L’Etnos, l’Eros ed il Pathos nelle opere del G4
Ci cimentiamo in un esperimento di auto-recensione. Come al solito bisogna scoprire dove finisce la serietà ed inizia l'ironia.
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Si fa presto a dire che i componenti del G4 sono “artisti”, è troppo sbrigativo liquidare le loro opere con commenti critici che echeggiano i pensieri di Ugo Moretti, Luigi Servolini, Loriano Domenici, Fosco Monti e Rita Santuari. I quattro del G4 vanno visti da vicino, con una lente d’ingrandimento ideale, occorre cercare con attenzione nelle loro opere ciò che credevamo assente, bisogna grattare la crosta, come in un restauro, e vi scopriremo documenti preziosi, espressioni di profonda ricerca nell’animo umano e nella realtà quotidiana. Umberto non lo nega; i suoi lavori si rifanno all’arte spontanea,
ai graffiti preistorici, all’etnos originale. Egli ne afferra il
senso e lo sviluppa attraverso una serie di arabeschi che vanno
di quadro in quadro, di opera in opera, a formare la storia del
mondo. Ha cominciato a scrivere la storia di 10.000 anni fa, ci
vorranno ancora due o tre lustri di lavoro per giungere ai giorni
nostri, ma noi lo aspetteremo attenti. Naturalmente anche l’eros
fa parte della storia dell’uomo e Croce lo narra con inaudito coinvolgimento,
basta seguire le volute arrotondate del suo segno per scoprirvi
il risultato di un connubio di sentimento ed erotismo, la
violenza primordiale che nella bestialità è temperata
da un affetto che l’uomo non sapeva ancora chiamare amore. Nei suoi
disegni le palle non mancano, soli o lune che guardano l’alba di
una civiltà. Il pathos che esprimono ci cattura.
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Leonardo, da vero amante della natura, è un artista sensuale. Nei suoi quadri è evidente l’identificazione del fiore con la sensualità, con l’eros. Inutile il tentativo di sollevarlo in volo, quasi tendendo al cielo (cfr. Venezia, ponte di Rialto, piastrella marmorea raffigurante un sesso con le ali), vi affiora l’intenzione di mirare al paradiso. Col pennello accarezza i colori, dipinge nelle sue marine le forme di una ragazza coricata: i seni sodi, acerbi, sono monti di sabbia dove il vento disegna capezzoli bizzarri, il ventre incavato è un passaggio dove un’orma segna l’impronta dell’ ombelico. Lo scopro mentre dipinge un ciuffo d’erba tra le cosce robuste e le ginocchia come creste salmastre oltre le quali si indovina l’oceano senza fine. Mi dice “Toh, un me n’ero manco accorto!”. Poi le chiama “dune”. Avrei voluto vederlo qualche anno fa, quando con la spatola violentava le tele e spremeva i colori a cercare le origini della luce, la nascita della natura, il primo apparire della vita e finalmente l’uomo, la donna, l’etnos. Confessa, il Tarrini, che pur dipingendo dal vero, non sempre ritrae la natura com’è, talvolta la ricrea con un collage rispettoso, senza malizia, ma interpretandone luci ed ombre, scambiandone prospetti e sfondi. Questa operazione, non scevra di pericoli, gli richiede una gran dose di abilità e di sentimento, di tecnica e di realismo. E’ un lirico, Leonardo, pur capace di espressioni cromatiche, che ritroviamo soprattutto nei suoi paesaggi dipinti a spatola e nelle sue marine più recenti, al limite della realtà che, proprio per questo, ci fanno sussultare di una emozione inattesa, ci fanno cercare, oltre il dipinto, il pathos. Non vi è di apparente, nelle opere monocromatiche di Arturo, altro che un rigore geometrico e stilistico, nulla che possa far presagire l’espressione vibrante dell’eros che si scorge nelle incisioni più recenti, dove il colore deve predominare sul segno. Nella semplicità del tratto l’animo dell’artista libera finalmente la sua capacità espressiva. Allora le chele dei granchi in amore sono urla di passione, spasimi umanizzati di turgore affannoso, lo spaventapasseri cela sotto il mantello illuminato di luce lunare nudità sconvolgenti, violenze da uomo-lupo. Prendiamo ancora il suo gabbiano. Il disegno è essenziale, ma la scelta del colore, il gabbiano color di cielo su uno sfondo color terra, non può che significare che il punto di vista dell’osservatore è ancora più in alto e l’uccello è visto stagliato contro un distesa di scogli, chiarissima allegoria di Adamo che fugge con Eva dal paradiso terrestre. Ecco allora che l’artista si riconduce all’etnos, all’origine di tutte le razze animali ed umane, quando tutto si confonde in un unico grande alito del creatore. Che dire del pathos che emana dalle sue rappresentazioni della natura, grandi alberi, vivi di luci ed ombre, ma sempre accompagnati da una assenza: una panchina vuota, un grande tavolo con una sedia vuota. Una diaspora, sono usciti tutti… e l’ultimo spenga la luce.
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