-XLVIII-

 

Partii con Paul, per un lungo viaggio in macchina, verso la sua casa di campagna. Restammo quasi muti, ma ci comunicavamo una profonda, reciproca comprensione. La sera fu dedicata a pensieri dolci, con sua moglie e suo figlio ventenne, che era di passaggio lì solo per un giorno.
Il mattino dopo, Paul volle fare una passeggiata con me, per mostrarmi la campagna lì intorno, e parlarmi ancora di musica e di fede.
«Claudio, ti si vuol far credere che le tradizioni e le antiche civiltà stiano morendo definitivamente, o siano già morte, per far posto a un mondo nuovo; ti si vuol dimostrare l'ineluttabilità di tutto ciò, la necessità ultima di accettare, sottomettersi alle inevitabili trasformazioni del pensiero, alla selezione delle idee che possono essere tradotte nei nuovi linguaggi, nell'intelligenza organizzata per un ordine futuro. Se una civiltà muore, si pensa, ciò non è altro che il risultato di un progresso naturale delle cose: è la necessità dei rinnovamenti, delle rivoluzioni; semplicemente il destino naturale del mondo. Ascoltami: tutto questo è solo falsità, inganno e follia!»
«Ti do ragione, Paul; e inoltre mi disgusta tutta l'arroganza di coloro che credono di vivere appieno la modernità, lo sprezzo che hanno per tutto quello che io, te e una minoranza del mondo percepiamo come la verità dell'arte e della tradizione; questi euforici, sanissimi animali moderni o post-moderni, follemente potenti sulle cose della natura, sono totalmente dipendenti dai sensi e dal sensibile, ma vivono e muoiono felici e sereni, riducendo arte, musica, pensiero, idee, religioni, tutto il visibile e l'invisibile, a oggetto perennemente disponibile per il solo piacere del loro "navigare" nella complessità... mi sembra di vedere quei collezionisti ossessivi di tutto ciò che è collezionabile: riempiono case, magazzini, depositi, di cataloghi, archivi, indici; tutto là ammucchiato, con il senso nascosto dell'impossibilità di godere un giorno o l'altro di una qualche completezza... ognuno specializzato nel suo piccolo settore, impegnato ad essere umile e ragionevole, non eccessivo, normale ma con desiderio di eccezionalità, pieno di disprezzo per chiunque gli offra un'opinione senza essere un altro specialista di grado più elevato, eletto dal sistema comune... umanità condannata all'ignoranza, ma beata dall'illusione di possedere la conoscenza -perché essa è lì, in quegli oggetti selezionati, collezionati e preservati, disponibile ad essere presa e usata in qualsiasi momento ci venga voglia di farlo-, proprio quell'illusione li rende "esseri superiori", Übermensch, e vincenti!»
«...Questo è l'impero del demonio, Claudio!»
«Forse hai ragione tu, ma è difficile trovare le "parole" e i "nomi" giusti per comunicare tutto questo.»
«...È questa la tua angoscia, rispetto al nome "impronunziabile" di Auschwitz?»
«Sì, credo...»
«Capisco... ma ora vorrei parlarti del tuo concerto, perché quello che tu ci hai offerto con il tuo violoncello è stato veramente un messaggio altissimo, Claudio...»
«Ti ringrazio.»
«Tutti noi dobbiamo ringraziarti! L'edonismo che caratterizza tutte le epoche di decadenza è qualcosa che tu sei riuscito a evitare, o a domare, o forse a trasformare in un luogo in cui la virtù è ancora qualcosa di perseguibile: la tua tecnica formidabile, che tu giustamente torni a chiamare "virtuosismo", è conquista di una bellezza altamente etica, e questa affascina, persuade e attrae verso il suo centro, che è tradizione, rigore, severità, disciplina, ordine.»
«...Tradizione, rigore, severità, disciplina, ordine?»
