-VII-
Sì, Enrico aveva ragione:
tutto era là come me l'aveva descritto.
E io volevo possedere quella voce, quel segreto chiuso là
dentro, perché finalmente ero certo di aver capito quale
doveva essere il messaggio di Ahasvero: quel violoncello era
come la ghironda dipinta da Hieronymus Bosch, quella che svelavo
a me stesso e a lui, il giorno del nostro primo incontro.
Nulla è casuale; com'è ripetuto fino alla nausea
nei vecchi romanzi, ci sono volte che questo ci sembra evidente,
e il vedere, a tratti, il disegno invisibile del destino, ci
fa sentire immortali, più forti del destino stesso.
Fu allora che ebbi l'amore di Giulia.
Abitava il piano sotto al mio piccolo appartamento torinese,
ricavato da due soffitte unificate di un palazzo un po' lugubre,
di fine Ottocento, vicino a piazza Statuto. La conoscevo solo
di vista, avendola spesso incontrata per le scale o nei negozi
lì intorno. Era una studentessa di Storia dell'Arte all'Università
di Torino; non era né bella né brutta, e non mi
era mai passato per la testa di cercare un'amicizia con lei:
era una vicina di casa e basta. Ma la sera dopo il mio ritorno
da Bergamo, senza capire il perché lo stavo facendo, scesi
quel piano di scale che mi divideva da lei, e suonai alla sua
porta.
«Ti chiedo scusa, ma da buon vicino di casa devo compiere
il mio dovere di venirti a rompere le scatole: sono rimasto completamente
senza sale per farmi gli spaghetti. Ne hai un po'?»
«Caspita se sei sfortunato! L'abbiamo finito appena adesso
per cuocere i nostri... ma se vuoi un po' di spaghetti già
bell'e pronti e scotti nel sugo troppo salato che ci ha messo
quella scema che vedi là...»
In casa sua c'era una piccola festa tra compagne di corso, e
io non mi feci pregare: portai del vino e dei dolci, poi passammo
la serata in chiacchiere, scherzi e risate.
Giulia era del cuneese, figlia di gente molto ricca. I suoi
genitori erano i miei padroni di casa, ed erano proprietari di
tutto il palazzo, così potevano permettersi di lasciar
usare alla loro unica figlia un sontuoso appartamento per permetterle
di fermarsi a Torino durante gli studi, al patto malgradito che
non lo dividesse con altri studenti in subaffitto.
Lei, infatti, sopportava male il non poter vivere in una casa
normale con altri suoi coetanei, e con gli amici si vergognava
di abitare tutta sola in un appartamento così grande,
per di più in pieno centro. Di musica non sapeva quasi
nulla, non ne ascoltava, non era mai andata a un concerto, ma
era curiosissima di tutto quel che riguardava la vita di un musicista,
qualsiasi fosse lo scopo della sua arte.
Io, in effetti, mi rendevo conto di essere per lei una specie
di romantico bohémien, vivendo da solo in uno stretto
attico, artista malinconico con la sua musica, un letto, i libri,
il violoncello, e le padelle, e i piatti, e i pacchi di spaghetti,
tutti insieme nella stessa stanza.
A tarda sera tutte le sue amiche ci salutarono e uscirono, noi
restammo ancora a parlarci a lume di candela qualche ora; quando
le candele furono quasi tutte consumate, ci soffiammo sopra e
facemmo l'amore tutta la notte e il giorno dopo.
Non sapevo spiegarmi il perché avevo scelto lei; sapevo
solo che stavo facendo qualcosa di ingiusto, e che lo facevo
solo per me stesso, spinto da uno spietato egoismo di cui non
riuscivo a darmi ragione. Mi accorgevo che dietro a tutto questo
c'era un segreto importante, forse grave, ma il desiderio di
ignorarlo era il più forte.
Comunque, ben presto trasferii tutte le mie cose nel suo appartamento,
conobbi i suoi genitori, che furono costretti da lei ad accettarmi
in famiglia, e cominciai a vivere una vita di coppia, con i litigi
per lavare i piatti o il bagno, il parlare di sé sempre
al plurale, le serate occupate ad incontrare altre coppie di
amici.
E di amici, per la prima volta, ne avevo tanti.
Avevo accettato una supplenza annuale in una scuola media appena
fuori città, così comprai una macchina per andarci
tutte le mattine, e mi ritrovai comunque ricco abbastanza per
provare il gusto di andare al cinema o in pizzeria quando volevo,
e anche per comprarmi qualche libro in più. I violoncelli,
in quei mesi, restarono muti nelle loro custodie: io stavo provando
a vivere la vita di un altro. E Ahasvero era scomparso.
Una sera di maggio Giulia invitò due suoi amici restauratori.
Simpatizzammo molto intorno ad argomenti musicali, così
io a mia volta fui invitato per il giorno dopo al loro laboratorio,
dove stavano restaurando una grande pala d'altare dei primi del
Seicento.
