Guardando Babele
Prova ad immaginare una torre fatta non di mattoni, bensì di lettere dell'alfabeto raggruppate in parole, o "agglomerate" e cotte, come mattoni, per costruire un edificio... poi immaginale ancora sovrapporsi, concatenenarsi, autosostenersi, autoalimentarsi, e vedrai che punteranno a un'apice, una sommità estrema, che non potrà più essere una semplice "parola", ma vorrà diventare un "nome"... è una faccenda attualissima: visibilità e potere...
Infatti Bavel in ebraico (scritto con le lettere Bet-Bet-Lamed) deriva dal verbo Balal (Bet-Lamed-Lamed), confondere, e da un'intenzione un po' arrogante: "farsi un nome visibile dal mondo". Questo è quanto ci concede -e a cui ci obbliga- la lettura "letterale" del testo biblico di Genesi 11, al versetto 1: «Ora, tutta la terra aveva una stessa lingua e le stesse parole»; e al v. 3: «E si dissero l'un l'altro: "venite, facciamoci dei mattoni e cuociamoli al fuoco!". Il mattone servì loro invece della pietra e il bitume servì loro invece della malta.»; e al 4: «Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima sia nei cieli, e facciamoci un nome, affinché non ci disperdiamo sulla superficie di tutta la terra!"» Se vuoi tradurre per il mondo -ossia farti capire senza centuplicare le parole del tuo testo con le note a piè di pagina- tralasci, scavalchi, ignori questi dettagli, e fabbrichi una torre di Babele in mattoni e calce per il tuo lettore in cerca d'immagini poetiche o epiche, etiche o solo fascinose. Così è stato per Re Giacomo o per San Girolamo; non si scappa dalle regole dello spettacolo mass-mediale.
Ma se la Torah fosse solo un libro di parole sarebbe null'altro che una torre di Babele... tant'è vero che quando la si legge in lingua originale, ci si accorge presto che la sua prima e ultima lettera sono esattamente quelle del nome Bavel: Bet e Lamed. Infatti l'umanità che precede la costruzione della torre è un'umanità tutta positiva, unita dalla capacità assoluta di comunicare (versetto 1), ed è una comunità nella quale la lingua comune, secondo logica, non può che essere ancora, o nuovamente, quella di Adamo, per la quale il "nome" è ciò che dà vita alle cose (Genesi 2.19: «Il Signore Dio portò tutte le cose che aveva formate ad Adamo , e Adamo le chiamò con i loro nomi») e tutte le cose derivano e sono "formate" dall'unico "nome", che è quello di Dio, ed è matrice e chiave di ogni cosa materiale, un po' come una sorta di DNA supremo della materia prima. Farsi, o meglio "fabbricarsi" un nome, in questo contesto, può dunque essere letto come un "manipolare geneticamente la natura", imponendo nuove dinamiche, nuove leggi, che cominciano dal "basso", seppur tendendo verso l'alto. Dio, per conseguenza, "scende" a reimporre una condizione di ordine, iniziando con la distruzione (il diluvio, in Gen. 6) e continuando con la confusione di Bavel. Rashì di Troyes, nel suo commento a Genesi 11, scrive: «Uno chiede un mattone, e l'altro gli passa la calce; il primo insorge sul secondo e gli rompe il cranio»; non le parole o la lingua, ma il loro significato è confuso. In un certo senso, ogni guerra o massacro avvenuto nel corso della storia non è meno grottesco, dopotutto, dell'immagine offerta dai due operai della torre secondo la spiegazione di Rashì.
Ora, per capire bene questa torre di lettere dell'alfabeto impastate e cotte come mattoni, sappi che quando l'umanità anteriore alla dispersione di Babele degenera al punto di farsi distruggere da Dio col diluvio universale, quella "selezione" ed "elezione" che Dio compie attraverso Noè comporta la costruzione di un' "Arca", e che per realizzarla Dio impone precise indicazioni riguardo ai materiali e, soprattutto, alle misure, specificando pure: «Ti farai un'Arca (Tevà) con un piano inferiore, uno mediano e uno superiore» (strati della coscienza?... Gen.6:16). Quando si è tradotta la parola "tevà" si è scelta l'arca perché galleggia, è un contenitore chiuso e segreto destinato a un trasporto (arcano), anche se la parola "tevà", in ebraico, significa soprattutto: "parola, lessema". Dunque Dio dice a Noè di fabbricarsi una "parola" di tali e tal'altre misure, di ben precisi materiali, forme e strutture, e in essa riunire le forme della vita, secondo la loro naturale e terrena dualità... ma chi traduce al fine di farsi capire avrebbe seri problemi a far galleggiare animali e uomini sopra una "parola"... Eppure quell'Adamo che, solo fra tutte le creature, ebbe la "parola" per esprimere se stesso al mondo, e che quindi diede il nome a tutte le cose, quell'Adamo della terra riusciva però, in quel "tutto", ad essere solo e a non desiderare la vita, sicché gli fu necessaria la donna. Così è proprio Adamo, prima di ricevere Eva, che ci indica il senso più attuale, profondo, e paradossale di Babele: «È impossibile all'uomo vivere in solitudine» (Gen. 2:18), dice Dio prima di "dividere" il lato femminile da quello maschile, poiché ogni entità finita, chiusa in se stessa, è un essere che non può sopravvivere. Così è per l'umanità di Babele: cercando l'unità nell'omologazione (dei costumi, delle lingue) costruisce un mondo impossibile, tanto da giungere alla distruzione, al ritorno nel caos. Ma nella nostalgia dell'esilio, cercando di ricomporsi, compie il lento, segreto, o forse arcano atto dell'amore.
Claudio Ronco
Contemplating Babel