«Sì, certo. Vedi, mentre ti ascoltavo suonare i "Capricci opera 25" di Piatti, osservavo proprio questo: Piatti rappresenta proprio quest'ordine sovrano, la disciplina di quest'ordine. E nell'unire con ammirevole umiltà d'intenti la sua ricerca alla grandezza della tradizione, Piatti consegna pure la sua straordinaria "bravura", come eroismo sommo, senza orgoglio né vanità. Infatti, la sua musica finisce col non incontrare successo: non attrae e non affascina né il grande pubblico né quello cosiddetto "eletto"; almeno... così tu ci hai raccontato...»
«È vero: per Piatti è stato proprio così; e quel suo destino è continuato per la sua musica, lungo tutto il nostro secolo...»
«...Invece Popper, al contrario, commuove ancora, per quel suo desiderio di libertà e di leggerezza, che ha saputo unire, o addirittura fondere al senso tragico della vita, alla rappresentazione del dolore o della passione inquieta, agitata, nella quale ci si riconosce ben più volentieri che nel senso della sofferenza. Nelle note di Popper c'è una forza tellurica, coinvolgente, convincente, e quindi vincente.»
«Questo è vero, ma Popper ha pure avuto il merito di rintracciare le "consonanze" fra i nuovi linguaggi musicali, come quello di Bartok -che lui ha protetto nei momenti difficili, e promosso con le sue esecuzioni-, e la tradizione classica...»
«Sì, ma quando penso alla selezione dei compositori classici che l'Ottocento ha realizzato, -anche attraverso Popper, ma, mi sembra di aver capito, soprattutto dalla devozione e dal grande impegno di musicisti come Alfredo Piatti-, al di là di quella cosa imponderabile che è il mistero del genio, mi accorgo di riconoscere Bach come l'ordine, Mozart come l'innocenza, Beethoven come l'eroismo.»
«Questo è interessante...»
«Ora, io non sono un musicologo, ovviamente, ma questa schematizzazione mi permette di cogliere dei valori fondamentali della nostra tradizione musicale, e mi pare tu li abbia perfettamente messi in luce col tuo concerto. Ciò che ora vorrei sapere da te, è se credi che siano veramente questi i valori etici che Piatti perseguiva, e che dunque tu, nei tuoi concerti, riporti alla luce, oppure altri... e allora quali?»
«...Credo quelli che tu hai intuito, ma... santo cielo! sono soprattutto colpito e interessato alla tua schematizzazione: ordine, innocenza, eroismo! È illuminante, ed è assolutamente vero! E anche per quanto riguarda il mistero del genio musicale, questa intuizione potrebbe farci intravedere un meccanismo di quella che chiamiamo "creazione musicale", proprio nella dinamica delle connessioni fra queste tre figure: ordine, innocenza, eroismo... in effetti, noi riconosciamo il genio in coloro che ci hanno offerto creazioni capaci di insediarsi velocemente e in modo persistente nel nostro immaginario; non solo a chi ci ha sbalorditi o turbati con la sua complessità.»
«Sono d'accordo.»
«Per un musicista della fine Ottocento, tormentato già dalla saturazione, già vessato dal desiderio di ritrovare l'innocenza perduta, o di conquistare nuovi obiettivi più alti, o più lontani di quanto solo col desiderio mondano si può ottenere, trovare, scoprire... Bach allora è l'ordine del numero, della lezione sull'origine divina della musica; Mozart è la miracolosa innocenza di un giardino dell'Eden ritrovato, a seguito dell'abbandono degli Arcadi, che rende quel loro favoloso giardino, curato lungo due secoli di amorose invenzioni, un luogo di delizie per i nuovi musicisti; e infine Beethoven, che rinnova i valori etici e apre nuovi orizzonti all'esperienza musicale, col gesto, la dedizione, il coraggio e la generosità dell'eroe mitologico.»
«Dunque tu confermi che questo potrebbe essere l'ideale di Alfredo Piatti?»
«Sì, credo che Piatti possa ben aver pensato tutto questo, componendo e facendo ascoltare i classici nei suoi concerti!»
«E infatti, per quel che mi è sembrato di capire durante il tuo discorso di presentazione, verso la fine della sua carriera, ai concerti di Piatti andava sempre meno pubblico, preferendo a quella sua "perfezione classica" le più "commoventi" inquietudini dei nuovi musicisti: coloro che si stavano definitivamente, irrimediabilmente staccandosi dalla tradizione.»
