-VI-

 

   Gironzolai lungamente con la macchina nelle periferie, dove ricordavo essere l'appartamento di Ahasvero.
Ogni zona mi sembrava indistinguibile dall'altra, e io continuavo a darmi dell'incosciente, dell'immaturo, a chiedermi quando finalmente sarei cresciuto e diventato un essere razionale e pensante. Non avevo neppure i soldi per pagarmi una cena, se volevo avere benzina sufficiente per tornare a casa.
Le informazioni telefoniche mi avevano già informato una settimana prima chiamando dall'Italia: quel numero era protetto dal segreto; non potevo ottenerne il relativo indirizzo né il nome dell'intestatario.
Avrei dovuto semplicemente attendere che lui si rifacesse vivo in qualche modo. E sicuramente l'avrebbe fatto: sicuramente l'attesa a cui mi sottoponeva era soltanto una prova, un modo un po' speciale di farmi meditare a fondo su ciò che aveva fatto per me.
Rientrai a casa a notte tarda, dopo un viaggio d'inferno, con la macchina che sembrava rifiutarsi di sopravvivere alla prova. Quando mi gettai sul letto, avevo deciso di non preoccuparmi più per quella faccenda fino al prossimo contatto con colui che l'aveva generata, dovessero pure passare dei mesi.
Ma passarono solo quindici giorni.
Quel mattino trovai fra la posta un pacchetto spedito da New York, senza il nome del mittente. Dentro c'era un vecchio ponticello, molto usato ma d'un legno splendido, e il messaggio che attendevo. Sul biglietto battuto a macchina -e come il primo che avevo ricevuto, anche questo senza firma- c'era scritto:

 

«Mio giovane amico, deve perdonarmi, ma un complicato accavallarsi di difficili affari e di problemi personali mi ha preso al punto di quasi dimenticarmi di lei. Spero non se la sia presa troppo a male per il mio silenzio. Presto ci rivedremo; per ora devo fermarmi ancora qualche settimana qui a New York per affari. Può scrivermi, se vuole, all'indirizzo che le ho dato, anche se non so ancora esattamente dove sarò nei prossimi mesi. Spero che il violoncello le dia soddisfazioni. Ho ritrovato in un cassetto anche il vecchio ponticello, di cui avevo scordato l'esistenza. Penso le faccia piacere averlo. Le auguro grandi successi.
Suo amico Ahasvero.
P.S. -non le è venuto mai in mente di suonare un violoncello a cinque corde?
Di nuovo a presto!»

 

