarando che le proprie procedure tecniche neutrali, differenti da quelle del contesto clinico. avrebbero lo scopo di evitare di inquinare la spontaneità del bambino?

     L’esperienza traumatica o di un grave disagio familiare, di qualsiasi origine e a maggior ragione l’esperienza di un trauma ha determinato nel bambino una qualche sfiducia o addirittura  una rottura profonda dei legami di fiducia, di attaccamento e di interesse per il mondo adulto.

    Soltanto un atteggiamento empatico nell’intervistatore, capace di sollecitare nel bambino una qualche ripresa di un legame di apertura al mondo adulto, può candidarsi di sollecitare nel bambino una qualche comunicazione autentica e non già bloccata o frammentata. 

    Perché un bambino dovrebbe condividere il proprio segreto con uno sconosciuto che non fa nulla per entrare in contatto con la sua situazione di isolamento emotivo, disagio, di  difficoltà? Perché dovrebbe confidarsi con una persona lontana, fredda, neutrale? Che cosa può aspettarsi un bambino da un adulto maggiormente preoccupato a non  inquinarlo con la propria presenza, con le proprie domande, piuttosto che preoccuparsi per il dolore che lui prova?

    Una certa Psicologia Forense (pensiamo per es. alla “Carta di Noto”), con il pretesto di contrastare gli interventi suggestivi sul bambino, sembra in realtà interessata a suggestionare lo psicologo valutatore nel senso di colpevolizzare con un’ideologia tecnicistica qualsiasi suo atteggiamento teso a favorire un clima relazionale e comunicativo che consenta al bambino di raccontare la propria verità, rinforzando così le difese e le difficoltà del bambino alla narrazione della propria esperienza – difese e difficoltà comunque già presenti in lui,  sia provenendo da una situazione di menzogna, di confusione, di fraintendimento o di induzione, sia, a maggior ragione, provenendo da una situazione di abuso realmente sperimentato. 

     L’ideologia della Psicologia Forense rinvia in ultima analisi all’interesse sociale che la determina: l’interesse dell’imputato a garantirsi l’impunità.  La sua pretesa più radicale è quella di tentare di dimostrare che qualsiasi atteggiamento di coloro che hanno raccolto le rivelazioni della presunta vittima ha in qualche modo potuto sporcare  la spontaneità e l’autenticità di quelle rivelazioni, le quali pertanto risulterebbero contaminate e pertanto non attendibili.

     Al di là della corretta esigenza di proteggere la comunicazione del bambino da induzioni, distorsioni e proiezioni, anche inconsapevoli, del suo intervistatore, l’esasperata attenzione al problema di un’osservazione non contaminante porta ad un’irresponsabile sottovalutazione di quei bisogni di fiducia e di legame, sui quali il bambino affida la propria residua possibilità di salvezza. Conseguenza di tale impostazione è quella di non riconoscere la necessità che la diagnosi peritale implichi atteggiamenti protettivi, di solidarietà e di empatia con il bambino. Quando ciò non accade, quando il perito o il magistrato decide di ridurre al minimo la sua offerta di vicinanza emotiva e disponibilità all’ascolto, trasmette fatalmente al bambino l’idea di trovarsi di fronte ad adulti  che non sono realmente interessati a lui, adulti che dal punto di vista di una vittima finiscono per assomigliare al suo abusante. Tutti i clinici e i teorici del trauma hanno dimostrato che in una situazione dove non c’è empatia la piccola vittima tende a rivivere più facilmente nello psicologo o nella figura professionale che ha di fronte un qualche aspetto  del trauma vissuto, a rivivere nell’istituzione che dovrebbe essere tutelante quelle situazioni in cui la piccola vittima è stata trattata pesantemente in modo strumentale, in modo freddo, o in modo ipocritamente caldo e gentile.

     In molte audizioni protette il bambino finisce per rivivere la situazione di impotenza comunicativa che ha caratterizzato la sua vicenda traumatica a fronte della totale incapacità di giudici e psicologi di immedesimarsi con la propria situazione emotiva. Talvolta questa incapacità viene occultata da un atteggiamento degli intervistatori bamboleggiante o complimentoso del tipo: “ma che bel disegno che hai fatto…”, “che bambino simpatico”,    “…allora giochi bene a pallone”, un atteggiamento che non impedisce certo di  scoraggiare in ogni modo, magari senza rendersene conto, il bisogno del bambino di comunicare  la propria dolorosa verità.

