ALEPH
La lettera ebraica Aleph
si trova nelle tastiere dei nostri computer (Macintosh!!!...) digitando il tasto della
virgola mentre si tiene premuto il tasto "option",
col font Symbol:
È buffo osservare che,
se scritto con altri font, quell'Aleph è un punto interrogativo
capovolto, come si usa in spagnolo: ¿
E con gli Zapf Dingbats, che
mio figlio di dieci anni usa per divertirsi a criptare le sue
lettere segrete ai membri del suo club esclusivo, l'Aleph appare
come un 1 cerchiato:
Questa è l'unica
lettera ebraica presente nel mondo non ebraico, ed è presente
nelle tastiere dei computer poiché essa è usata
nella matematica moderna per indicare il primo numero transfinito,
che rappresenta la cardinalità o potenza dell'insieme
infinito dei numeri naturali:
= {1...,
2......, 3......, ......n, ...};
In ebraico, questa lettera è
semplicemente il numero 1, anche se è possibile penetrarla
verso infinite vertigini. Si può osservare il suo disegno
come risultante di due Yod messe una sopra e una sotto
a una Vav trasversale (in: Sefer ha-Temunah, "libro
della figura", anonimo del XIII secolo, scritto in Spagna
o forse in Provenza), ovvero due 10 intorno a un 6 (i giorni
della Creazione, o delle Creazioni del mondo attuale e
del mondo a venire), così offrendo alla lettera Aleph
anche il valore di 26, che è lo stesso del nome tetragramma
sacro di Dio YHVH (10+5+6+5).
In un antico Midrash talmudico,
intitolato "l'alfabeto di Rabbi 'Aqiva" (Alfa Beta
de Rabbi 'Aqiva, di cui si ha notizia a partire da IX secolo),
si legge: «Se non ci fosse l'Aleph non ci sarebbe la
Bet, se non ci fosse la Bet non ci sarebbe l'Aleph, se non ci
fosse la perfetta Torah non esisterebbe il mondo, e se tutto
il mondo non esistesse non esisterebbe la perfetta Torah».
Così, in una visione terribile e ineffabile, gli antichi
rabbini ci mostravano i segni della Creazione, prima che divenissero
suoni, e, come suoni, parole, comunicazioni emotive, linguaggio
di sentimenti, vita...
Il testo che ha trasmesso questa
visione è il Sefer ha-Yetzirah, i "libro della
creazione", o "della formazione", che tradizionalmente
si vuole attribuire al Patriarca Abramo, Avraham Avinu,
e che può essere datato fra il II e l'VIII secolo, in
ambiente ispanico o provenzale.
Dice il Sefer ha-Yetzirah:
"prima
dell'uno che numero puoi contare?"
Vivendo come me, qui a Venezia, con la Cabala si potrebbe davvero
perdere la testa, anzi: la Cabeza. In fondo, qua ci si
muove più che altro scivolando sull'acqua che di quando
in quando traspare, e trasparendo ci fa meditare sul mondo di
sotto e su quello di sopra.
Nel Medioevo e nel Rinascimento, in questa curiosa città
c'erano sì dei cabalisti, ma erano tenuti a freno dalla
comunità ebraica (che all'epoca si chiamava Università
delli Hebrei) e un grande rabbino come Ramchal (Rabbi
Mosè Chaim Luzzatto, vissuto a cavallo
fra XV e XVI sec.) benché nato nel territorio veneziano,
fu costretto a emigrare ad Amsterdam, per poi partirsene con
tutta la sua famiglia per Gerusalemme dove, appena sbarcato,
venne trucidato con moglie e figli. Da Amsterdam, per contro,
inviarono agli ebrei veneziani il dono dei bellissimi lampadari
in bronzo che ancor oggi fingono di illuminare gli ambienti delle
nostre sinagoghe.
Quindi il Sefer
ha-Yetzirah, a Venezia sembra
che sia stato meglio tenerlo nascosto in casa, conservato con
cura sotto la protezione delle seguenti citazioni talmudiche:
«Chiunque riflette su queste quattro cose, sarebbe meglio
non fosse mai venuto al mondo: su ciò che è in
alto, ciò che è in basso, ciò che è
davanti, ciò che è dietro» (Mishnah Hag.II,I)
e anche:
«Non ricercare quel che è troppo difficile per
te e quel che ti è nascosto non cercar di scoprire. Applicati
a ciò che ti è permesso ma non ti occupare delle
cose segrete» (Talmud Hag. 13a).