Maledetto uomo, Non avevo mai avuto alcun indirizzo!
Mi prendeva in giro: lo sentivo dal tono della lettera. Anche sul pacchetto della penna stilografica mancava ogni indizio del mittente: non poteva che saperlo benissimo!
Io però, che ormai mi ero abituato a convivere con quel violoncello muto appoggiato alla parete della mia stanza da letto, io che cominciavo a vedere la sua luminosità come quella d'una gradevole scultura antica, assorta nella sua posa silenziosa e ineluttabile, io nuovamente mi sentivo opprimere dall'urgenza di suonarlo, di dargli voce.
E ora avevo un ponticello fra le mani: come una promessa, un complice ammiccamento fra legni preziosi, pronti a combinarsi insieme in quell'infinito numero di permutazioni possibili di linee, di pesi e consistenze, di tensioni e rilassamenti che, come imponderabile miracolo della casualità, possono generare la perfezione acustica di uno strumento a corde.
Lo provai immediatamente; ma se i piedini combaciavano perfettamente -a prova della loro sicura appartenenza a quella tavola armonica- quel ponticello era di un centimetro abbondante più basso dell'altro, rendendolo così incompatibile con la tastiera che era stata montata.
Sentivo di non avere altra scelta che accettare la situazione in modo deciso, come una sfida, considerando che Ahasvero -o come diavolo doveva chiamarsi quello strano uomo- mi aveva indirettamente autorizzato ad agire su quel violoncello, anche in modo radicale, purché io lo suonassi.
Bisognava rifare la tastiera in base alle misure di quel ponticello, e non era cosa che potessi fare da solo: ci volevano un po' di soldi e un liutaio di fiducia. Quest'ultimo lo conoscevo, e per i primi vendetti un mio vecchio arco; proprio quello che mio padre mi aveva comprato a Ginevra, insieme al mio primo violoncello da professionista.
Il liutaio era a Bergamo e si chiamava Enrico.
Eravamo molto amici; lui, un settantenne appassionato del lavoro del legno e della precisione, si era messo a fare il liutaio solo per diletto, trent'anni prima, dopo una difficile operazione alla valvola miocardica che l'aveva costretto a una vita in assoluta tranquillità e controllo di sé.
Riparava strumenti musicali con la scrupolosità di un chirurgo, come se continuasse così a controllare e ricontrollare la riparazione del suo cuore e il suo buon funzionamento.
Io gli volevo molto bene. Andavo spesso a trovarlo per imparare da lui l'uso degli utensili di liuteria, o dei ferri per l'aggiustamento dell'anima, o il modo migliore di fare ritocchi di vernice sul mio violoncello.
Enrico non aveva però nessuna competenza riguardo agli strumenti d'autore: si tirava sempre indietro di fronte al problema di un'attribuzione, dicendo che c'erano troppi falsi e troppo ben fatti perché lui, nei pochi anni che gli restavano da vivere, potesse sprecare i suoi giudizi in errori ingannevoli, o sperare di farsi un'esperienza adeguata a dar opinioni, in fin dei conti, nulla più che superficiali. Tanto -diceva- gli bastavano tutte quelle approssimazioni che già avrebbe potuto formulare in modo di sospetti o ipotesi, e quindi preferiva tenerle prudentemente per sé.
Gli portai il violoncello un lunedì, ricevendo la promessa che l'avrei riavuto a fine settimana. Ma già il giovedì mi telefonò dicendomi che se volevo veramente far suonare quel violoncello c'era ben altro da fare: era necessario non solo fare un'anima nuova, ma anche sostituire la catena perché quella attuale, anche se quasi impercettibilmente, aveva fatto cedere la tavola armonica, certo a causa della tensione eccessiva delle corde montate dal precedente restauratore o dal violoncellista che l'aveva usato.
Enrico, in effetti, mi diceva cose che sapevo già perfettamente, ma che non avevo il coraggio di considerare, dato lo stato del mio conto in banca.
Tuttavia, lui si offrì di fare tutto il lavoro rimandando il pagamento "a tempi migliori", qualsiasi fosse quel futuro. Io, però, avrei dovuto trovargli del legno adeguato, perché lui non possedeva altro che quel che si poteva trovare normalmente in commercio: «...legnaccio: roba troppo giovane per una materia così bella e così nobile come quella di questo tuo violoncello. Io non posso andare in giro per il mondo a cercar legno; tu sì. Se mi trovi il pezzo di abete giusto, in due settimane ti eseguo il lavoro.»
Dovetti convincerlo a finire solo quel che gli avevo chiesto, perché davvero non sapevo dove cercare; e a fine settimana tornai da lui per ritirarlo, con la tastiera abbassata per adattarsi all'altezza del vecchio ponticello ritrovato e spedito da Ahasvero.
«Non ho idea di cosa sia questo violoncello, Claudio, ma certamente è bellissimo, ed è molto antico: sull'età del legno non mi inganno;» mi disse. E continuò: «tutte queste fratture così amorevolmente riparate dovrebbero farti pensare a uno strumento prezioso, non al contrario.