 

 5. Ascolto empatico e identificazione con il bambino

 

    Proviamo a metterci nei panni di un bambino violentato o comunque coinvolto in una  situazione di grave conflitto e di confusione familiare, che ha portato ad una segnalazione.   Chi con questo peso nel cuore, di qualsiasi origine sia questo peso, si confiderebbe con uno sconosciuto che non esprime alcuna vicinanza e alcun calore nella relazione interpersonale, perché preoccupato primariamente  di non sbilanciarsi emotivamente, di non perdere una posizione di formale equidistanza?

    Tutti noi quando abbiamo un problema che ci pesa e che ci è difficile comunicare, anche se si tratta di un problema  non paragonabile a quello di un bambino  abusato,  abbiamo bisogno, prima di aprirci, di acquisire informazioni consciamente o precosciamente, direttamente o indirettamente, sul piano verbale e sul piano extraverbale,   per essere certi che il nostro interlocutore sia disposto ad assumere nei nostri confronti una posizione non già di giudizio critico, bensì di identificazione, mostri cioè  un atteggiamento non già asettico o colpevolizzante, bensì  empatico, d’interessamento partecipe e di vicinanza emotiva.  Altrimenti non ci apriamo affatto alla comunicazione e alla confidenza.

    Come Centro Studi Hansel e Gretel abbiamo costruito nei corsi di formazione per operatori psicosociali  un’esperienza di gioco per favorire la comprensione di cosa può vivere un bambino sessualmente abusato nel corso di un processo di indagine o di ascolto relativo alla propria vicenda.

   Sarebbe di fondamentale importanza far vivere un’esperienza formativa di questo genere anche ad operatori dell’area giudiziaria (magistrati o personale di polizia giudiziaria). Si tratta di una fantasia guidata, cioè di un’esperienza di gruppo, nella quale il conduttore  invita i partecipanti a concentrarsi mentalmente e a costruire con l’immaginazione una determinata situazione che viene via via fatta evolvere dallo stesso conduttore e dalle sue sollecitazioni.

     I partecipanti  vengono aiutati in vari modi a prendere contatto mentalmente con un’esperienza personale  di tipo sessuale,  un’esperienza  emotivamente significativa, che è risultata “abbastanza dolorosa, abbastanza mortificante, abbastanza frustrante”.

 

    Lo sviluppo della fantasia, che il conduttore sollecita per circa venti minuti - mezz’ora  è, in grossa sintesi, la seguente: “Provate a rivedere con la mente il tempo e il luogo dove è avvenuta… la persona o le persone che erano presenti…Provate a rivedere i momenti, i gesti, i corpi, i sentimenti che avete provato…  Adesso pensate ad una possibilità  immaginaria che ad un certo punto  vi venga voglia, vi venga il bisogno di comunicare questa situazione sessuale dolorosa e frustrante  a qualcun altro…

    Cosa vi potrebbe spingere a confidarvi? Adesso  provate ad immaginare di incominciare a comunicare la vostra esperienza sessuale umiliante. Davanti a voi c’è qualcuno che potrebbe ascoltare.  Non è per niente facile raccontare.  Finalmente vi state decidendo a raccontare, state cominciando a parlare. Purtroppo, adesso il vostro interlocutore inizia a dire o a fare qualcosa che non vi piace assolutamente, che non vi a aiuta affatto a parlare, inizia a dire o a fare qualcosa che ottiene l’effetto di bloccarvi, di farvi chiudere. Cosa vi ha detto per scoraggiare o farvi passare la voglia di parlare?)

  

   Adesso  ritornate indietro nella fantasia, Davanti a voi c’è qualcuno che  può ascoltare sul serio, può ascoltare veramente. Che tipo di persona vi piacerebbe avere di fronte a voi per potervi esprimere e per soddisfare i bisogni che vi spingono a parlare?  Che tipo di atteggiamento dovrebbe avere questa persona?

   Cosa sta dicendo, cosa sta facendo  il vostro interlocutore, il vostro ascoltatore  per aiutarvi a parlare, a confidarvi…”

 

    Questa fantasia guidata consente un’esperienza di “introspezione vicariante” come momento indispensabile alla comprensione empatica di un soggetto altro da sé.  In altri termini per poter capire la situazione emotiva in cui può trovarsi un minore abusato che deve aprirsi ad una comunicazione particolarmente difficile e conflittuale (in quanto attinente alla dimensione sessuale e in quanto caratterizzata da un forte vissuto di debolezza e di umiliazione) la fantasia guidata invita i partecipanti a riattraversare ad un’esperienza personale parzialmente simile a quella in cui si trova il bambino abusato.

