-XVI-

Il mattino dopo, sul tardi, mi recai alla riunione con la direzione del Festival.
Tutti si erano già parlati, e il direttore d'orchestra mi guardava con odio, ma sorridente: capii subito che il Barone aveva fatto ciò che mi aveva promesso. Stabilii quindi un calendario di prove e lavorammo con molta efficienza tutto il pomeriggio. La sera mi ritrovai da Ahasvero, verso le sette; portavo i miei regali, meno le delicatezze con carne di maiale e il vino, che non era cashèr: "adatto" a colui che aveva accettato di rispettare i precetti della fede ebraica.
La giornata era stata un successo quasi inatteso per me, dopo quel che avevo passato, e mi sentivo forte, invincibile, carico di energia positiva, come fossi guarito da una lunga malattia, uscito dai postumi di un incubo di follia.
Avevo telefonato al Barone per ringraziarlo personalmente, e avevo lasciato un messaggio molto duro ma educativo al mio agente, che si era eclissato per la vergogna di quel che mi aveva detto. Vittorioso su tutti i campi, persino Vienna, e persino la coppia di colossi in cemento nella Neulinggasse, ora mi sembrava lieta e simpatica.
Suonai il campanello di Haas, pensando al buffo gioco di sillabe nel suo vero nome: "ha-haas-vero". Salii all'appartamento otto, ma vidi con raccapriccio che la metzuzah era stata tolta... era rimasto solo il segno dei chiodini e la traccia del bordo di quel piccolo cilindro. Suonai immediatamente, con paura, con l'idea angosciosa che lui fosse nuovamente partito senza lasciar traccia di sé.
Invece lui venne ad aprire, gentile come sempre.
«Ma che ne ha fatto della metzuzah?»
«Ah, sì, l'ho tolta.»
«E perché?»
«Lei fa sempre talmente tante domande... l'ho tolta perché non credo di essere nel diritto di tenerla; le va bene questa risposta?»
«Non è una questione di diritto, ma di dovere: la metzuzah è un dovere!»
«Di nuovo lei fa il rabbino. Ma chi l'ha autorizzata? Il Beth Din di Torino o quello di Vienna?», e si allontanò nel salotto.
«Allora lei ieri pregava al contrario perché non conosce i precetti?»
«Pregare non mi serve a niente; il mio famoso orso non deve solo aver posato la zampa sulla mia anima: su quella credo che ci si sia proprio seduto sopra, mi creda. Io ci ho provato infinite volte, ma Dio non mi ascolta, né se gli racconto le mie faccende, né quando gli leggo le sue, ancor meno se lo interrogo.»
«Ma lei su cosa lo interroga?»
«Gli chiedo chi sono io, e chi è lei.»
«Queste sono cose che hanno risposte solo nella azioni di noi umani; mi sento ridicolo a spiegare queste cose a lei che ha i capelli bianchi... ma lei come li aveva i capelli, da giovane?»
«Biondi, bellissimi, e con gli occhi azzurri.»
«Come i bambini della pubblicità.»
«Ed erano altrettanto innocenti. Ma ora venga a bere un goccio con me, che le racconterò una lunga storia.»
Ci sedemmo l'uno di fronte all'altro, su due vecchie poltrone Frau in pelle scura e consumata; fra di noi c'era un tavolino di legno scuro, largo e basso. Io vedevo la finestra che dava sull'alto camino in mattoni, poco dietro ai colossi della Neulinggasse.
«Le parlerò del violoncello che le ho donato, e lei, alla fine, capirà perché le ho taciuto molte cose; così, forse, potrà perdonarmi.
Dunque cominciamo: io le dissi che non sapevo cosa fosse, e che non potevo aiutarla rispondendole con informazioni relative a cosa fosse o da dove venisse... insomma, per farla breve, le dissi "non so"...
Bene, ora lei saprà cos'è e da dove viene il violoncello...

 

 

 

 

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