In fin dei conti, solo la tavola e la fascia inferiore sinistra sono fratturate; questo non costringe a nessuno di quei restauri che possono inibire il suono: la tavola fratturata, quando la si incolla bene, suona perfettamente; è il fondo, semmai, che quando si rompe diventa inutilizzabile. Ricorda: un fondo è come una campana; se si spezza e la ripari non risuonerà più. Ma questo fondo è intatto, ed è sicuramente resistentissimo, anche se mi sembra essere scavato fino a rendere gli spessori eccezionalmente sottili.
Ora ascolta bene quel che ti dico: l'abbassamento del manico e della tastiera che ho eseguito per adattare le misure a quelle del tuo bel ponticello antico, sarà certamente un intervento salutare per lo strumento, poiché abbiamo nuovamente ridotto l'angolatura delle corde, e per conseguenza anche la loro pressione su tavola armonica e catena; ma dammi retta: è necessario cambiare al più presto sia la catena che l'anima.
Queste sono di ottimo abete armonico, e fatte indubbiamente molto bene, ma sono sbagliate: colui che le ha ideate non ha indovinato i particolari equilibri di questo violoncello, o forse sono state semplicemente fabbricate con molta diligenza, ma senza applicare nulla più di quella. Insomma: chi ha fatto il lavoro l'ha eseguito con un metodo generico, ossia solo quello che "di regola" produce buoni risultati; però non ha tenuto conto del fatto che un violoncello come questo è un po' come una persona anziana, e non puoi fare la diagnosi delle sue malattie al telefono, e neppure in un'ora di diligente visita specialistica: ci vuole molto più amore e rispetto, ci vuole passione, spirito missionario; ci vuole il coraggio di usare l'intuito e la sensibilità: non solo l'intelligenza.»
«Tu hai certamente tutte queste cose, ma io non ho il pezzo di abete...»
«Ma santo cielo, non ci vorrà mica un pezzo della Santa Croce! Prima o poi lo troverai. Già hai trovato questo splendido ponticello. Ma lo sai che questo è sicuramente un ponticello fatto dal Vuillaume?»
Sussultai: «Come?! E tu come fai a saperlo?»
«Ne ho copiato uno assolutamente identico circa vent'anni fa a Parigi, e lo conservo qua, in questo cassetto. Guarda...»
Mi mostrò un foglio di carta ingiallito, sul quale c'era il disegno a matita di un ponticello esattamente uguale a quello di Ahasvero.
«Sai, Claudio, è successo quell'unica volta che sono andato a Parigi... anzi, quello è stato l'unico viaggio della mia vita, quando dopo l'operazione al cuore avevo lasciato il lavoro di insegnante di scuola elementare e avevo appena cominciato a dilettarmi con lavori di liuteria. Dovevo cambiar vita, i violini mi appassionavano fin da quand'ero ragazzo; decisi semplicemente di fare un viaggio in quel mondo, di incontrare i liutai più famosi; ma i soldi che possedevo mi permettevano solo di visitare per un po' di giorni le botteghe di liuteria parigine...
Sulla rue de Rome c'era una bottega molto elegante... mi sembra che fosse di un certo Levì, certamente un ebreo... Entrai, soprattutto per vedere da vicino una bellissima fotografia di fine Ottocento che era lì incorniciata alla parete, e si vedeva male dalla strada.
Era una foto della fine Ottocento, che ritraeva il nostro grande bergamasco, l'Alfredo Piatti, seduto col suo violoncello di profilo, insieme a un violinista e un pianista che non ricordo chi fossero. Guardai, e mi accorsi dell'altezza eccezionalmente bassa di quel ponticello del Piatti; così cominciai a parlarne col liutaio che era lì (forse proprio il Levì che ti dicevo), e iniziammo a simpatizzare con una lunga, bellissima chiacchierata sull'argomento. Lui finì con lo spiegarmi molte cose illuminanti sui ponticelli e sulla possibilità di far suonare o meno uno strumento solo con delle piccole, quasi insignificanti variazioni intorno a questa straordinaria scheggia di legno.
Per darmi un esempio, mi portò a vedere un magnifico violoncello cremonese del Settecento, di proprietà di qualche famoso solista, e lì da loro per "lavori di modernizzazione", così come mi diceva il Levì, con malcelato disprezzo per il suo cliente. Mi spiegò che quel violoncellista -al contrario di quel che tu hai chiesto a me- voleva far alzare manico e tastiera per ottenere un suono più brillante e più moderno dal suo strumento, ma si ingannava di grosso: solo un miracolo avrebbe potuto far ritrovare tutta la nobiltà e meraviglia del timbro rarissimo di quel capolavoro cremonese, anche se, col massimo della cura, dell'attenzione, della perizia, si fosse tentato di ripetere il ponticello originale, proporzionandolo alla maggior altezza richiesta.
A quel liutaio venivano le lacrime agli occhi nel raccontarmi tutte queste cose; avresti dovuto vedere il modo in cui si carezzava quello strumento, come fosse un figlio...
Non dimenticherò mai quel suo modo di fare, quella sua attenzione, quella sua dolcezza; perché è stato proprio lì che mi sono innamorato anch'io di tutte queste cose... o forse era lì che ho davvero, finalmente capito di amarle...
Bene, per farla breve: ero così colpito da tutta quella storia che gli chiesi di copiare quel ponticello. Lui volle farlo per me, e poi io - vedi qui, dove ho scritto a penna?- mi segnai con precisione tutte le dimensioni e gli spessori, misurandoli col calibro che mi ero da poco comprato e che tenevo sempre -chissà perché?- in tasca.