 

    Attraverso questo momento formativo, che comprende oltre alla fantasia guidata una successiva elaborazione dei vissuti emotivi e una conseguente elaborazione riflessiva,  i partecipanti possono sentire, capire  e mentalizzare in termini esperienziali e profondi, e non solo superficiali o intellettualistici, la posizione di un soggetto preso dal conflitto tra il bisogno di parlare e la necessità difensiva di tacere.  Possono inoltre verificare come la comunicazione di un soggetto in difficoltà  possa essere scoraggiata dall’atteggiamento di un ascoltatore, preoccupato prevalentemente di scindere la propria funzione tecnica  da quella di aiuto, di marcare le differenze tra il proprio ruolo forense ipostatizzato e il proprio ruolo clinico, in altri termini preoccupato principalmente della propria autotutela professionale e della propria autotutela emotiva.

 
6.  Competenze emotive e relazionali del valutatore

 

 Se consideriamo le quattro aree d’indagine del percorso diagnostico della valutazione di un minore presuntamente abusato[11], possiamo certamente affermare che lo psicologo valutatore necessita di particolari competenze cognitive per acquisire informazioni: a) circa le relazioni familiari che condizionano il minore, b) circa la sua globale strutturazione psicologica, c) circa le sue dichiarazioni verbali; d) circa le sue comunicazioni espressive,  ludiche, testistiche.

Per poter affrontare queste quattro aree d’indagine occorrono infatti conoscenze approfondite sul funzionamento della mente umana e del soggetto in età evolutiva, sulle dinamiche familiari non solo dei nuclei maltrattanti, ma più in generale delle famiglie disfunzionali, sulla sintomatologia, sulle modalità di comunicazione verbale e non verbale dei bambini non solo maltrattati, ma più in generale portatori di un disagio.

Tuttavia appare evidente che nell’addentrarsi in queste aree lo psicologo s’imbatte in una consistente problematica emotiva e relazionale sia nell’oggetto dell’indagine (che consiste soprattutto di dati affettivi e relazionali), sia nella metodologia d’approccio (egli deve ricorrere prevalentemente a procedimenti empatici e comunicativi), sia nel proprio mondo interno (dove vengono sollecitati intensamente sentimenti e difese, vissuti d’identificazione e controidentificazione).

Una tale problematica non può non condizionare fortemente l’intera attività  dello psicologo della valutazione. E’ dunque fondamentale che egli possegga non solo competenze culturali, ma anche specifiche e sperimentate competenze emotive e relazionali.

Le competenze emotive e relazionali sono, per alcuni aspetti, un corredo conseguente alla maturità di una persona, ma per altri versi possono e debbono essere coltivate, diventando oggetto di apprendimento e di formazione in tutte le aree istituzionali e in tutte le organizzazioni del lavoro.

Il possesso di competenze cognitive da un lato e di competenze emotive e relazionali dall’altro dovrebbe caratterizzare ogni attività professionale che implica un rapporto con le persone e con i bambini, ma certamente questa sintesi non dovrebbe risultare estranea all’impegno professionale dello psicologo e dello psicologo della valutazione in particolare.

 

     La concettualizzazione delle competenze emotive e relazionali come distinte dalle competenze cognitive rinvia alla teoria dell’intelligenza emotiva di Daniel Goleman[12]. Cosa afferma questa teoria? In sintesi afferma che lo sviluppo di della capacità di riconoscere e di gestire i sentimenti propri ed altrui può migliorare il benessere degli individui e  la loro possibilità di motivarsi e di realizzarsi,  di comunicare  e di interagire tra loro. L’intelligenza emotiva può inoltre ottimizzare nelle organizzazioni i processi di apprendimento, di acquisizione e di scambio delle informazioni, di elaborazione delle decisioni.

 

E’ massicciamente diffuso nella cultura giudiziaria – e non solo in questa cultura - un pregiudizio negativo nei confronti della vita emotiva, vista  esclusivamente come un fattore di disturbo e di interferenza negativa nei confronti dei processi valutativi e decisionali.  La cultura dell’intelligenza emotiva afferma invece che emozioni e sentimenti sono anche e soprattutto una risorsa.

