Parigi.
 

-LI-

 

 

   La sera del nove agosto Paul mi accompagnò a Parigi, e il mattino del giorno dopo già facevo visita ad Ahasvero nella sua nuova casa, con il suo nuovo nome e il suo nuovo volto.
Mi sembrò che avesse preparato una formidabile "messa in scena", perché volle venirmi a prendere all'uscita del Metrò, a Place Monge, e mentre io risalivo alla superficie della terra nel lungo tunnel della scala mobile, lui mi appariva là in cima, circonfuso della luce verde smeraldo dei grandi alberi della piazza sotto il sole.
Era vestito con un completo azzurro chiaro, di cotone leggero; una camicia a righine blu, vecchio stile, senza cravatta, mocassini e berretto bianchi. Aveva l'aria tipica di un colono israeliano anni ësessanta, piuttosto abbronzato, tozzo, solidissimo e con la sigaretta eternamente in mano.
«Ma non fumavi la pipa?»
«Troppe pipe in tasca: d'estate non ho tasche a sufficienza. Meglio due o tre pacchetti di sigarette: è più pratico.»
«Conosco il problema: si tira il fumo dalla pipa con tanta velocità che a metà fumata hai la lingua ustionata e la pipa piena d'acqua di condensa; allora cominci a fumarne trenta al giorno, e non hai più tasche per mettercele tutte. Viva l'invenzione della sigaretta!»
«Com'è andata col tuo Generale?»
«Voleva a tutti i costi convertirmi alla vera fede.»
«Ma era un Generale o un Cardinale?»
«Credo di aver capito che c'è poca differenza. Ma tu dimmi: come stai? Non so se riuscirò tanto facilmente a ricordarmi di chiamarti Jean!»
«Devi! Io sono sempre stato Jean: non vedi? Mi veste benissimo! Ho proprio la piega della bocca... vedi: questa, che sembra dire Je m'appelle Jean... che perfezione!»
«Oh... oui! Messieur Jean Gabin!»
«Beh... Jean Cocteau, piuttosto. Merci beaucoup, mon ami!», mimò con l'inchino.
Entrai nel suo nuovo appartamento: era molto elegante, anche se era nulla più che il solito arredamento rifinito dall'architetto, senza nessun oggetto personale, né foto, né libri, né altro. Gli dissi che trovavo triste questo suo dover sempre vivere in quella specie di albergo in stile internazionale, ovunque andasse.
«No, assolutamente no, amico mio! E poi, questa volta c'è pure qualcosa che mi sono comprato io: tu lo troverai forse un po' esagerato, ma mi sono comperato questa scultura!»
E mi mostrò un grande blocco di marmo di Carrara, quasi sferico, su cui erano scolpite a bassorilievo numerose figure umane nude e intersecanti, come fatte fondere al calore di un fuoco infernale. Lo trovai affascinante, dopotutto, e gli chiesi cos'era.
«È un Salvatore Gallo; una delle sue ultime sculture: Treblinka! Rappresenta la massa di corpi compressa nella macchina globale... o qualcosa del genere. Quando la vidi la prima volta lui mi spiegò che voleva scolpire i corpi e le anime ammassati in un angolo remoto del forno crematorio... no, aspetta, aveva detto "della camera a gas"... sì, così. Insomma, un agglomerato di carne, ossa e disperazione, come a diventare un corpo unico e una sola anima di fronte agli uomini. Non ho fatto in tempo a chiedergli perché non l'aveva intitolata, piuttosto, Auschwitz...»
«È agghiacciante...»
«Sì, ammetto... e anche molto pesante. Ma guarda questi...»
E prese dal tavolino due scatoline rivestite di velluto blu scuro; dentro c'erano alcuni minuscoli omini di materia opaca, dura e bianca, in pose fortemente pornografiche.
«Non li trovi carini?»
«Cos'è, lo spirito parigino del quale ti avevo detto di diffidare?»