Su quel dipinto erano raffigurati diversi strumenti musicali,
in una parte molto malridotta della tela. In un lungo pomeriggio
di spiegazioni e disegni, potei aiutarli a ricostruire accettabilmente
le figure dei violini e dei liuti, e infine mi portarono dallo
studio al laboratorio vero e proprio, dov'erano gli originali
delle opere in restauro. Appena vidi, appoggiato al muro e liberato
dalla tela dipinta, il grande telaio ligneo che apparteneva a
quell'opera, cominciai a sentirmi euforico: erano quattro assi
d'abete tagliato di quarto, in perfetto stato di conservazione,
con venature perfettamente parallele, e con almeno quattrocento
anni di eccellente stagionatura ai fumi d'incenso di una chiesa
in prossimità del mare.
I restauratori, riconoscenti per la mia consulenza, accettarono
di essere miei complici in un piccolo furto, chiudendosi occhi
e orecchie così da permettermi di tagliare e portar via
un lungo pezzo del magnifico legno di quel telaio.
Non potevo che essere raggiante: il pezzo giusto di abete armonico
per Enrico mi era venuto incontro in quello strano, affascinante
modo, per quel puro caso fortunato!
Tutto ricominciò d'un colpo: Giulia dovette scoprire
che un violoncellista passa ore e ore al giorno suonando, e le
altre le passa a contemplare il suo strumento, o ad ascoltare
musica, o a leggere, o a scrivere. Io dovevo essere in grado
di guidare esattamente il lavoro di Enrico: il legno, in fin
dei conti, era poco e non ce n'era altro disponibile.
Le mie giornata passavano veloci, senza soste, fra la scuola
al mattino e le biblioteche o il violoncello il pomeriggio e
la sera. Giulia accettava rassegnata quell'interruzione brutale
delle nostre abitudini: mi guardava con ammirazione, credendo
che dentro di me ci fosse qualcosa di straordinario, qualcosa
che lei era destinata a scoprire prima o poi, forse anche a condividere.
Per me, la ricerca di quelle nozioni preliminari al lavoro di
Enrico era cosa che attraversava tutto il mondo moderno, dal
Rinascimento in poi. C'erano trattati barocchi sulla Balistica
che mi sembravano parlare della corsa del suono, trattati di
Architettura che mi sembravano descrivere i coordinamenti dei
pesi nella volta delle tavole armoniche, trattati di Teologia
che credevo mi spiegassero il perché quella piccola colonna
di abete che collega la tavola al fondo si chiama "anima".
«...Ma non ti sembra di esagerare un po'?»
«No, Giulia, guarda: l'anima è messa quasi sotto
questo piedino del ponticello, quindi qui, a circa tre centimetri
dal centro dell'asse orizzontale, dove vedi bene che l'arco della
tavola armonica ha già cominciato a scendere. Ciò
vuol dire che la superficie della testa dell'anima dev'essere
tagliata con questa stessa inclinazione, per poter combaciare
perfettamente all'interno, sotto la volta - e quindi star su
senza essere incollata o troppo compressa -, e nello stesso tempo
per poter essere perfettamente perpendicolare all'asse immaginario
della tavola e parallelo alle fasce della cassa armonica. Siccome
poi il fondo è speculare alla tavola, anzi, in questo
violoncello è un poco più arcuato, ecco che il
piede della colonna, per combaciare col fondo, sarà tagliato
con un'inclinazione contraria alla testa. Ora, lo scopo di questa
colonna non è quello di reggere il peso del ponticello
compresso dalle corde sulla tavola, perché a quello pensa
già la catena, che è come una specie di trave del
soffitto, anche se molto più complicata...»
«Non avevo dubbi...»
«Sì, va be', comunque succede che quando le corde
vengono messe in vibrazione dall'archetto del suonatore, il ponticello
vibra, cioè si muove nella stessa direzione e velocità
della corda, e quel movimento lo trasmette alla tavola: tutte
queste parti vibrano in modo oscillatorio. L'anima, allora, muovendo
la testa secondo il moto della tavola, finisce col riprodurre
quel movimento nel suo piede, dove però è diventato,
o meglio: è stato tradotto in un moto sussultorio. Ecco
cos'è l'anima: è una cosa con i piedi per terra
e la testa nel cielo, che traduce il movimento celeste in un
movimento tellurico, conducendo l'uno all'altro, e unendo ciò
che sta sopra a ciò che sta sotto. Hai capito?»
«...E sotto queste belle mutandine non c'è magari
una graziosa animuccia addormentata che vorrebbe qualche mio
bacino per diventare un colonnone alto alto?...»
«Stacci attenta tu al mio colonnone, che non è mica
così che lo convinci. Dai, su, non è il momento...»
E Giulia sorrideva, e accettava, o sopportava; mi lasciava tranquillo
a studiare e ne approfittava per lavorare la sua tesi su un pittore
barocco che dipingeva grandi corpi nudi e rigonfiamenti erotici,
senza troppa filosofia e neppure grande tecnica.
Quanto a me, non avevo ancora annunciato nulla ad Enrico, ed
ero seriamente preoccupato di non ricevere più alcun cenno
da Ahasvero. |