In ambito giudiziario si tratta, di una risorsa:

a.     con cui  mettere a proprio agio il soggetto coinvolto dall’attività conoscitiva, affinché possa migliorare le proprie possibilità di comunicare e di trasmettere informazioni;

b.     con cui poter decodificare nell’attività valutativa o istruttoria, attraverso la registrazione e l’elaborazione delle proprie emozioni, quali sono le comunicazioni e gli atteggiamenti emotivi dei diversi interlocutori (per es. di sofferenza o di manipolazione, di disponibilità al cambiamento o di negazione delle responsabilità);

c.     con cui poter comprendere adeguatamente nell’attività valutativa o decisionale, attraverso l’empatia, quali sono le situazioni esistenziali e mentali in cui i soggetti adulti e soprattutto i soggetti in età evolutiva si trovano o si sono trovati.

 

Riguardo all’incapacità della cultura giudiziaria di comprendere l’intelligenza emotiva, Piercarlo Pazé ha affermato:  “L’emotività propria del giudice nella gestione di un processo e nella sua decisione può essere respinta ideologicamente dietro gli schemi della imparzialità, della legge formale e delle regole processuali. Il giudice parte dall’apriori che le emozioni viziano il risultato, che l’emotività è un’interferenza , che perciò le funzioni della memoria e dell’attenzione non devono essere inquinate da esse ed egli deve difendersene. Il giudice nega perciò la propria emotività liquidandola come irrazionale: i sentimenti, le relazioni, le logiche affettive vengono isolati ed espunti, mentre diviene rilevante solo ciò che è fattuale”[13]

 

Ma il giudice rischia così di dimenticare che la percezione dei fatti, sulla quale dichiara di concentrare la propria indagine, risente inevitabilmente di schemi e di atteggiamenti, condizionati proprio da quelle emozioni che non intende riconoscere e mentalizzare.  L’illusoria posizione di dominio, superiorità e distacco nei confronti delle emozioni, posizione dalla quale il giudice s’illude di cogliere pienamente l’oggettività fattuale, si converte in una subalternità inconsapevole a pressioni  emotive non pensate e, dunque, non padroneggiate.

 

Certamente le emozioni possono anche risultare un fattore di disturbo che interferisce con i processi conoscitivi o con le funzioni dell’Io razionale. Questo rischio tuttavia si verifica a ben vedere proprio come conseguenza di un mancato riconoscimento e di una mancata elaborazione della vita emotiva. Si considerino per es. la rabbia o il fastidio che ci possono in effetti sfuggire di mano disturbando la nostra attività razionale o valutativa.  L’interferenza negativa dei vissuti di rabbia o di fastidio può derivare proprio dal fatto che, non avendo dialogato con questi sentimenti, non avendone riconosciuto le ragioni, viene a determinarsi una situazione mentale in base a cui la rabbia accumulata e rimossa finisce per produrre uno scatto di nervi incontrollato e inopportuno oppure il fastidio non mentalizzato finisce per sollecitare un atteggiamento d’antipatia che interferisce con la serena valutazione  dei fatti e delle persone. Tanto più l’osservatore di vicende umane nega la presenza  delle proprie e delle altrui emozioni, tanto più queste ultime possono condizionare l’osservatore stesso e possono irrompere con effetti distorcenti nel sua attività di indagine. Viceversa tanto più l’osservatore riconosce l’importanza delle emozioni soggettive e di quelle  altrui, tanto più, dunque, si distacca da un ideale illusorio di neutralità e di obiettività, tanto meno  le emozioni potranno interferire  negativamente nella sua attività di conoscenza e di valutazione della realtà.

Va precisato che esiste un controllo delle emozioni, rigido e nevrotico, risultato di un’attivazione di meccanismi difensivi quali la rimozione, la negazione, la razionalizzazione  ed esiste invece un controllo delle emozioni che nasce dallo sviluppo dell’intelligenza emotiva, un controllo che è il risultato di un esercizio di dialogo e di consapevolezza nei confronti dei sentimenti. Il primo genera una situazione tendenzialmente instabile e conflittuale: il controllo risulta precario, in quanto c’è il rischio di un ritorno incontrollato delle emozioni, mal integrate e mal gestite. Il secondo invece produce una mentalizzazione e un padroneggiamento consapevole delle emozioni.