«No, sono altre due sculture di Salvatore Gallo: queste sono in porcellana, che lui ha lavorato come fosse creta... mi spiegava che con la porcellana era praticamente impossibile realizzare nulla che fosse più spesso di pochi millimetri, e così era affascinato dalla possibilità di riuscire a fabbricare queste statuette, visto che riuscivano ad arrivare a uno spessore di cinque o sei millimetri: una vera e propria soddisfazione erotica totale, nel suo lavoro!»
«Bene, se ti piacciono... questo mi fa pensare che, se non altro, ti senti un po' più stabile di quanto non fosse a Vienna, visto che ti metti in casa questi tre o quattro quintali di marmo. Io, invece, sono una specie di zingaro, in questi mesi; vorrei farti leggere delle cose che ho scritto, ma qui a Parigi non ho una stampante per farle uscire dal computer e dartele...»
«Ma non me le puoi leggere tu, direttamente dal computer?»
«...Sì, certo...»
Così aprii questo libro elettronico, e cominciai a leggere in quella stanza, come facevano i monaci medioevali dagli alti leggii, misurando l'ambiente con voce impostata e monotona. Lui ascoltava con aria severa, preparando il caffé, versandolo nelle tazze, gustandolo di fronte alla bella finestra che incorniciava i tetti parigini e, a pochi passi di distanza, la Place Monge con i suoi grandi alberi.
Quando finii la lettura della "Coscienza del musicista", prese un lungo fiato e cominciò a parlarmi.
«Ma a chi l'hai indirizzato, questo scritto?»
«Beh, un po' a tutti... certo non direttamente al verduriere arabo che ho visto qua sotto in strada! Insomma, a chi dalla musica classica si aspetta qualcosa di più d'un sottofondo adatto a mangiare in un ristorante di lusso...»
«Sì, d'accordo, ma non hai bisogno di andar fino in Arabia; tu pretendi troppo dalla gente: la musica è "quel compositore" o "quell'altro", l'emozione che ti da, le belle cose che sa evocare. Tu parli di una musica che nessuno ha interesse o voglia di ascoltare; quante volte hai scritto, o detto, la parola "ineffabile"? Troppe! Ineffabile si dice per generare un'emozione fugace, estatica; poi, se lo dici di nuovo tre volte, viene a noia. Ora: a te interessa scrivere per comunicare, o cos'altro?»
«Per comunicare... credo.»
«Allora così non comunichi un granché. La parola complessa non comunica un bel niente: entra nel cervello di colui che sta cercando di essere più intelligente di te, quando cerca materiale per raccontare la sua favola; quindi tu non comunichi a lui: gli offri, semmai, qualche parola o idea in più da usare come sua. Se invece vuoi comunicare a dei "tecnici" devi essere assolutamente lì solo per loro, con parole che capiscono esclusivamente quando vengono tradotte in tutte le loro accezioni specialistiche: se tu scrivi così come scrivi, allora, sei intraducibile. Ti stai infilando in un labirinto di parole, Claudio! Per parlare è sempre più indispensabile usare una tecnica dialettica specifica e specializzata, e naturalmente diventa sempre più difficile, e più lento, il far comunicare fra loro le diverse discipline, trovare connessioni e sinergie; ma il mondo ha troppe cose da dire, da scrivere e da leggere, e così non c'è più scelta: se scrivi fuor dalle regole nessuno può più usare quel che hai scritto. Allora è meglio suonar musica, o dipingere, o scolpire, o pregare...»
«Temo che tu abbia ragione... solo che... io sento il bisogno insistente di scrivere per spiegarmi delle cose.»
«Questa è un'altra faccenda. Scrivere è comunque sempre il tentativo di trovare o di formulare quello che non sappiamo, o che sappiamo male. Serve comunque a noi stessi. E poi, quando saremo nella tomba... quel che abbiamo scritto o quel che abbiamo cantato... è tutto uguale...»
«...No, aspetta un momento! Io non mi posso permettere queste sciocchezze! Se devo scrivere lo farò a tempo debito, quando avrò capito in quale modo posso rendere il mio scritto qualcosa che "cammina" nel mondo, fra le diverse intelligenze, ma non posso permettermi di pensare "tanto quando saremo morti tutto tacerà"!»
