-VIII-
Venne l'estate con le
vacanze scolastiche.
Ero riuscito a concludere l'anno con un discreto equilibrio tra
l'insegnamento ai bambini, l'amore con Giulia, la mia preparazione
al violoncello e quell'inquietudine, quello straniamento dal
mondo che mi portavo dentro come un incubo, come un sapore continuo
di morte.
Accettai di fare alcuni concerti di musica barocca, un po' per
non perdere del tutto i contatti per quel lavoro, e un po' perché
sentivo tornare il bisogno insistente di trovarmi su un palco
di fronte a un pubblico. Giulia fu ancora una volta comprensiva,
e si stabilì che mi avrebbe aspettato nella villa dei
suoi al mare, per poi ritrovarci insieme per qualche settimana
di vacanza in campagna, in un'altra grande casa di loro proprietà.
L'appartamento di Torino sarebbe rimasto vuoto per più
di un mese, così portai il violoncello di Ahasvero da
mia madre, perché fosse conservato al sicuro.
Con mio padre non parlavo più da anni, da quando io ero
cambiato, ero cresciuto. Lui continuava a pretendere che io non
fossi altro che quello stesso figlio che se n'era andato di casa,
che l'accusava di non esser stato un buon padre, di avergli solo
scaricato addosso tutte le sue frustrazioni e ossessioni. Mia
madre si era abituata a fare miracoli di diplomazia per farci
comunicare, ma quando andavo a trovarli, papà si chiudeva
nel suo studio o in camera da letto, aspettando di sentirmi uscire;
io lo lasciavo fare, e l'immaginavo passeggiare nervosamente
in quei pochi metri quadri, sedendosi sul letto, poi alzandosi
di scatto di fronte a quella porta chiusa, per chiedersi perché
mai doveva ridursi a compiere un atto così stupido, perché
gli era così impossibile vincere il suo orgoglio e abbracciare
serenamente suo figlio.
L'anno prima mi era capitato di insegnare musica -una breve supplenza-
nello stesso istituto superiore in cui papà era professore
di didattica. In quella scuola c'erano quasi solo donne, e io
ero ancora abbastanza ragazzo per ricevere le loro confidenze
raccontate in libertà, come a un compagno di classe; mi
dicevano che mio padre parlava sempre di me come di un figlio
meraviglioso, quello che tutti i padri del mondo vorrebbero avere.
Eppure non ero mai riuscito a farglielo ammettere, e i litigi
in cui ci eravamo lasciati trascinare erano di quelli che lasciano
ferite troppo profonde per trovare il coraggio di affrontarne
il ricordo.
Quando quel giorno visitai mia madre, lei volle sapere tutte
le date e i luoghi dei miei concerti prossimi.
Forse sapeva che di lì a una settimana avrei suonato proprio
a Torino, nel salone di un palazzo barocco, con un trio formato
da violino, violoncello e clavicembalo. Mio padre era là,
fra il pubblico, da solo: lo ricorderò sempre, orgoglioso
di suo figlio, felice di osservare gli sguardi soddisfatti del
pubblico, beato ad ogni mia nuova frase musicale. Lo raggiunsi
subito dopo l'applauso finale: mi abbracciò con tutta
la sua forza, a occhi bassi, dicendomi poche, sciocche frasi
che erano là solo per fingere di darsi una ragione di
quell'abbraccio, perché in quei momenti stringeva a sé
tutta la sua vita.
Un mese dopo, senza averlo più rivisto, nella casa di
campagna di Giulia, durante una serata con amici in cui si faceva
passare il tempo ridendo come i folli a Carnevale, fra scherzi
e barzellette, arrivò una telefonata di mia madre.
«C'è tua madre in linea, Claudio. Mi sembra un po'
cupa...»
Presi il telefono e l'ascoltai dire, con la voce acuta, ingolata
dalle lacrime, con una lentezza atroce, col suono della morte
sulle labbra: «Claudio, cosa fai lì? Tuo padre sta
morendo e tu mi lasci qui da sola con lui che muore? Riesce appena
appena a muoversi, ha poche ore, pochi giorni e tu mi lasci sola
e non ci sei? Sono diventata matta per trovare questo numero...
vieni, torna subito da lui!»
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