Comunque, per occuparsene era necessario il digiuno, l'esercizio
costante alla meditazione trascendentale attraverso il controllo
del respiro e del battito cardiaco, e in ultimo accettare il
rischio di impazzire:
«Quattro uomini salirono
fino al Paradiso: Ben 'Azay, Ben Zomà, Elishà Ben
Abuyà, Rabbi Aqibà. Rabbi Aqibà disse loro:
quando sarete giunti ai gradini di puro marmo, non gridate "acqua,
acqua". Ben 'Azay contemplò e morì; Ben Zomà
contemplò e impazzì; Elishà Ben Abuyà
tagliò le piante; Rabbi 'Aqibà si ritirò
in pace» (Talmud
Hag.14b)
Interrogarsi sulla creazione, inevitabilmente comporta o seri
rischi per la salute mentale, o il rischio di perdere ogni capacità
di stupirsi o meravigliarsi per il mistero dell'esistenza, finendo
nella fossa mortale di noi stessi, senza speranza di risalire:
tutto ciò significa "ricadere nel caos".
Per questo è conveniente consigliare all'essere curioso
non solo la prudenza, ma anche la solida protezione di una struttura
viaggiante, come un'armatura, o un "carro": Merkabà.
Il Talmud (Hag.12a) ci ricorda che:
«Dieci cose furono create il primo giorno: Cielo e Terra,
Deserto e Vuoto, Luce e Tenebre, Aria e Acqua, e la divisione
fra Notte e Giorno».
Queste prime dieci realtà
archetipali sono lo strumento creativo di cui si serve En-Sof,
l'ineffabile, per creare i suoi mondi, ed esse sono chiamate
Devarim, ossia i "lemmi", i detti-parole.
A queste aggiungendo le 22 lettere/consonanti/numeri dell'alfabeto
ebraico, si hanno le "32 vie della saggezza"
di cui parla il Sefer ha-Yetzirah nel suo famoso incipit:
«(I) In trentadue misteriosi sentieri di saggezza ha
scolpito YHWH Sebaot, Dio d'Israel, Dio vivente e Re del mondo;
Dio di potenza, pietà e misericordia "che risiede
in eterno nelle eccelsità e il cui Nome è Santo".
Ed Egli ha creato il suo mondo con tre forme di espressione:
con il numero, con la lettera, e con la parola.»
(Quest'ultima
frase è: «be-sepher, w-sephar, we-sippur».
Gadiel Toaff fa notare che «sono indubbiamente derivate
dalla stessa radice "s ph r".
Sepher (sepharim) significa in ebraico "libro",
"scritto" e perciò il significato generale indicherebbe
che Dio ha creato mediante tre libri o scritti.». Toaff
prosegue elencando un certo numero di traduzioni di quelle tre
parole, fra cui: «Pistorius, che le traduce "scriptis,
numeratis, pronunciatis"; Postellus, che le traduce
"numerans, numerus, numerantus"; [...] Cimara,
che le traduce "l'ecriture, le nombre, la parole";
Westcott, che le traduce "numbers, letters, sounds";
Stering, che le traduce "numbers, letters, words"
[...]»)
Poi il Sefer haYetzirah continua così:
(II) Dieci Sephirot beli-mah (belì= senza,
mah=cosa; dunque: beli-mah= senza niente; ...astratte?
No: meglio tradurre "indeterminate") e ventidue
lettere fondamentali: tre madri, sette doppie e dodici semplici.
(III) Dieci Sephirot beli-mah
secondo il numero delle dieci dita, cinque in corrispondenza
di cinque e il patto dell'Unico (Yachid) collocato al centro:
e come la parola della lingua, così la circoncisione del
prepuzio.»
E qui vedi bene che l'Unico non è un'Aleph, bensì
Ychud (Yod, Chet, Vav, Dalet), che significa "un'unità",
imperniata alla lettera Yod, ossia il numero 10.
Nel punto in cui è scritto
"e prima dell'Uno che numero puoi contare?",
infatti, Gadiel Toaff (cui si deve un'ottima versione italiana,
edita da Carucci, Viale Trastevere 60, 00153 Roma) compone un
cerchio con i numeri da 1 a 10, e mostra come 10 sia un Uno che
si congiunge allo Zero, e così in eterno. È contestabile?