«Va bene, va bene; tu hai ideali più alti, e una fiducia nell'umanità, che io non riesco più a reggere: sono troppo vecchio. Dimmi piuttosto una cosa: ti piace lo sport?»
«No: è la cosa che detesto maggiormente al mondo, fin da quando ero bambino.»
«Vedi? La maggior parte dell'umanità, invece, occupa con lo sport una bella parte del suo cervello e del tempo della sua vita!»
«Me ne rendo conto; credo che sia quella la ragione per cui l'ho sempre trovato detestabile e insopportabile.»
«Ma non puoi ignorarlo, se vuoi comunicare!»
«Perché no?»
«Guardati intorno: un violoncellista diventa famoso e ascoltato, perché ha vinto una "gara sportiva" con altri violoncellisti! È questione di competizione, di agonismo! Non te ne rendi conto?»
«Ripeto: me ne rendo conto perfettamente, ed è la ragione per cui odio lo sport e sopporto male il mondo!»
«Peggio per te! È così per tutti: uno scrittore, un uomo politico, un uomo qualunque; tutti sono ascoltati o ignorati a seconda della loro capacità di vincere una gara. La gente si identifica solo con i vincitori: se non ti riconosce come tale, non si fida: teme che tu gli possa comunicare o trasmettere il "gene" dell'insuccesso, o del fallimento... puoi essere un eroe famoso e ammirato, ma, attento! osserva bene: puoi anche essere una vittima famosa e ammirata! Purché ex-vittima. Puoi diventare famoso, e anche ricco, se vuoi, perché sei stato una vittima sacrificale, o un dannato, perseguitato, maltrattato dagli uomini o dal destino, o da Dio in persona!»
«Ma cosa dovrei fare, allora?»
«Credere in qualcosa che si tiene a dovuta distanza dalle parole, Claudio! È vero: non c'è assolutamente niente da dire che non si già stato detto e inseguito dal suo commentario, e per ogni cosa detta e commentata è stato detto e commentato anche il suo contrario. L'intelligenza è solo arte della variazione, per riscontrare il nuovo nel già detto, o dell'invenzione per scovare ogni volta l'invece, il contrario di ciò che si è abituati a credere. Credi solo nelle azioni, Claudio, o negli atti, se preferisci. Ma non andare oltre: è un labirinto di follia!»
«...Non ci capisco più nulla... ascolta, Hans... scusami: Jean...»
«Chiamami pure Ahasverus, se vuoi, in casa mia non ha importanza...»
«Sì, beh... Jean è meglio. Se tu ti ritieni troppo anziano per sentirti responsabile di quello che dici, io posso ben concederti il diritto di mettere a riposo la tua intelligenza, e rilassarti con le leggerezze disponibili nel mondo per quelli della tua età. Questo mi delude, ma... pazienza! Però io ho necessità di una disciplina - e mi sembrava che tu me lo facessi notare, giudicando il mio scritto - e solo con una disciplina ha senso parlare e comunicare di argomenti un po' al di sopra del comune senso dell'esistenza.»
«Ecco la lezione del Generale! Mi sembrava strano che te ne fossi uscito solo con una predica sulla tua religione!»
«Ma non avrei certo avuto bisogno di entrare nell'Esercito, per ricordarmi della disciplina! Suonare il violoncello, da solista come da orchestrale, è un fatto innanzitutto di disciplina, senza la quale la professione è impossibile! Dopo qualche anno avresti malattie professionali inabilitanti: scoliosi, tendiniti!»
«Infatti i tuoi colleghi risolvono il problema con lo sport, i fisioterapisti, il puntale sotto il violoncello, le corde strettamente solo di affidabile metallo, il repertorio accuratamente selezionato, e la tecnica violoncellistica moderna che tu rifiuti e aborrisci...»
«Una volta di più: certo! Questa è una delle principali ragioni per cui suono in modo obsoleto, antiquato e inattuale! È persino la ragione per cui devo prepararmi le corde da solo!»
«Cos'è che ti prepari?! Le tue corde di budello?»
«Sì, il budello industriale serve solo a insaccare carne tritata per farci salami. O a far suonare quelli che si accontentano di "guardare" uno strumento per poterne sentire il "suono filologico"...»