 
7. L’illusione di osservare e la Psicologia Forense

 

Lo psicologo valutatore deve tenere presente nel proprio lavoro di diagnosi o di ascolto della deposizione del piccolo testimone tutti quegli aspetti di transfert e di controtransfert che inevitabilmente attraversano le relazioni interpersonali (e che certo non vengono meno  in presenza di soggetti che pretenderebbero di cancellarli in nome dell’ideologia dell’osservazione  neutrale). Lo psicologo  deve inoltre essere consapevole della dimensione soggettiva ed emotiva che attraversa la sua attività professionale, cioè deve essere sufficientemente capace di entrare in contatto con il proprio mondo emotivo, registrando le comunicazioni emotive dei suoi interlocutori e riconoscendo le distorsioni del proprio approccio soggettivo[14]. La capacità di sentire quanto accade dentro di noi, e di conseguenza quanto accade nell'altro accanto a noi, ci permette spesso di sciogliere dubbi, di formulare ipotesi, di  comprendere i nodi emotivi che bloccano una testimonianza attendibile o, al contrario, che producono una falsa testimonianza.

   L’aspirazione di molti esperti ad un atteggiamento peritale non inquinato da aspetti emotivi pecca di  ingenuità epistemologica. La pretesa neutralità che si invoca nelle consulenze psicologiche sui minori, quale garanzia di equità del procedimento giudiziario, rappresenta un'ipotesi illusoria perché la soggettività nell’indagine psicologica non può e peraltro non deve essere eliminata. La soggettività potrà essere tenuta sotto controllo consapevole proprio nella misura in cui viene concettualmente riconosciuta come componente ineliminabile dell’osservazione.   L’obiettività e la neutralità nei processi conoscitivi delle scienze umane sono miti che l’epistemologia contemporanea ha ormai decisamente spazzato via.   

 

“Secondo un approccio epistemologico che tenga conto del contributo psicoanalitico, ha scritto Gianni Guasto,  non può darsi conoscenza che non risulti inquinata dall’atto stesso del conoscere: sulla base di ciò, pertanto, non si potrebbe considerare falsa e ideologica qualsiasi indagine che pretendesse di conservare, soprattutto in un ambito tanto connotato da emozioni violente, una fredda e notarile obbiettività, poiché mancherebbe l’elemento irrinunciabile della partecipazione empatica , che fatalmente riapre la porta al coinvolgimento emotivo dell’osservatore”[15]

 

Peraltro il  principio epistemologico della scienza contemporanea in base al quale la conoscenza è condizionato dall’atto e dal metodo del conoscere, è valido non solo per le scienze umane ma anche per le scienze fisiche quando l’osservatore si accosta ad oggetti di conoscenza complessa, addentrandosi nei  regni del microcosmo della materia e del megalocosmo del grande spazio. 

In questi campi il risultato della conoscenza non è mai oggettivo, assoluto è sempre relativo alla posizione soggettiva dell’osservatore, alle sue coordinate spazio-temporali,  agli strumenti di osservazione utilizzati.   Tutto questo non deve portare alla convinzione pessimistica, in base a cui qualsiasi  significativa conoscenza debba  risultare impossibile e non si possa far altro che giungere ad un rassegnato relativismo gnoseologico per cui tutto sarebbe vero e niente sarebbe falso. Sicuramente dobbiamo maturare una visione più realistica e complessa dei processi conoscitivi nella consapevolezza che il riconoscimento e l’elaborazione delle componenti emotive e soggettive dell’adulto che si avvicina ad un bambino a disagio o presuntamente abusato possono aiutarci a migliorare i percorsi d’indagine e a comprendere maggiormente le comunicazioni e le problematiche di quel bambino.

Ha scritto Franco Borgogno: “Il carattere vitale e trasformativo dell’oggetto di conoscenza promuove nell’osservatore angoscia, perché lo implica direttamente e gli richiede una messa in questione a livello di identità. L’osservatore è pertanto portato ad evitare la relazione e l’accoppiamento tra il sé e l’oggetto, privilegiando metodologie che dell’oggetto esplorano un aspetto morto o ideale.” [16]

 Questa affermazione è contenuta in un libro dal titolo significativo: “L’illusione di osservare”. L’autore allude alla credenza non realistica, che si ritrova nell’osservatore, di poter osservare l’altro essere umano senza fare i conti con il proprio coinvolgimento soggettivo ed emotivo.   La critica a quest’illusione, che risulta fondata se riferita per qualsiasi indagine relativa al campo delle scienze umane, diventa poi particolarmente vera se l’oggetto dell’indagine è un bambino e per di più un bambino sofferente.  L’osservatore in questo caso a maggior ragione si sente messo in questione a livello della propria identità, chiamato in causa emotivamente dall’oggetto della sua indagine, sollecitato nelle proprie istanze infantili ed adulte, nelle proprie componenti soggettive che rinviano al ruolo di vittima e di persecutore, nelle proprie potenzialità di testimone non soccorrevole e di testimone soccorrevole.