No, è solo una spiegazione un po' infantile... ma almeno
mio figlio di dieci anni riesce a comprenderla. Il commentario
di Yitzhaq ben Avraham il Cieco (Perush Sefer Yetzirah,
"commento al libro della formazione", Francia meridionale,
fra il XII e il XIII sec.) sottolinea invece:
«"Dieci e non nove".
Sebbene la sapienza sia con tutte (le sephirot), non chiederti:
Come posso dire che la sapienza (Hochmah) è una
sefirah?
"Dieci e non undici". Non chiederti:
Dal momento che la sapienza rappresenta l'inizio del pensiero
del discorso, come potrò non contarne undici?
Non devi
infatti separare la sapienza dalla corona (Keter, la prima
sefirah), che è il pensiero dell'inizio del discorso,
sebbene tu non possa afferrare il pensiero di Colui che conta
e che unisce. (...) Poiché non vi è fine alla causa
del pensiero dell'inizio del discorso, come potrò fare
del pensiero una sefirah?
Non dire dunque che esse sono
undici né nove.
Sebbene il discorso sia nell'infinito,
vi è nondimeno una causa sottile, o un essere sottile
che il pensiero afferra nella contemplazione di ciò che
vi allude. Questa causa rappresenta pertanto una sefirah
del pensiero, che è un essere sottile in cui ve ne sono
dieci.
Le cose hanno dimensioni e misura, ma il pensiero non
ha misura; per questo vanno di dieci in dieci: dalle sottili
derivano quelle che sono state tracciate, giacché dieci
derivano da dieci, le sottili da quelle poste nell'intima sottigliezza.
Dalla forza di allusione del pensiero riconosciamo ciò
che possiamo comprendere e quanto siamo costretti a tralasciare,
giacché da quel punto in poi non è possibile capire
il pensiero allusivo. La cosa creata non ha infatti la forza
di afferrare l'intima allusione del pensiero alla comprensione
dell'En sof (l'ineffabile, l'infinito) giacché
ogni contemplazione nella sapienza, a partire dalla comprensione
intellettuale, è sottigliezza, allusione del suo pensiero
nell'En sof. Per questo afferma: dieci e non nove,
giacché il pensiero non concepisce di dare misura a ciò
che è al di sopra della sapienza, se non attraverso la
contemplazione, come è detto:
"devi intuire con sapienza".
Intuire è un verbo all'infinito; in quanto imperativo,
devi intuire è rivolto alle sole persone in grado
di comprendere. (...)»
(Traduzione di Giulio
Busi, in Mistica Ebraica, ed. Einaudi, 1995)
Quanto alla frase "prima
dell'Uno che numero puoi contare", la si trova nel seguente
contesto:
(VII) Dieci Sephirot beli-mah, è insita la loro fine
nel loro principio e il loro principio nella loro fine, come
la fiamma è legata al tizzone ardente. Conosci, conta
e scrivi. Il Signore è Unico (Yachid) e non ce
n'è un secondo. E prima dell'uno, che numero puoi contare?»
Prima di ciò, il Sefer ha-Yetzirah dice:
(IV) Dieci Sephirot beli-mah, dieci e non nove, dieci e non
undici; intuisci con sapienza e sii saggio con la comprensione:
esamina servendoti di esse e indaga su di esse; conosci, conta
e scrivi. Colloca l'argomento nella sua luce, e poni il Creatore
sul suo trono. I suoi attributi sono dieci e non hanno fine.
(V) Dieci Sephirot beli-mah; la loro qualità è
dieci e non hanno fine: la profondità del principio e
la profondità della fine, la profondità del bene
e la profondità del male, la profondità di sopra
e la profondità di sotto, la profondità dell'oriente
ela profondità dell'occidente, la profondità del
settentrione e la profondità del meridione. E un Signore
unico Dio e Re certo domina su tutte dalla sua santa Residenza
e per l'eternità.»
Quello che ci mostra qui il Sefer ha-Yetzirah, è proprio
il carro (Merkabà) della visione del profeta Ezechiele.
Infatti il testo continua citando Ezechiele 1:14 "E le
Chayot (gli animali celesti che sorreggono il trono di Dio)
corrono e ritornano":
(VIII) Dieci Sephirot beli-mah;
frena la tua bocca dal parlare e il tuo cuore dal meditare. E
se il tuo cuore corresse a meditare, riportalo là dov'è
partito. E ricorda che così è stato detto: "E
le Chayot corrono e ritornano". Su ciò è stato
stipulato il patto.»