«Esatto. Si sa che Piatti, anche come compositore, aveva una fede cieca e assoluta nella tradizione classica, e certamente il mantenerla gli è costato l'allontanamento dal nuovo gusto musicale, dalle nuove idee sulla musica, dal mercato... però oggi, a distanza di cent'anni, la sua è diventata una lezione che ci permette di ritrovare una visione "giusta" dei classici che ancora conserviamo; ed è "giusta" perché rappresenta ancora la tradizione, proprio al punto in cui si era fermata.»
«Bene. Però ora ascoltami bene: tu -da quel che dici nelle tue presentazioni- sembreresti delimitare la tradizione a un percorso culturale tutto sommato un po' più lungo di quello proposto da coloro i quali parlano solo di una tradizione barocca o solo di una tradizione romantica, conseguenti ma separate; in fondo, tu proponi solo una tradizione che è poco più di barocca e romantica insieme. In altre parole, questo mi sembra corrispondere all'idea per cui l'esperienza di un paio di generazioni sia comunque più densa e ricca di quella di una soltanto, e quindi preferibile, allo scopo di offrire un'opera nella quale si percepisca uno "spessore", e non solo una "complessità".»
«Paul, questo è vero solo per quel che riguarda gli strumenti: il violoncello e la musica del violoncello hanno all'incirca quattro secoli di storia, certo non di più; ma al di là del violoncello e della sua tecnica ed estetica, io cerco la musica che è al di sopra della Storia!»
«Claudio, ascoltami ancora: nella brevissima conversazione che ho avuto con Georges, dopo il tuo concerto, ci siamo immediatamente trovati concordi nel dire di quale straordinaria espressione di energia e di controllo era presente nel tuo suonare, ma anche di quale formidabile fede deve accompagnare una simile energia! L'umanità può essere salvata solo dalla fede, e solo da una fede esatta: quella nel Cristo!»
«...Oh no, Paul, ti prego: non questo!!»
«Sì, Claudio: Gesù Cristo! Colui che ha portato la Verità agli uomini!»
«Ascoltami tu: io sono una di quelle persone che per muovere i loro passi verso il futuro si occupano del passato, e non solo della "memoria" del passato. Convincersi che il tempo muova in una direzione assolutamente univoca, così come vorrebbe farci credere la ragione comune, è una cosa che mi appare sempre più sciocca, come se qualcuno venisse continuamente a spiegarmi che se sono di religione ebraica sono rimasto indietro di duemila anni, o anche solo di cinquanta, forse perché nessuno mi ha detto che nel frattempo nel mondo e nell'aldilà si sono fatti dei progressi!»
«Ma... io non volevo arrivare a dire questo...»
«Suvvia, andiamo! Certo ho esagerato, prima, a bastonare la scienza e la modernità, ma l'ho fatto proprio perché quel costante accumulo di informazioni e nozioni frammentate e incomplete che chiamiamo progresso, ci rende stupidi, ciechi, annoiati, disincantati, soli e arroganti, di fronte alla vita, alla natura e a Dio stesso.»
«Ma Claudio, se sei stato proprio tu a dire che la musica è una manifestazione di Dio, che è un'indagine sulla sua volontà, che è il luogo più vicino alla comprensione del Suo Verbo! E allora, come pretendi che il Suo nome resti ancora impronunziato, nel silenzio?»
«Mio Dio, Paul... la musica non è fatta per pronunciare il nome ineffabile di Dio!»
«Questo è quanto tu credi? Ma liberati dunque una volta per tutte! Guardati intorno! Il nome di Dio è pronunciato da tutte le cose pure e meravigliose della natura che Lui ha creato! E la musica c'insegna ad amarle, a riconoscerne il segreto più profondo ed eterno!»
«No, tu confondi i...»
«Claudio! Lascia che il Cristo entri nel tuo cuore, e che lo guidi sulla strada di Dio! Il mondo è pieno degl'inganni del maligno: nessuna intelligenza può sfuggire alle sue trappole! Offri il tuo cuore all'unica Verità: solo così renderai grazie a Dio del tuo talento!»