Essendo più coinvolgente l’oggetto dell’osservazione, maggiore sarà l’angoscia che deriva all’osservatore e più forte la tentazione di ricorrere a processi di distanziamento difensivo dall’interazione.  Con questi movimenti psichici è possibile tentare di interpretare la logica “scientifica” e metodologica che sta alla base della cosiddetta Psicologia Forense.

L’osservatore è spinto difensivamente ad esaltare gli aspetti tecnici del processo conoscitivo a scapito degli aspetti relazionali. Tende inoltre ad evitare modalità conoscitive che consentono di avvicinarsi agli aspetti vivi ed emotivi dell’oggetto (per es. le modalità fondate sull’empatia), privilegiando invece “metodologie che dell’oggetto esplorano un aspetto morto o ideale” (si pensi ad un certo uso delle tecniche di osservazione o testistiche che tendono a sostituirsi alla comunicazione interpersonale con l’interlocutore e che trattano la persona da valutare come se fosse un minerale o un vegetale o si pensi all’impostazione tecnicistica ed asettica del colloquio che parte dal presupposto di una capacità ideale del bambino di rendere testimonianza indipendentemente dal contenimento empatico e comprensivo del suo intervistatore).  

   

8. Soggettività  ed equanimità

 

L’indagine psicologica presuppone l’incontro tra due soggetti umani certamente diversi: un adulto ed un bambino; un soggetto portatore di competenze di incerta consistenza e un soggetto portatore di sofferenza di incerta origine;  un soggetto che dichiara l’intenzione di  comprendere e un soggetto che ha un bisogno vitale di essere compreso; un professionista che inevitabilmente persegue, in qualche misura, obiettivi  di autotutela professionale e un bambino che dall’altra parte formula in qualche modo una domanda di tutela della propria vita.

 

La conoscenza che emerge da questo incontro è sempre comunque relativa non già all’oggettività del bambino indagato, ma all’interazione, più o meno adeguata che sia, tra il soggetto e l’oggetto dell’indagine.    

“Dall’accertamento sulla personalità non è emerso nulla che faccia pensare ad abuso o maltrattamento”    La suddetta affermazione, che compare non di rado nelle conclusioni di una relazione peritale, relativa ad una valutazione di personalità di un minore oggetto di una presunta violenza, sovente è la conseguenza di un atteggiamento dello psicologo valutatore che non ha creato le condizioni emotive e relazionali per permettere al bambino di far emergere comunicazioni significative relative all’abuso oppure è la conseguenza di un’incapacità da parte dello psicologo di mentalizzare l’ipotesi dell’abuso pur in presenza di segnali, magari ambigui e confusi, che potevano consentire quell’ipotesi.

Tali segnali finiranno per non essere oggetto di un approfondimento, se l’ipotesi dell’abuso risulta a  priori impensabile. 

 

“Non è emerso nulla che faccia pensare ad abuso”. Dunque lo psicologo non ha potuto nel corso del suo esame  pensare all’abuso: ma non ha potuto farlo perché veramente le comunicazioni del bambino non gliene hanno dato lo spunto e la possibilità o perché nella sua mente non esiste la capacità di formulare l’ipotesi dell’abuso, benché alcuni indicatori consentirebbero una tale ipotesi? 

Una bambina di quattro anni, Federica,  in un colloquio di valutazione dell’attendibilità delle sue dichiarazioni inerenti ad un abuso subito dal padre s’avvicina allo psicologo maschio chiedendogli per ben due volte: “Vuoi fae amoe?” Il consulente del giudice evita di farsi coinvolgere dall’interazione con la bambina, non approfondisce la sua richiesta: non le chiede per es. “cosa vuol dire ‘fae amoe’?”, per poter favorire ulteriori precisazioni della sua interlocutrice. Lo psicologo  mira così a garantire la propria autotela emotiva, evitando di avvicinarsi ad una problematica angosciante e ad un transfert che potrebbe essere erotizzato. Nel contempo egli mira a garantirsi anche la propria autotutela professionale. Per uno psicologo che si occupa di perizie giudiziarie è sempre più rischioso sul piano professionale   prendere sul serio una rivelazione di abuso,  piuttosto del contrario.  Ottimale è evitare di compromettersi, usando formule con cui si afferma che non sono emersi indicatori per sostenere l’ipotesi di abuso, senza per questo escluderla.  