Ma leggendo tutto:
(VI) Dieci Sephirot beli-mah; il loro aspetto è l'aspetto
della folgore e la loro direzione non ha fine. Il Suo verbo è in esse quando emanano e quando ritornano. Alla sua parola obbediscono
con la furia della tempesta e si prostrano dinanzi al Suo Trono.»
Cos'è quel "verbo"?
È Maamarò, in ebraico, parola analoga al
Logos di Eraclito, ossia "il significato del mondo",
o di Filone, per cui esso è "l'intelletto del mondo",
e comunque, per entrambi è: "l'emanazione divina".
Insomma, è lo strumento della Creazione. E cosa sono,
allora, le Sephirot? È certamente un errore tradurre
con "emanazioni", e anche far derivare Sephirah
da Sappir, zaffiro. Sephirah deriva semplicemente dal
verbo ebraico "s
ph r", ossia "contare".
Ma là dove "contare" si dice "mispar"
si intende contare con numeri ordinari (misparim), mentre
con Sephirot si intendono i numeri considerati principi dell'universo
o gradi della Creazione. In un certo senso, qui incontriamo l'Aleph
come primo numero transfinito: nel primo Nome che la Torah
ci mostra dell'entità Dio: Elohim, (scritto Aleph,
Lamed, He, Yod, Mem) il Creatore che "In principio fece
il cielo e la terra".
Elohim è un nome al plurale, e nella Torah bisogna
arrivare al secondo capitolo prima di vedere il Nome di Dio scritto
nel tetragramma impronunziabile: YHVH.
Ma proprio Elohim creò il cielo e la terra:
«Bereshit Barah Elohim ET haShamaim veET haHaretz»
cioè, appunto: «In principio Elohim creò
il cielo e la terra», e dove nel testo ebraico si legge
«creò "ET"», cioè
le lettere Aleph e Tau, che sono la prima e l'ultima
dell'alfabeto (l'Alfa e l'Omega, direbbe il Cristo...), si deve
intendere, secondo la Tradizione, che Elohim creò
per prima cosa le 22 lettere dell'alfabeto ebraico. Così
nel Sefer ha-Yetzirah, nel secondo capitolo, versetto secondo:
(II) Ventidue lettere fondamentali: Egli le ha scolpite, le
ha forgiate, le ha pesate, le ha alternate, le ha purificate,
e con esse ha formato l'anima dell'intera creazione e l'anima
di tutto ciò che è destinato ad essere creato.
(III) Ventidue lettere fondamentali: tre madri, sette doppie
e dodici semplici. Scolpite nella voce, forgiate nell'aria, e
fissate nella bocca in cinque luoghi: nella gola, nelle labbra,
nel palato, nei denti, nella lingua.
(IV) Ventidue lettere fondamentali, fissate in un cerchio
con 231 porte. Il cerchio ruota in avanti o indietro e il suo
motto è questo: Niente in alto eccelle nel bene ('oneg='NG;
anche: "il piacere"), e niente in basso eccelle
nel male (nega'=NG'; che vuol dire "piaga").
'oneg nega'
(V) Come Egli le pesa e alterna fra loro? Aleph con tutte
le altre e tutte le altre con Aleph. Beth con tutte le altre
e tutte le altre con Beth, e così via. Esse poi attraversano
le 231 porte e in questo modo tutta la creazione e l'intero linguaggio
scaturiscono da un'unica combinazione di lettere.
(VI) Egli ha creato dal caos
la forma e ha reso l'inesistente esistente. Ha scolpito grandi
colonne d'aria impalpabile. E questo è il segno: Egli
scruta, alterna e realizza l'intera creazione e tutte le cose
con un'unica combinazione di lettere. Il segno di tutto ciò
sono ventidue elementi in un unico corpo.»
Perché 231 porte? Basta sommare la prima lettera con la
seconda, la prima con la terza e così via, ottenedo così
ventun tipi; combinando la seconda con la terza, quarta ecc.
si ottengono venti tipi; la terza con la quarta diciannove, fino
alla ventunesima che fornisce un tipo. Lo schema è il
seguente:
21+ 19+ 18+ 17+ 16+ 15+ 14+ 13+
12+ 11+ 10+ 9+ 8+ 7+ 6+ 5+ 4+ 3+ 2+ 1 =
231.