«Ah, questa, poi! Non me la sarei immaginata... ma non esiste veramente più nessuno che le fabbrichi in modo adatto, o almeno accettabile?»
«Io ho provato a chiedere a degli artigiani di seguire i metodi antichi, così come sono descritti in numerosi documenti d'epoca, e loro mi hanno chiesto se ero pazzo oppure stupido: pazzo perché sarebbe costato una follia, stupido perché, secondo un'ottica strettamente scientifica, le lavorazioni più lunghe e costose dei metodi antichi non dovrebbero produrre niente di visibile o riscontrabile dal punto di vista fisico-chimico! Magnifico! Allora, per conseguenza di ciò, ovvero della mia stupidità e pazzia, io prendo i budelli, e per otto giorni li sottopongo a solforazione, occupandomene fra uno Studio di Popper e un Capriccio di Piatti, o una trascrizione musicale, o la lettura di un libro, o la scrittura di qualche lettera utile a far concerti e di qualche altra inutile a far capire quel che io credo essere la musica; e dopo otto giorni le corde sembrano essere assolutamente uguali a quel che già erano diventate dopo solo due o tre ore ai vapori di zolfo. Ma io no: io sono cambiato durante quella solforazione! e sono pronto per suonare con quelle corde "alchemiche"! Alla faccia del fisico, del chimico, del sano, affidabile e sereno violoncellista moderno e dell'euforico e illuminato sportivo!!»
«Calma, calma!... Dio, quanta rabbia, povero amico mio... mi dispiace, devo aver toccato qualche "corda" sbagliata... però, che lavoro incredibile!»
«Non hai idea! E nella più totale solitudine! Eppure il segreto è solo là, in queste cose, e non altrove!»
«Ma quando è cominciata, questa faccenda delle tue corde?»
«Dieci anni fa...»
«E perché?»
«È stato quando ho capito, con certezza, che dalla fine del Rinascimento ai primi del Settecento, si usavano corde appesantite con metalli. Ma non con filo di argento o rame avvolto sul budello: quella gente intendeva veramente parlare di metallo "disciolto" nella materia organica e fibrosa del budello!»
«E in che modo è possibile far questo?»
«In che modo? Nessuno l'ha ancora capito, ma i quadri dell'epoca sono ovunque, spesso dipinti con precisione maniacale nei dettagli, a testimoniare che sugli strumenti musicali cordofoni c'erano budelli del normale color giallo che caratterizza una corda naturale, uniti a corde per i Bassi di colore rosso scuro, e di una lunghezza e spessore tale che non potrebbero dare alcun suono convincente o accettabile se non fossero, appunto, appesantite con metallo. E noi abbiamo la certezza storica, documentata, che l'introduzione della filatura in argento o rame risale solamente alla metà del Seicento. Sappiamo pure che nella Venezia nel Rinascimento, col segreto di quel colore rosso ci appesantivano la seta che, appunto, vendevano a "peso"...»
«Non mi stupisce affatto... che mercanti formidabili! Un chilo di seta bianca che diventa due chili di seta rossa! Geniale! Sei stato tu a scoprire queste notizie?»
«No, non sono io l'unico ad essermi accorto di queste cose: ci sono diversi studiosi che hanno fatto ricerche storiche approfondite ed esperimenti per riprodurre corde simili: nel corso degli ultimi dieci anni sono riusciti solo a fabbricare dei "surrogati" plausibili di quelle corde, ma esse continuano a rimanere un mistero, e ciò che oggi si può realizzare con la nostra tecnologia, non ha certamente alcuna corrispondenza con l'antico.»
«Cioè gli antichi le fabbricavano con metodi che noi non riusciamo più a indovinare, vero?»
«...La corda appesantita resta ancora un mistero dell'Alchimia.»
«Bello... è bello questo tuo interesse per l'antichità...»