Nel caso specifico Federica è una bambina portatrice di un ritardo mentale e linguistico. Considerare attendibile e credibile una bambina in queste condizioni, significherebbe a maggior ragione esporsi a forti critiche e perplessità e rischiare di far dubitare della propria professionalità, costruita su un un’immagine rigorosa e “scientifica” di esperto, sempre pronto ad individuare, nelle valutazioni relative ad un sospetto abuso, bambini bugiardi e madri inducenti e magari a concludere affermando che “dall’accertamento sulla personalità non è emerso nulla che faccia pensare ad abuso o maltrattamento.”

 

A ben vedere una simile conclusione postula che dall’indagine nulla sia emerso, a partire non tanto dall’oggettività dell’indagato, quanto piuttosto dall’interazione, soggettivamente condizionata,  tra indagatore e indagato.

In molti casi, come in quello che abbiamo citato di Federica il dato che “nulla sia emerso” può dipendere dall’atteggiamento mentale, relazionale, tecnico con cui il valutatore si è rapportato all’oggetto della sua valutazione, dalla sua indisponibilità ad ascoltare, piuttosto che dall’incapacità del bambino di far emergere segnali attinenti all’abuso.

In genere a fronte di un esito positivo della verifica dell’ipotesi di un abuso sessuale ai danni di un minore, si trova sempre qualcuno pronto ad affermare  che la soggettività dello psicologo ha inciso suggestivamente sull’esito della valutazione.  Nel caso opposto, quando nell’esame psicologico l’abuso non viene accertato, la soggettività dello psicologo tende invece, quasi sempre, ad essere dimenticata come variabile distorcente.   Dal momento che un bambino maltrattato può esprimersi con autenticità solo all’interno di un determinato ambiente relazionale ed emotivo, capace di consentire l’ascolto, a fronte di un esito negativo della verifica dell’ipotesi dell’abuso, è sempre corretto non escludere l’ipotesi che il valutatore non abbia saputo costruire quell’ambiente e abbia fatto barriera all’ascolto.

 

Nel processo conoscitivo che si costruisce nelle scienze umane l’obiettività rappresenta un mito illusorio e deresponsabilizzante, perché la soggettività dell’osservatore è comunque una variabile che va ad incidere nel risultato conoscitivo ed allora, è indispensabile, per poter essere veramente scientifici, ammettere l’esistenza di questi aspetti soggettivi, imparare a tenerne conto, per evitare di farsene condizionare.

 

Se l’idea di un’indagine obiettiva e neutrale è un’illusione, se non addirittura una mistificazione, non per questo risulta impraticabile da parte dello psicologo l’impegno a fornire alle parti processuali garanzie di correttezza e di imparzialità.

Il concetto di psicologo obiettivo, inteso come esperto che si pone al di sopra di aspetti soggettivi propri ed altrui,  è epistemologicamente un assurdo in un processo di indagine e di conoscenza di un soggetto umano nei confronti di altri  soggetti umani. 

Accanto all’idea di obiettività si propone spesso nella cultura giudiziaria l’idea di equilibrio.  Ora, il concetto di psicologo equilibrato fa pensare  etimologicamente ad un esperto portatore di una competenza centrata sul controllo razionale piuttosto che di competenze emotive e relazionali. 

La parola equilibrio rinvia infatti, etimologicamente, all’equa bilancia, (equa libbra),  al giusto peso che va posto in entrambi i piatti della bilancia.  In questo senso il valutatore dovrà essere attento e  lucido razionalmente nella misurazione e nel calcolo.    Dunque  cosa dovrà fare in primis  lo psicologo della valutazione?  Forse che il suo compito prioritario sarà quello di quotare con scrupolo e precisione  l’F% nel Rorschach, i punteggi dei test o le scale di misurazione della credibilità dei contenuti della narrazione? Il concetto di equilibrio rinvia dunque ad un’idea superata di intelligenza valutativa.

    Se invece, come crediamo,  il compito prioritario dello psicologo nel valutare la personalità di un minore presuntamente abusato, è soprattutto quello di stabilire una buona relazione interpersonale e un adeguato  rapporto con il mondo dei sentimenti, propri ed altrui,  egli dovrà possedere un’imparzialità garantita non solo dall’attenzione e dall’intelligenza in senso tradizionale, ma anche e soprattutto dall’intelligenza emotiva.