«Fermati!... Il destino ha voluto mettermi in un luogo di mezzo, Paul... Darò ragione al destino, perché lui mi ha portato di fronte ad Auschwitz, e io non voglio aggiungere nessun altro legno di croce in quel luogo!»
«...Auschwitz non è stato solo il martirio degli ebrei!»
«No, ma lo rappresenta e simboleggia. Tanto basti a togliere ogni croce cristiana da quel luogo. Non voglio sentire altro al riguardo.»
«Tu compi un errore terribile: quanti geni, quante intelligenze, quante anime dotate di talenti inimmaginabili si sono già perdute in questo stesso modo, in questo secolo maledetto e immondo?»
«Non ti ascolto!»
«Perché vuoi disperdere anche tu il dono che hai, nella confusione e nell'inganno?!»
«...Paul, cerco di entrare nel tuo modo di vedere le cose, e mi accorgo perfettamente che se io dovessi solo decidere se le divise del mio battaglione devono essere verdi o rosse per la sfilata della festa delle Forze Armate, non avrei bisogno di rivolgermi al crocefisso, e tutt'al più uno specchio mi basterebbe. Ma se dovessi dare un ordine di combattimento, di distruzione, di morte, allora sarei pazzo a chieder consiglio al mio specchio. Io però non me la sento di portare a questi livelli la mia responsabilità: ...a quel punto, io mi sento solo più un musicista...»
«Mi sembra che tu ora stia nascondendo a te stesso, e neppure troppo bene, la perfetta coscienza che la tua responsabilità non è da meno di quella di un militare, anche se sembra diretta solo all'anima e alla memoria, e non anche alla vita materiale dei tuoi soldati.»
«Sì, sì... questo lo sento... ma credo di aver ancora bisogno di tempo per meditare... c'è come un blocco in me, Paul: qualcosa che s'interrompe, che non accetta di proseguire nel pensiero, nell'indagine dentro di me, per darmi ragione dell'incarico che mi sono preso, senza capirlo, senza chiederlo; senza, in fondo, neppure ancora accettarlo del tutto...»
«Queste sono debolezze che in certe condizioni non abbiamo il diritto di tollerare!»
«...Alle volte ho l'impressione che a differenza di qualsiasi racconto o testimonianza scritta o detta, quel mio violoncello possa compiere un prodigio formidabile: far rivivere nella carne e nell'anima insieme, nello stesso tempo, la verità dello sterminio, il senso totale della Shoah; forse persino riuscire là dove ha fallito la testimonianza, traducendosi in altro martirio, nella frammentazione della coscienza, in una sorta di buio tempio del dubbio, nelle pieghe vergognose degli sguardi sul mondo, nelle sue assoluzioni frettolose...»
«Ascoltami...»
«...Immediatamente dopo mi succede di pensare con l'uomo comune: a che serve quel ripetersi del dolore? dov'è la voce di pace che fa risorgere le vittime? qual è la voce di giustizia che distrugge i carnefici? Io sento solo la straziante sequenza dei gemiti... per questo chiedo: datemi tempo! E un po' di forza per continuare a studiare...»
«...Pensa a ciò che ti ho detto, Claudio. Medita...»
«Sì Paul, mediterò. Ma non pretendere che la croce torni ad essere il necessario martirio per gli ebrei. Tutto questo ha generato orrore e vergogna che ci è impossibile calcolare. Tolleriamo gli inevitabili contrasti verbali, e cerchiamo l'unione attraverso la contemplazione dell'ineffabile, a cominciare dalla musica. Te ne prego: senza convertirla al cristianesimo, o a qualsiasi altro nome! Già non ci rimane più una sola sequenza di note che valga la pena di essere composta, non una melodia, non un'armonia che ci possa trasportare a un cielo che sia qualcosa di più di quello delle nostre solitudini più desolate...»
«Dio vi attende, popolo di dura cervice...»
«Beh, lui di tempo ne ha quanto ne vuole... noi uomini non ne abbiamo più da perdere!»