«Sì, ma noi tutti potremmo almeno muovere qualche passo verso il suo segreto attraverso l'Ottocento, e poi, a passo di gambero, nel Settecento, come faccio io; però, se molti studiosi sono felici di intraprendere per un pochino questo percorso della ricerca, quanto agli artigiani e ai musicisti, nessuno ha voglia né di occuparsene, né di rischiare la "gara" della carriera per una cosa così poco visibile! Capisci?»
«Capisco dove vuoi arrivare: è sempre meglio, e più facile, e più retributivo adorare il vitello d'oro!»
«Esatto!»
 «Ma sì, è naturale; tanto nella realtà non viene nessun dio a farci scomparire in un burrone pieno di fiamme e di lapilli!»
«Certo! E allora, vedi che è solo la disciplina che può reggere tutta la faccenda? Perché se ci mette il naso l'interesse, o il senso della convenienza, o più semplicemente la "Ragione", tutto va in macerie e rovina molto in fretta...»
«Che spirito di servizio! Tutto militare...»
«È così che mi sento, a volte: un soldato...»
«...Ma destinato solo al difendere e preservare improbabili misteri del passato, contro le più forti ragioni della "Ragione"... certo bisogna stare attenti a non pensare troppo con la testa, altrimenti si finisce col darsi del pazzo! Ma io sto dalla tua parte: tu sei un uomo di fede, tu desideri e cerchi solo e fortissimamente la verità storica, quella più vera, più pura, assoluta; in musica e nel violoncello come nella vita e negli uomini... e io ti invidio, perché la fede è qualcosa che non ho, ma che avrei sempre voluto avere, o "desiderare"  anch'io...»
«...Ancora una volta: perché avevi comprato il violoncello? Perché me l'hai dato?»
«È talmente semplice: credevo di redimere la mia anima, di consolare la mia coscienza, di cancellare, o almeno di attutire il mio rimorso per quel che era successo intorno alla mia indifferenza, durante la guerra... quanto a te, ho semplicemente capito subito che forse tu potevi fare tutto ciò che io non ero in grado neppure di cominciare: dal suonare quel violoncello al capirne il significato, o l'autentico valore storico e spirituale.»
«Mi hai detto che ti costò una fortuna.»
«È così: tutto quel che avevo, soldi e anima.»
«Anima?»
«Sì, perché comprandolo pensavo di comprarmi un'anima, ma appena compiuta la transazione, mi accorsi che l'anima era quella che avevo anche prima, ma che ora vedevo dietro alla mole insormontabile dei miei peccati.... irraggiungibile, irrimediabilmente staccata da me, dispersa, perduta...»
«Io credo che tu non abbia disciplina, Hans... cercala, dopo aver compreso quali sono i tuoi limiti, trovala e applicala! Altrimenti continuerà in eterno questo tuo vivere in un limbo di così grande tristezza...»
«Jean, non Hans... ricorda: Jean... ricordati del rischio che io corro per te!»
«Sì sì sì, Hans, Jean, Ahasvero, il Diavolo! Ma è pazzesco! È angoscioso!! Com'è possibile vivere così?!»
«Forse non bisogna avere la tua disciplina...»
«Oh Dio!... Scusami ancora... mi sento così diviso, così angosciato... e poi, io non ho proprio il diritto di insegnarti nulla...»
«No, non direi. Pensa piuttosto che dove c'è bisogno di disciplina c'è ribellione, e viceversa; così i tuoi amici militari sono in un bel cerchio logico, che comunque li rende sicuri della loro utilità sulla terra. Quanto a un violoncello e a un violoncellista, però, la faccenda sembrerebbe diversa. Ma così non è: tu temi la tua ribellione a te stesso, e questa è  la ragione che ti costringe alla tua disciplina, non altra. Uscire da questa illusione di ordine, ora, potrebbe essere per te un atto decisivo, fondamentale per quella tua ricerca di un "modo" per affrontare la missione di cui hai accettato di caricarti.»
«...Ahasvero... tu sei un angelo ribelle?...»
