...E se fosse stato veramente un violoncello rubato? Dopotutto io l'avevo sospettato fortemente, come un'intuizione istintiva, però precisa; ma lui era stato così veloce nel mostrarsi offeso, nel rovesciare i suoi modi, a capovolgere le cose trascinandomi in una situazione terribilmente imbarazzante, dove io ero rimasto muto, come istupidito, incapace di reagire razionalmente, a credere di aver intuito malissimo e maledire la mia lingua malaccorta... non ero più riuscito a farlo parlare: forse avevo davvero avvicinato troppo un suo mistero?
Ma poteva anche non essere affatto il segreto di un furto! Poteva aver ricevuto quel violoncello in circostanze dolorose, delle quali aveva una sorta di pudore a parlare, o anche solo a ricordare...
Ginevra, lentamente, si avvicinava, e io discutevo con me stesso, come se tutt'ad un tratto avessi avuto vicino a me un interlocutore gentile ma severo, che cercava di spiegarmi cos'è il buon senso e come farne uso per capire qual è e dov'è la realtà delle cose.
Eppure quell'uomo mi aveva detto soltanto poche cose, ma proprio con quelle era riuscito a cambiarmi profondamente, come nessuno era mai riuscito prima. Me ne rendevo conto pienamente solo ora: in quei giorni, a Torino, su quella panchina, davanti alla riproduzione della ghironda di Bosch, io credevo davvero di voler affascinare Sophia, ma in realtà volevo solo riuscire ad innamorarmi nuovamente di me stesso, e solo per quel me stesso intessevo parole e offrivo l'occasione di rispondere; solo me stesso -in quel momento ne ero certo, era così semplice e chiaro!- osservavo e cercavo in Sophia, mia anima futura, da ammaliare, da persuadere, da conquistare, da amare, da possedere.
Forse, in fondo, era nient'altro che una vicenda assai banale, e nascondeva appena la mediocrità del mio destino, obbligato a cercar di sfuggire ogni giorno il disgusto di vivere una vita non chiesta, non desiderata, non conquistata se non con le piccole vanità più comuni: voglio essere il più intelligente perché sono cosciente di non essere il più forte...
Ma per dio, no! Non poteva esser vero che tutto fosse così stupidamente, banalmente ovvio! No: io avevo un Giovan Battista Guadagnini autentico in quella custodia sul sedile di dietro! E un Guadagnini non è uno strumento per i mediocri: io stavo portando con me il vessillo della mia gloria, la rivelazione della mia verità occulta.
E Ginevra arrivò davanti ai miei occhi, severa e terribile, perché alle tre in punto avrei saputo se io ero un essere autentico, o solo una mediocre imitazione, un comune uomo di periferia, dal destino comune, nel comune squallore di una vita di illusioni, di vanità e di nulla.
Avevo addosso un'agitazione insopportabile.
Ingoiai del cibo, camminai su e giù intorno alla Victoria Hall, a riconnettere ricordi di frasi, parole, gesti di quell'uomo. Chiamai quel numero di telefono un irragionevole numero di volte, a pochi secondi l'una dall'altra, con rabbia, e poi con rassegnazione: era solo un atto necessario a calmare il mio inconscio, piuttosto che lasciarlo agitare ancora di più.
Mi accorgevo allora per la prima volta di quel fatto inquietante: non riuscivo più a ricordare il suo volto. Credevo di sapere perfettamente che aveva i capelli bianchi di qualcuno che era stato biondo; aveva occhi azzurri, borse sotto gli occhi, non portava occhiali, non aveva baffi né barba, la carnagione era rosea, aveva labbra sottili, denti ingialliti dal fumo, orecchi grandi... tutto mi era presente, ma in frammenti impossibili da ricongiungere: vedevo i suoi sguardi e la sua voce insieme, su volti che mutavano in continuazione, impercettibilmente, ma ricostruendo persone incompatibili, assolutamente diverse fra loro.