Dovrà essere in altri termini uno psicologo equanime, capace di rapportarsi in modo corretto e consapevole con il proprio animo e  con gli stati di animo, propri ed altrui, con se stesso e con le persone con cui entra in relazione. 

Equanimità è un concetto profondo ed impegnativo: prevede un  rapporto con la propria mente, con il proprio animo profondo, non solo con una bilancia esterna. Il concetto di equanimità  è stato elaborato dalla psicologia orientale, in particolare dalla psicologia buddista[17] ed implica un allenamento costante nell’esercizio di consapevolezza.

   L’equanimità rinvia alla capacità di prendere sul serio la propria vita emotiva perché la vita emotiva è lo strumento principale per conoscere e decodificare la sofferenza altrui, ma implica anche la capacità di controllare in modo sano la propria vita emotiva, non sviluppando un attaccamento eccessivo a noi stessi, ai nostri pregiudizi, alle nostre ipotesi, restando così aperti e disponibili a tollerare la realtà e l’alterità in tutte le sue forme, anche quelle più perverse e intollerabili, che la mente tenderebbe a rifiutare.

In conclusione la pretesa di essere al di sopra delle parti emotive che attraversano i processi conoscitivi non produce imparzialità, ma una visione molto  parziale della realtà.

   Un atteggiamento di freddezza e di distacco, giustificato da ragioni tecniche di neutralità finisce per risultare assai poco neutrale, in quanto oggettivamente finisce per favorire la parte degli adulti, non aiutando la parte del bambino a mettere in parola il proprio punto di vista.

   Ciò che fornisce garanzie alle parti interessate al processo non è la presenza illusoria di un osservatore che si autoproclama obiettivo e neutrale, bensì quella di un clinico equanime, competente dal punto di vista cognitivo, ma anche e soprattutto dal punto di vista emotivo e relazionale.


 


[1]Intervento al Corso di formazione “Giudice penale e giudice minorile di fronte all’abuso sessuale”, C.S.M. Roma, 17-19 settembre 2001.

 

[2] E. Fassone, “Prospettive di riforma dell’ordinamento penitenziario e della pena in generale” in AA.VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1974, p.255

 

[3] E. Wolf (1988), La cura del Sé,  Astrolabio, Ubaldini, Roma, 1993, pp.43-48.

[4] H. Kohut (1978), La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, 1982, p. 31

[5] ivi, p.26.

[6] ivi, pp.27 –28.

[7] Cfr. C. Foti, C. Roccia, M, Rostagno, C’era un bambino che non era ascoltato,  Centro Studi Hansel e Gretel, 1992; il testo verrà ripubblicato nel 2002 in edizione riveduta e ampliata nella collana Dalla parte dell’infanzia della Angeli, Milano.

[8] Ho approfondito questi aspetti in C. Foti, “La valutazione dell’attendibilità del minore presunta vittima di abuso sessuale”, in Minorigiustizia, n. 1, ‘98

[9] G. Gulotta, La diagnosi abusante. Le domande che non sono domande, in C. Foti (a cura di), L’ascolto dell’abuso e l’abuso nell’ascolto, Angeli, 2002. 

[10] J. Gottmann, L’intelligenza emotiva per un figlio, Rizzoli, 1977

[11] M. Malacrea, “L’intervento psicologico nell’abuso sessuale all’infanzia”, in … E poi disse che avevo sognato, R. Luberti, D. Bianchi (a cura di), Edizioni Cultura Pace, Firenze

[12] D. Goleman, L’intelligenza emotiva, Rizzoli, 1996.

[13] P. Pazé, intervento al Convegno “L’intelligenza emotiva”, organizzato da Rompere il silenzio e dal Centro Studi Hansel e Gretel, Torino 10 ottobre 1999, atti in corso di pubblicazione

 

[14] Alcune idee di questo paragrafo sono ricavate da un testo di C. Roccia e G. Guasto che comparirà nel testo citato C. Foti (a cura di), L’ascolto dell’abuso e l’abuso nell’ascolto, Angeli, 2002.

[15] cfr. G. Guasto, “Il trave e la pagliuzza: le emozioni del consulente tecnico di fronte al minore abusato” in Minorigiustizia, 2, 1998, pp.52-61.

[16] F. Borgogno, L’illusione di osservare, Giappicchelli, Torino, 1978, p. 23  e sgg.

[17] D. Goleman, La forza della meditazione, Rizzoli, 1997.