Lui mi guardò con molta soddisfazione, e poi volle spiegarmi che quello non era affatto un ponticello qualsiasi, ma un ponticello ideato dal più grande liutaio francese: il Jean Baptiste Vuillaume, appunto. Vedi, l'ha scritto qui dietro... è la sua calligrafia, con questi auguri nel suo buffo italiano; guarda bene... leggi: "Ponticello fatto dal grande J. B. Vuillaume, nel '67. Spero che tutta questa vostra scrupolosità diventa rispetto e amore; così voi potrà un giorno diventare voi anche un grande Luthier". È bello, no?»
«...Ma... è la data scritta dentro al violoncello!...»
«...È vero, lo noto adesso... però questo violoncello non è certamente un Vuillaume: quell'etichetta è senza dubbio falsa!»
« No, non può essere un Vuillaume, questo è certo; ma è una ben buffa combinazione, non credi?»
«Vuoi dire che questo potrebbe essere proprio il violoncello che io avevo visto là in quella bottega? Non lo so, non lo ricordo così bene... in realtà forse non l'avevo neppure guardato con attenzione...»
«Sì, tu eri colpito dal liutaio, non dal violoncello. Ma non c'è nulla che te lo fa ricordare: che so, la vernice, o le fratture...»
«...Nulla, Claudio. Credo di non aver fatto attenzione a quel violoncello. E sono passati ormai vent'anni...»
«Sì, ma anche tu mi dici che questo violoncello è sicuramente del Settecento...»
«Ma... abbi pazienza: c'è una bella differenza fra un violoncello del Settecento e un violoncello di "grande autore di scuola cremonese"! Io non sono competente in merito; devi chiedere ad altri.»
«Tu sai benissimo che io non ho i soldi per farlo!»
«E io, in questo, non ti posso aiutare. Ascolta: tu non hai ancora voluto dirmi com'è che hai questo violoncello, e a me non interessa; ma tienilo con molta attenzione, perché questo è veramente un grande strumento.»
«Non è rubato, se è questo che intendi!»
«Ma... no! non intendo affatto questo! Perché dovrei pensare che l'hai rubato? Non riesco proprio a immaginarti ladro di un bel niente, neppure di violoncelli! Non capisco perché mi dici così... Io forse avrei fatto meglio a dire: non capisco perché tu vuoi credere per forza che sia l'opera di un "grande autore cremonese" se non l'hai avuto, o l'hai trovato, o l'hai comprato come tale.
Senti bene quel che ti dico: ho una sincera ammirazione per te; tu sei un violoncellista raro, molto raro. Sono certo di riuscire a far suonare questo strumento con gli interventi che ti ho detto, perché sono abbastanza vecchio per capire cose, del tipo di "quel che posso ancora fare nella vita e quel che non mi è dato di poter compiere".
Questo violoncello non te lo può mettere a posto un giovane, foss'anche il più brillante liutaio del mondo. E ti assicuro che non bastano neppure l'amore, la passione o gli anni d'esperienza, perché qui ci vuole una sola cosa: la compassione.
Io ho provato il suono di questo strumento giovedì: l'ho fatto suonare a un violoncellista della Scala di Milano che mi porta i suoi archetti da rincrinare. Il suono è come diviso in due parti, misteriosamente scoordinate, incompatibili fra loro: una voce sembra vivere solo all'esterno, a una certa distanza dal corpo del violoncello, ed è terribilmente strozzata -o forse farei meglio a dire "legata", imprigionata nell'aria intorno allo strumento-, e l'altra è come fosse chiusa dentro a quella cassa, incapace di uscirne; ma quest'ultima sembra chiamare da lontanissimo: è una voce profonda, meravigliosa, incredibilmente struggente; ti ruba il cuore...
Quello stupido orchestrale continuava a non sentirla, e notava solo che il violoncello non era di buona resa, che non c'era nessuna cavata possibile. Io invece pensavo tra me: questa è la voce di cui Claudio ha bisogno.
Cerca di capire: sono le fratture a fare gli uomini, sono i dolori, la prova delle sofferenze. È solo questo che rende ogni individuo unico, ed è impossibile, è stupido credere di poter applicare un sistema comune per tutti. Non esiste nemmeno un sistema che tu possa cercare: si può solo trovare un modo, una maniera; e forse la si trova solo per puro caso, solo perché hai teso la mano per fare qualcosa senza difenderti, senza ritrarti dietro alla tua tecnica, alla tua conoscenza, al "ragionamento"... Ma solo, credimi... solo se si è avuta compassione...
Bene, ascolta: in questo violoncello adesso ci sono due voci; una se ne sta chiusa dentro e una viaggia in solitudine per qualche metro fuori dallo strumento. Io ho provato anche a farti un'anima nuova, parecchio più grossa di quella che c'era, ma non riesce a cambiare in alcun modo lo stato del suono.
Però tu ora devi portarti a casa questo violoncello meraviglioso, devi suonartelo per un po'. E devi cercar di sentire bene cosa ti dice, cosa ti racconta quella voce: scoprire se tu la vuoi, oppure se preferisci lasciarla chiusa là dentro.
Il resto verrà da sé, se deve venire; anche il pezzo di legno giusto...»
Abbracciai Enrico. Me ne tornai a casa, quella sera, amando quell'anima rinnovata, con quel mistero là dentro da svelare, da ascoltare.

 


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