 

-XLIX-

 

Rimasi fortemente turbato da quella passeggiata con Paul; lui fu estremamente gentile, di fronte alla mia durezza, ma io temevo che la nostra amicizia si sarebbe arrestata su quel punto.
Passai la serata chiuso nella stanza che aveva fatto preparare per me, a scrivere e meditare, ma continuavo a ricadere col pensiero sui fatti della guerra, -quella cosa che io conoscevo solo dalle mie distratte letture dei libri scolastici e dall'enorme, confuso accumulo di immagini cinematografiche-, meditando sulla coscienza degli alti ufficiali dell'Esercito, su una Francia che aveva difeso l'ordine e la morale dei suoi soldati con una retorica inconcepibilmente arretrata per il paese ricco e colto ed evoluto che era.
Si era dovuto attendere il 1976 perché fosse tolta la censura di Stato sui fatti della prima guerra mondiale, e vent'anni ancora perché si potessero proiettare film di denuncia sulle assurdità della guerra, come "Orizzonti di Gloria" di Stanley Kubrik, o "Uomini contro" di Francesco Rosi; il mondo dei militari era come invisibile, dentro a un mondo saturato da eccessi di visibilità.
Sapevo bene che Paul era un fervente uomo di fede; sapevo del suo servire come volontario in associazioni umanitarie di organizzazioni cattoliche, persino del suo partecipare ad incontri ecumenici. Ma cosa c'era nel suo passato? Tutto quel che conoscevo era il gran numero di decorazioni col quale poteva ornarsi il petto nelle occasioni ufficiali: tutta Gloria.
Quel giorno pensai lungamente a un fatto che mi era accaduto due anni prima, durante un mio soggiorno a Roma.
Un mio amico molto caro, ex ufficiale di Marina diventato scrittore e poeta, mi aveva invitato alla presentazione di un libro di poesie dedicato a sua moglie, morta l'anno prima d'un cancro incurabile. Fu una morte tragica, inattesa, prematura, perché lei era un'artista dal talento eccezionale, e ancora non aveva avuto tempo per ciò che poteva dare.
Forse anche per il mio amico il tempo non era stato sufficiente per amarla, e dopo quel distacco quasi dedicava ogni suo giorno a far vivere le opere d'arte che sua moglie gli aveva lasciato, come un solenne pegno d'amore, un'ultima promessa. Così era per quel libro di poesie, e io accettai volentieri di suonare per il pubblico della sua presentazione.
Appena arrivai lui mi corse incontro, e volle subito farmi conoscere colui che, diceva, era la persona a cui doveva la maggior riconoscenza: il prete cattolico che aveva seguito sua moglie Anna nelle ultime settimane di vita.
C'era ancora molto tempo prima dell'inizio della presentazione, e mentre il mio amico si occupava di accogliere gli altri invitati, io e il prete cominciammo a parlare dell'arte di Anna. Dopo poco, gli dissi che io non avevo fatto in tempo a incontrarla, se non attraverso le opere raccolte e conservate dal mio amico; quindi gli chiesi di parlarmi di lei, di raccontarmi come l'aveva conosciuta.
Mi spiegò allora che passava tutto il suo tempo libero avvicinando persone malate o prossime alla morte, per rendersi disponibile al loro riavvicinarsi o scoprire la fede nei momenti di maggior crisi. Commosso e affascinato, gli chiesi di parlarmi ancora della sua vocazione.
Lui cominciò a dirmi della forza straordinaria che riceveva per quella missione: un'energia meravigliosa, inesauribile: quella di Gesù, che poteva manifestarsi anche attraverso la persona più umile, e che compiva il miracolo della conversione, della salvezza. Continuava a parlarmi di questa presenza che lo invadeva e lo usava, sempre con maggior enfasi, finché fui talmente stordito da subire quasi un'allucinazione, in cui mi sembrò di ascoltarlo ripetere ossessivamente solo il nome di Gesù e la parola "amore".
Volli fermarlo -certo, lo feci con eccessiva brutalità-, dicendo: «Perché lei ha bisogno proprio di quel nome, per trovare la forza dell'amore? Non ne esistono forse altri, al mondo, tutti dotati di questo stesso potere, per chi può crederci con fede sincera?»
Lui rimase qualche istante come interdetto, ma poi sorrise, rispondendo subito che Gesù era l'amore, che tutto l'amore del mondo era nel Cristo figlio di Dio, che Gesù aveva sacrificato se stesso per amore dell'uomo, e per questo il suo dolore era amore, il suo nome era amore, amarlo ed imitarlo era l'amore... «No!» lo interruppi ancora; «So perfettamente che fino a qualche mese prima della sua malattia Anna era un'atea, e so pure che non era pronta a una morte così improvvisa, così inattesa! E per conoscere Dio non c'è solo Gesù Cristo! C'è anche Budda, c'è Krishna, c'è... non so quanti ce ne sono, ma sono tutti nomi che rimandano all'Amore con la "A" maiuscola, per tutti quelli che sono cresciuti nella fede in Dio, anche parlando lingue diverse!»
Sorrise ancora, e mi disse che era certamente vero, ma che tutta quella gente era in errore, e che avrebbe potuto essere salvata solo dall'innocenza della loro fede; a noi, però era data la lingua e la parola di Gesù Salvatore, e a noi era dato pure il dovere della conversione di noi stessi e del mondo.