«Curiosa domanda... C'è stato un momento in cui, in un certo senso... sì, lo sono diventato. È stato quando tutto ha cominciato a disfarsi intorno a me: le cose andavano sempre peggio, i miei affari fallivano, mi cadevano sulla testa problemi di ogni tipo... ebbene, questo succedeva proprio dopo aver acquistato il violoncello, come se mi avesse portato un'incredibile sfortuna. Ti confesso che ho passato dei momenti di vero, autentico terrore. Poi ho avuto come una ribellione: a Dio, al mondo; per anni... pensavo fra me: ma come? perché? Io mi pento nel più profondo di me stesso, mi converto a te, dio eternamente insoddisfatto, e tu mi ripaghi così? Con tutto il peso di quest'angoscia? Con quest'inquietudine disabilitante, quest'ansia che m'impedisce ogni serenità, ogni fiducia nel mondo, ogni sentimento di affetto o di amore?... Ma poi è finita anche quella... e tanti anni fa, ormai. Non ne valeva la pena, ti assicuro; solo che io non lo sapevo...»
«...Sai, mi è successo di meditare lungamente sui ricordi di un mio viaggio in India, negli ultimi giorni; ricordavo bambini costretti a lavorare in condizioni spaventose, la loro innocenza distrutta, la loro anima perduta... hai mai avuto a che fare coi bambini, Hans?»
«Jean... ti prego: Jean! Cerca di ricordartelo!... No, mai. Le mie ragazze erano tutte maggiorenni, te lo giuro.»
«Già... ma i tuoi alti ufficiali dell'Esercito non erano però "puliti" come i miei amici militari di questi giorni... io mi sento male... io vedo Lucifero ovunque, caro Jean...»
«Spero che tu ti sia preparato a vedere ben di peggio, nei penitenziari, fra una settimana! Caro mio, troverai stupratori, pluriomicidi, terroristi pericolosi, pedofili... vai in posti di "passaggio", Claudio: le "Maisons d'arrêt" ospitano gente in attesa di assise o di giudizio, insieme a pene brevi, di qualche mese, magari, per furtarelli o piccole truffe, o alcolismo. Non troverai nessun ambiente facile né omogeneo: in carceri come quelle trovi dagli africani ai filippini, in genere incarcerati per faccende di droga, a gente spaventosa, come preti che hanno violentato e ucciso bambini per anni; potresti incontrarne ben tre, nei posti in cui andrai... gente che ha bisogno di protezione speciale proprio dentro al carcere, perché vengono picchiati e a volte uccisi dagli altri detenuti: un pedofilo è qualcuno che ha violentato e ucciso "l'innocenza"... questo è inaccettabile, nella psicologia di un criminale sottomesso alla pena...»
«Come fai ad avere tutte queste informazioni?»
«Beh, tutta questa cosa è nata per caso: in un bar non distante da qui, stavo bevendo un caffé, quando alcuni giovani si sono messi ad improvvisare del Blues... ti piace il Blues, Claudio?»
«Sì, moltissimo... è un modo per stare insieme, rispettarsi, sorridersi... ma bisogna farlo, non solo ascoltarlo... infatti è per questo che ho pensato a inventarmi un modo per fare Blues al violoncello, nelle carceri, e poi ho abbandonato l'idea per poter suonare musica del Barocco con un violoncello d'epoca e corde di budello...»
«Beh, hai fatto sicuramente molto bene; comunque, nel mio bar c'era un duetto che produceva un Blues molto piacevole e rilassante: armonica a bocca e pianoforte. Uno dei due era una specie di... come si chiamano? Reggae? Sai, quelli che si fanno i capelli stopposi e li infilano in enormi berretti colorati...»
«Sì, amano la musica Reggae; è tutto quel che so. E allora?»
«Allora questo giovane di colore, ma francese, si siede proprio vicino a me, e io non posso fare a meno di ascoltare la sua conversazione col pianista e un altro loro amico. Questo loro amico, un batterista, gli spiega che non ha più voglia di suonare. Perché? gli chiedono gli altri due. Lui risponde che per Natale aveva accettato un lavoro con un complesso di Rock duro, e aveva fatto un giro di concerti, appunto, nelle prigioni del nord della Francia. Fantastico! dicono i due, guardandolo ammirati. E lui li zittisce dicendo che da allora non ce la fa più a suonare la batteria, che quell'esperienza lo ha distrutto, che odia la musica.