Il IV capitolo il Sefer haYetzirah tratta delle "Sette doppie",
ossia delle lettere Beth, Gimel, Dalet, Kof, Phe, Resh e Tau,
(doppie non perché cambiano pronuncia Bet/vet, Phe/fe,
ecc., in quanto la Resh fa eccezione, avendo, apparentemente,
un'unica pronuncia. Si pensa che siano dette doppie per via della
loro corrispondenza alle sette opposizioni fondamentali della
vita umana: vita-morte, pace-guerra, sapienza-follia, ricchezza-povertà,
fertilità-sterilità, bellezza-bruttezza, dominio-servitù),
al versetto 8 propone il calcolo fattoriale:
(VIII) Sette doppie: Bet Ghimel Daleth Kof Phe Resh Tau. In
che modo Egli le ha fuse l'una nell'altra? Due mattoni costruiscono
due case; tre mattoni costruiscono sei case; quattro mattoni
costruiscono ventiquattro case; cinque mattoni costruiscono centoventi
case; sei mattoni costruiscono settecentoventi case; sette mattoni
costruiscono cinquemilaquaranta case. Da qui in poi deduci e
calcola quanto la bocca non può pronunciare e quanto l'orecchio
non può udire.»
Da qui in avanti, tutto il quarto capitolo dice quali lettere
Dio ha fuso e come, creando l'uomo primordiale, o l'uomo "Sefirotico"
(maschio e femmina).
Ma a cosa serve il Sefer haYetzirah?
Beh, a meditare e contemplare la Creazione, ma è pure,
sostanzialmente, un "manuale", o una sorta di spartito
musicale per ripetere i "suoni" (ossia le permutazioni
dei suoni fondamentali) che il Creatore ha usato per creare il
suo mondo, così permettendo all'uomo che li ripeta correttamente
di creare a sua volta altra vita, o cambiare il mondo di Dio.
Fra l'altro, le sette doppie servono solo per "fare"
gli orifizi del volto; ad esempio, la Beth è per
la bocca, e la Daleth per l'occhio sinistro, mentre l'occhio
destro è Ghimel.
Nel V capitolo, dove si tratta delle dodici lettere semplici
(He, Vav, Zain, Chet, Tet, Yod, Lamed, Nun, Sof, Ayn, Tzade,
Caph), nel primo versetto si dice:
«(I...) Il loro fondamento è: vista, udito, odorato,
favella (o anche: stasi), gusto, coito, azione, movimento,
ira, riso, meditazione, sonno (ma anche: gioia, o,
altrove: dibbur: parola)»
E quindi:
(III) Dodici semplici: He, Vav, Zain, Chet, Tet, Yod, Lamed,
Nun, Sof, Ayn, Tzade, Caph. Egli le ha scolpite, le ha forgiate,
le ha pesate, le ha alternate, le ha purificate, e con esse ha
formato i dodici segni dello Zodiaco nel mondo, dodici mesi dell'anno
o dodici membra principali nell'uomo (maschio e femmina).
E così la Yod, ad esempio, è il segno della
Vergine, il mese di Elul e il rene sinistro dell'uomo
maschio e femmina, o la lettera Sod il segno del Sagittario,
il mese di Kislew e la milza nell'uomo maschio e femmina.
E il capitolo VI comincia così:
(I) Tre padri e le loro generazioni, sette pianeti e le loro
schere, e dodici angoli obliqui, e una prova di ciò è
nei testimoni fidati: il mondo, l'anno e l'uomo. Il mondo: il
suo numero è dieci; l'anno: il suo numero è dieci;
l'uomo: il suo numero è dieci. In ognuno di essi vi sono
ventidue elementi. Nel mondo: tre, fuoco, aria e acqua, poi sette
pianeti e dodici segni dello Zodiaco. Nell'anno: tre, freddo,
caldo e stato temperato, sette giorni di Bereshit (principio)
e dodici mesi. Nell'uomo: tre, il capo, il ventre e il petto.
Sette porte dell'uomo e dodici membra principali.
... di qui in poi facendo uscir di senno i traduttori che non
avevano già rinunciato al primo capitolo, che però
si consolano nell'accorgersi che mancano solo 8 versetti al colofone,
che dice:
«Qui termina il libro delle lettere di Abramo, nostro
Patriarca, chiamato Sefer haYetzirah. Chiunque mediterà
su di esso aumenteràla misura della sua sapienza.»
O, in un'altra versione:
«...Chiunque si occuperà
di esso o lo studierà conoscerà i suoi segreti:
gli si riveleranno i segreti del mondo superiore e quelli del
mondo inferiore; e gli verrà assicurato il mondo futuro».