Gli domandai con irritazione: «Ma se un israelita vuole morire nella sua fede, vuol dire allora che morirà lontano dall'amore?»
Su quel punto non sorrise più. Mi guardò fisso negli occhi e mi chiese se ero ebreo. Risposi con una provocazione: «Quando verrà il Messia saremo tutti ebrei!»
Rimase in silenzio, e io continuai: «Che bisogno c'è di legare l'amore solo al nome di Gesù, di negarlo ad altri profeti dell'amore? Perché per agire con la forza dell'amore dovremmo nutrirci e ricevere la forza proprio di quel nome? Non le viene mai in mente quanta sofferenza, quante guerre, dolore, incomprensione, di quanto "errore" ha creato il nome di Gesù nel mondo?»
Si alzò, senza più guardarmi, e andò via con gesto di disprezzo, senza dire una parola.
Quando tornò il mio amico mi chiese dov'era il prete. Risposi con grande imbarazzo, dicendo che l'avevo solo visto uscire di fretta; forse aveva qualche impegno urgente. Io non volevo, non potevo rovinare quel momento così importante per lui; così tacqui, e poi andai sul palco a suonare.
Mentre al violoncello cantavo un'appassionata melodia ebraica, continuavo a pensare: chi sono io, per arrogarmi il diritto di offendere un uomo che dedica la sua vita agli altri, col sacrificio della sua libertà? Perché devo distruggere quel nome, se quel nome gli da la forza di compiere atti meravigliosi che io non ho neppure il coraggio, né la forza per affrontare?
Capivo però, nello stesso tempo, che quel nome pronunciato con tanta foga era solo la rappresentazione del fallimento della sua fede: un vitello d'oro, che si vede, si tocca, si innalza al pubblico applauso. Dietro a quegli atti d'amore c'era l'inganno, c'era un'energia d'amore dispersa nel potere del nome di un idolo, vessillo di guerre di conquista, dell'orrore di massacri senza fine.
Poi tornavo ancora al rimorso: ogni giorno lui compiva atti d'amore! Quel prete non aveva colpa alcuna per la storia della cristianità! Lui era redento dalla qualità delle sue azioni, non dai nomi che pronunciava con eccessivo fervore!
O forse no: neppure nell'azione più pura era possibile creare una verità "al di sopra" della parola...
Non seppi mai rispondere. Né lo sapevo quella sera, a casa di Paul, ma sentivo che tutto si stringeva verso un punto che ormai mi sembrava vicino, sempre più visibile, sempre più disponibile alla coscienza...
Eppure continuavano ad esserci degli argomenti "intoccabili": come avrei potuto chiedere a un Generale: "mi spieghi, cos'è la guerra?" e credere di ricevere la verità più pura? Come avrei potuto "costringere" un qualsiasi alto Ufficiale di qualsiasi Esercito al mondo ad esprimere opinioni personali sulla moralità della retorica della Gloria militare?
Il peso dei milioni di esseri umani, morti senza capire un perché, oppure convinti della sacralità del loro sacrificio, del sacrificio nel dolore, nel terrore, nella sofferenza disperata delle guerre... nel dubbio, sul giusto e sull'ingiusto, sull'utile e sull'inutile, sul necessario e sul superfluo... sul vero e sul falso...
Non potevo che scoprirmi enormemente fortunato ad esser nato molto dopo la fine della guerra, del terrore, dell'incomprensibile tragedia. Io ero un innocente, per destino storico; ma chi aveva sessanta, settanta, ottant'anni no: lui doveva fare i conti con la sua coscienza, e non poteva far altro che stabilire cosa la coscienza poteva vedere e riconoscere, e cosa no.
Banale assoluzione di se stessi? Però non c'era molta scelta. Io non potevo certo chiedere: «Caro Generale dell'Esercito francese, dimmi un po' cosa ne pensi del Chemins des Dames? Ricordi? Era il 1917, e il Generale Philippe Petain -fascista, collaboratore dei nazisti!- fece fucilare decine e decine di ammutinati, che di fatto erano solo uomini normalmente leali, ma disperati, sopravvissuti per miracolo alla strage assurda e incredibile di circa duecentomila soldati inviati al massacro superfluo, verso l'ostacolo insuperabile di circa duecento metri di colline difese perfettamente da efficientissime mitragliatrici e cannoni; il Generale che si era impuntato su quell'idea di glorificarsi per quel pezzo di terra si chiamava Georges Nivelle.»; sapevo già la risposta: «Caro amico, in via del tutto privata, fra me e lei, le dirò: ci sono cose di cui è meglio non parlare.»
Infatti anch'io mi ero arenato in quelle.

 

 

-L-

 

Quei giorni in campagna passarono veloci; Paul e sua moglie furono immensamente gentili con me, e la loro gentilezza mi faceva quasi dimenticare l'angoscia che mi covava dentro.
L'ultimo giorno, prima di partire per Parigi, dove avrei fatto le prove per i concerti per i Penitenziari, scrissi una lettera aperta, che aveva lo scopo di interessare e invitare all'acquisto dei miei tre dischi appena stampati.
Credo sia bene farla riemergere dalla memoria del computer, per capire come, da tutto quel che mi stava succedendo, si formava in me una coscienza nuova, o forse una nuova speranza.
Eccola:
 
 




 
 
 

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