Come puoi ben immaginare i suoi due amici si danno da fare per farlo parlare, ma lui gli risponde solo che non crede più in niente, poi si alza, e se ne va. A quel punto io lo seguo, e fuori in strada lo fermo e gli chiedo di parlarmi di quella sua paura. Forse a causa della mia età, o della mia faccia da psicanalista ebreo-viennese, mi fa una confessione che è durata almeno un'ora, sulla depressione ansiosa che gli impediva di suonare, e sul ricordo angoscioso degli sguardi dei carcerati. "Schiavi del demonio!", mi diceva...»
«Lui, suonatore di Hard Rock, s'era accorto della differenza fra il demonio in musica e quello vero?!»
«Penso che fosse proprio così... mi raccontava di vere e proprie allucinazioni che aveva avuto suonando, con quei carcerati che lo fissavano negli occhi e gli trasmettevano tutte le immagini più brutali della violenza, fissata nella loro memoria; così mi diceva quel ragazzo. Mi parlava di sangue, di risate sataniche, di orge animalesche, di bambini stuprati, stritolati fra le mani, torturati con perfidia sconvolgente o con mostruosa libidine, la violenza facile del colpo di pistola, il fascino della devastazione di carne, ossa, vene, dal colpo ravvicinato; sparare nella testa, da distanza minima, per la curiosità di guardare l'esplodere del cranio, il crollo improvviso di tutto il corpo appena il cervello viene spazzato via... temeva di perdere il senno, e accusava la sua musica di tutto quell'orrore incontrollabile...»
«Ci guadagnano i miliardi, cantandolo e mostrandolo in pubblico!»
«Sì sì sì, è quel che diceva anche lui; io non me ne intendo molto... comunque gli ho chiesto di dirmi chi aveva organizzato quella tournée, e lui mi ha dato l'indirizzo dell'agenzia per spettacoli Pop-Rock-Jazz eccetera che se n'era occupata. Ho preso un appuntamento con loro, per questa curiosità che m'era venuta, e sono capitato lì in un giorno decisamente fortunato, perché proprio quel mattino avevano ricevuto una precisa richiesta da un ufficio "per la cultura e riabilitazione nelle carceri", o qualcosa del genere; quella richiesta era: dieci concerti di musica classica da portare in dieci "Maisons d'arrêt" nel nord-ovest della Francia. Siccome durante tutta questa vicenda continuavo a pensare a te, gli ho subito detto che avrei potuto proporre a un mio ottimo amico quella tournée, e loro mi hanno acclamato come un portatore di luce, perché non sapevano proprio più che pesci pigliare, dato che si occupavano solo di chitarre elettriche, batterie e saxofoni.
A quel punto ti ho scritto, e nonostante il ritardo con cui gli ho portato la conferma della tua accettazione, li ho trovati ancora là, allo stesso punto di prima, e quindi felicissimi di accettarla. Così loro ti hanno mandato il tuo contratto, tu l'hai firmato, ed ora sei a pochi giorni dall'evento. Tutto qui.»
«...Ma a te com'è venuto in mente che io avrei voluto, o dovuto fare dei concerti nelle carceri?»
«Là c'è gente in attesa, Claudio: in attesa di una liberazione. E di una qualsiasi liberazione. Tu, invece, sei in attesa di trovare il mezzo musicale per aprire quelle porte, per visitare l'energia formidabile che sta oltre le mura del mondo... ti posso promettere un'esperienza forte, Claudio, travolgente; ma forse davvero fondamentale per la tua missione...»
«Ti voglio credere, e ti ringrazio. Ora però devo lasciarti, perché comincio appunto ad occuparmi di questo lavoro: stasera ho un primo incontro con una pittrice che ha realizzato corsi di pittura nelle carceri, in centri di detenzione per lunghe pene. So che avrà molto da dirmi, cose da spiegarmi e cose da insegnarmi.»
«Ti posso promettere che la tua esperienza andrà ben oltre quel che tu puoi immaginarti ora. Preparati senza troppa teoria: prepara la tua anima, non il tuo cervello!»
 
 
  

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