Il Sefer haYetzirah non è però unico nel suo genere:
esistono molti altri trattati sulla "forma" del corpo
divino o sulla forma delle lettere dell'alfabeto ebraico. Il
problema è che vanno letti nella lingua sacra, e la traduzione
impiccia e impedisce di volar via dal proprio limitato cervello...
Così si preferisce di norma rivolgersi ai numeri, quasi
fossero davvero loro l'agognata "lingua universale"...
E così, forse, potrebbe pure essere. Ma dovremmo dimenticare
l'ammonimento talmudico che ti ho citato in inizio, e goderci
tutta la vertigine del numero in movimento, senza occuparci delle
conseguenze per coloro che si aspettano qualcosa da noi...
Quanto alla mia personale esperienza,
nei cinque anni che ho passato
a Calcutta per studiare musica hindostani ricordo di aver
dovuto imparare a far risonare per "simpatia" le corde
fuori tastiera del mio strumento. Mi si diceva di far molta attenzione,
perché era con la musica che gli dèi avevano formato
il mondo, e con la musica sarebbe stato possibile distruggerlo...
Ora, su sette corde sopra i tasti era possibile agire col plettro;
su tre di esse si poteva agire col plettro e con la mano sinistra,
che con due sole dita (maschio e femmina) poteva modulare la
melodia; infine, sotto i tasti, c'erano dodici corde di lunghezza
proporzionale accordate secondo la scala modale, ma queste potevano
suonare solo per effetto della vibrazione prodotta dalle corde
principali, e trasmessa dalla cassa armonica. Tutto ciò
doveva produrre suoni intonati su una scala di cinque, o sei,
o sette o più note, ma ottenute da una divisione in 22
parti dell'ottava, e non di dodici (o 24) parti, come nella nostra
tradizione musicale. Quei ventiduesimi si chiamano schruti,
che può venir tradotto in "udibili", intendendo
ciò che è al limite ragionevole del discernimento
d'un orecchio normale; ma in effetti "schruti"
significa "unità riconoscibile al senso". Ventidue
Aleph erano il mio pane quotidiano, mentre cantavo in note esotiche
le mie pene d'amore di ragazzo sedicenne pieno di ormoni in ebollizione.
Per questo, mentre tutti i miei compagni di studio suonavano
nel ciclo ritmico chiamato Teen-Tal, di sedici battiti
divisi in quattro gruppi di quattro, col gruppo debole al terzo
posto, il mio Maestro costringeva me solo a soffrire nel durissimo
Tal-Sawari, che si costituiva di quattro gruppi così
divisi: 2+2+2+2+1 e mezzo+1 e mezzo, per un totale di 11 battiti.
Io soffrivo e sudavo, sudavo e soffrivo, e pensavo alle cosce
morbide della figlia minore del mio maestro, Rangeeta, che mi
guardava con desiderio. Una notte di maggio, nel profumo degli
alberi di mango, Rangeeta scalò il muro interno della
casa, lungo la buganville, fino alla mia finestra. La vidi incorniciata
dalla luna, mentre lasciava cadere il suo sari a terra, e veniva
verso di me come il più bel sogno di ogni tempo. Mentre
ci amavamo, il ritmo del Tal-Sawari non cessava di vorticarmi
dentro, e Rangeeta sembrava danzarlo per me, nei nostri respiri,
nei baci, in quella mia prima penetrazione.
Quando al mattino cominciai la mia lezione, il Maestro spalancò
gli occhi e prese lui stesso ad accompagnarmi nel Tal-Sawari.
Quel giorno ricevetti le sue lodi, un allievo da iniziare alla
musica, una splendida camicia di seta in dono, e uno sguardo
sornione rivolto a me e sua figlia.
Quando, un anno dopo, gli chiesi che cosa fosse stato a colpirlo
del mio suonare, mi rispose: «dal tuo strumento si sono
levate insieme le tre voci sacre: esse fluttuavano nell'aria
come eroi divini, pieni di luce... non te n'eri accorto?»
Dovetti rispondere di no... ma sapevo ormai benissimo far vibrare
le mie corde simpatiche per produrre accordi di tre note suonandone
una sola, modulata fra ventuno possibilità di permutazione.
Purtroppo, però, non ne ricordavo più il piacere,
né il significato; ero solo abituato ad accordare bene
il mio strumento e a dirigere con esattezza le mie note, benché
quella musica mi servisse a poco.
Oggi non posso che ringraziare Dio, che permette sempre l'avere
un'altra possibilità.
C.R.
ALEPH