Sentivo questo smarrimento vertiginoso darmi la nausea; so bene di aver barcollato come un ubriaco per la strada, perché c'era gente che mi avvicinava preoccupata, altri che si allontanavano guardandomi con disprezzo.
Cercai di ricompormi, ed entrai dal liutaio.
Fu un'esperienza imbarazzante, vergognosa. Lui rigirò lungamente il violoncello fra le mani, e poi, inaspettatamente, mi chiese cosa pensavo che fosse. Io che mi ero riproposto di non suggerirgli nulla, preso alla sprovvista gli dissi che credevo fosse un Guadagnini.
Subito il liutaio sorrise. Mi disse che puntavo molto alto, ma che non avevo del tutto torto: gli sembrava di tenere fra le mani un'opera giovanile del grande Guadagnini, ispirata alle linee del Guarnieri del Gesù, ed eseguita con magnificenza. Confermò quindi la mia idea con molte riserve assai prudenti, o forse solo diplomatiche: certamente il riccio è rifatto; l'etichetta all'interno è incomprensibile, perché è un brutto falso di quelle di Vuillaume che noi, come lei sa, conosciamo molto bene; ma lei sicuramente avrà qualche documentazione di questo violoncello, se veramente è un Guadagnini come a noi pare...
E su quella domanda io mi resi conto che avevo fatto una grandiosa stupidaggine a prendere quell'appuntamento: lasciare a loro quel violoncello per avere una seria expertise mi sarebbe costato soldi che non avevo, e non aveva assolutamente senso farlo, senza aver prima parlato con Ahasvero, per sapere se c'erano documenti, e quali.
Il liutaio mi scrutava con un'aria fin troppo pacata, da gentiluomo ginevrino, abituato a clienti ricchi o famosi. Ero certo che studiava il mio tipo, col sospetto che fossi un ladro di strumenti, o che ci fosse qualcosa di irregolare e di troppo strano nel mio portarlo fin da lui.
Quando mi chiese come l'avevo avuto, mi resi conto che non potevo rispondergli altro che con un ridicolo, offensivo "dall'Ebreo errante; si chiama Ahasvero... mi perdoni, sono un pazzo...". Così improvvisai lì per lì la storia per cui quello era uno strumento del nonno che era morto a New York, che l'avevamo conservato con le sue cose in soffitta, che per ora non potevo andare oltre il chiedergli un giudizio generico e che avrei subito tolto il disturbo pagando per il fastidio di quella mezz'ora.
Mi rispose che non gli dovevo nulla, ma fece di tutto per avere il mio indirizzo, al fine di poter eventualmente esaminare ancora e più approfonditamente quel violoncello, indubbiamente splendido nonostante le fratture, e probabilmente autentico.
Riuscii a sfuggirgli dandogli un indirizzo falso, per poi angosciarmi prendendo coscienza del fatto che loro avevano il mio vero nome e il mio vero numero di telefono, e soprattutto che non erano stupidi come me.
Restai in un bar per circa un'ora a cercar di calmarmi.
Guardavo la custodia del mio violoncello, quello che mio padre aveva comprato al mio quinto anno di studi, proprio dal liutaio che mi aveva parlato poco prima; il violoncello con cui avevo sognato di diventare un famoso solista, di alzare lo sguardo severo verso il direttore d'orchestra, assicurarmi il mio dominio sul suo gesto, e poi sollevare l'archetto con movimento leonino, per abbatterlo sulla prima corda nel potente Si iniziale del Concerto di Dvorak opera 104.
Cos'ero diventato? Un solista di musica barocca, ingaggiato a volte per un piccolo solo, altre per un Basso Continuo a un dilettante di flauto dolce con pulsioni da direttore d'orchestra, oppure a uno stridente violino barocco "alla moda". L'unica cosa che in quel momento m'importava sapere era se là dentro ci avevo messo o no un autentico Guadagnini.
Ed era l'unica cosa che in quel momento non mi era assolutamente possibile sapere.
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