Il violoncello Guadagnini

 

 

 

     Ci sedemmo l'uno di fronte all'altro, su due vecchie poltrone Frau in pelle scura e consumata; fra di noi c'era un tavolino di legno scuro, largo e basso. Io vedevo la finestra che dava sull'alto camino in mattoni, poco dietro ai colossi della Neulinggasse.
«Le parlerò del violoncello che le ho donato, e lei, alla fine, capirà perché le ho taciuto molte cose; così forse potrà perdonarmi.
Dunque, io le dissi che non sapevo cosa fosse, e che non potevo aiutarla rispondendole con informazioni relative a cosa fosse o da dove venisse... insomma, per farla breve, le dissi "non so"...
Bene, ora lei saprà cos'è e da dove viene il violoncello, ma prima deve sapere che se adesso un uomo glielo dirà, se prima ha taciuto, tutto ciò ha fatto e farà perché lei, proprio lei, s'è conquistato il diritto di avere e sapere: solo per questa e per nessun'altra ragione...
Lei possiede un Giovambattista Guadagnini fatto a Cremona nel 1745, assolutamente autentico e di immenso valore: la sua storia comincia una quarantina d'anni prima della sua realizzazione per un committente livornese, un gentiluomo di nome Cervetto.
Costui credeva di aver convinto alla conversione un giovane artista ebreo di nome Jacob Basevi. Quel giovane era diventato un violoncellista di talento, e il gentiluomo amava sentirsi il suo protettore, il suo mecenate.
Erano i primi anni del Settecento, e questi due uomini avevano la stessa, identica età: erano entrambi nati diciotto anni prima della fine del secolo, nello stesso giorno, alle stesse ore del mattino, nello stesso anno della celebre coppia di Metastasio e Farinelli, che amarono chiamarsi vicendevolmente "i gemelli".

Crebbero insieme, l'uno nella ricchezza, attorniato da servitori ossequiosi, precettori pedanti, obblighi mondani, l'altro nella povertà, attorniato dai muri del ghetto, obbligato alla fatica dello studio di una lingua sradicata dalla terra, che lo separava dal mondo, imprigionandolo negli obblighi della sua razza eletta e poi maledetta.
L'uno cresceva fra mille inquietudini per la fragilità delle sua salute, che presto gli impedì d'uscire in strada, e l'altro nelle inquietudini di una forza e di una salute eccessiva, per colui che è ingabbiato in troppe leggi e obblighi ingrati. Crebbero, comunque, come amici, amandosi e invidiandosi a vicenda.
Jacob era figlio di un sarto, e il padre cuciva gli abiti severi, umili, ma giganteschi per quel suo figlio che gli pareva un Maccabeo: guerriero fiero e straordinario. Poi, in segreto perché contro le leggi che l'obbligavano a non vendere a cristiani abiti nuovi, confezionava abiti raffinatissimi commissionati dalla famiglia del gentiluomo, fatti su misura per le sfortunate deformazioni di quel corpicino debole e sgraziato, destinato forse a una morte prematura, dell'amico del suo Jacob. Questo gli permetteva un discreto tenore di vita, portandogli altri committenti ricchi, che lo proteggevano e pagavano assai bene.
Così Jacob poté studiare musica, che a quei tempi, in Italia, era una professione promettente.
Vuole bere qualcosa?»
«No, grazie. Continui, la prego.»
«Bene, di quei due ragazzi, l'uno era attratto da tutto ciò che era fuori, e l'altro da tutto ciò che era dentro alle cose: questo li attraeva l'uno verso l'altro, spesso, anche, correndo seri rischi, date le loro così differenti condizioni sociali, soprattutto per il giovane ebreo, che non aveva certo grandi speranze di potersi proteggere da accuse o calunnie.
L'uno studiando la natura delle cose vi cercava l'invisibile, l'ineffabile, e l'altro correva dietro alla luce delle cose, al toccarle, goderle, amarle. Jacob conosceva bene il libro di Dio, e non gl'importava nulla di saperlo leggere, all'altro quel libro dava il senso dell'infinito guardare oltre le cose, e voleva impararne il codice segreto, la cifra che gli avrebbe aperto la porta di un interno, di un arcano; non della luce: egli, dentro di sé, amava il buio.
Conosce la poesia di Mallarmé che s'intitola "Prosa"? Inizia così:

"Iperbole! dalla memoria
Trionfalmente non sai
Innalzarti, oggi oscura cifra
In un libro di ferro rivestito:
Insedio, infatti, con la scienza,
L'inno dei cuori spirituali
Nell'opera della mia pazienza,
Atlanti, erbari e rituali...
"

Ecco, quasi due secoli prima, questa forse era la condizione di quel libro, fra le mani di quel giovane gentiluomo deforme.
Dunque così si scambiavano desideri e sogni, l'uno regalando la sua nozione dell'esistenza all'altro, assicurandosi così la possibilità di sognare una conquista di libertà dalle sfortune della vita.
Jacob raggranellava qualche soldo dando lezioni di ebraico al ricco amico, e il ricco amico lo proteggeva occupandosi di donargli libri di musica, professori adeguati e buoni violoncelli. Ma cominciò presto a temere la loro forse inevitabile separazione: temeva la propria morte prematura, ma ancor più l'inquietudine dell'amico, che forse gliel'avrebbe rapito, portandolo in giro per il mondo lontano, dove le sue condizioni fisiche non gli avrebbero permesso il raggiungerlo.
D'un lato, la segregazione nel ghetto era congegnale alla sua vicinanza fisica, ma i ghetti erano ovunque, come un'unica nazione frammentata e sparsa sul mondo, sicché il suo amico avrebbe potuto trovarsi un giorno a mille miglia di distanza, senza aver nulla cambiato delle sue condizioni di vita. Dall'altro, il ghetto rappresentava l'errore e la colpa, e lui desiderava l'innocenza.
Poco a poco nel gentiluomo crebbe il desiderio di convertire l'amico al cristianesimo, e giorno dopo giorno cercava di persuaderlo alla pietà, alla compassione, all'amore di Cristo. A Jacob non piaceva quella figura di crocefisso, morente, perdente, fragile, eppure così maledettamente potente e crudele. Odiava, dentro di sé, nel suo più intimo e preoccupato segreto, quelle ferite ipocrite ai polsi, ai piedi e al costato, fatte di vernice rosso fuoco, dipinte da artisti dell'inganno ottico; e questa forse era l'unica cosa che conservava dentro di sé. L'amico gli raccontava della gloria, della redenzione, ma soprattutto della costrizione, della rinuncia: e lui di rinunzie ne aveva fatte abbastanza.
Al giovane Jacob interessava una sola cosa: poter uscire dal ghetto, poter vivere libero e girare il mondo a testa alta, diventare ricco ma anche amato dalla gente, capito, desiderato. Accettò quindi, come il dono dell'amico gentiluomo, il battesimo e il nome: si chiamò Giacomo Cervetto.
Un convertito non aveva più diritto di entrare, e neppure passeggiare nel ghetto: c'erano pene pesanti per chi contravveniva questa legge. L'abiura del proprio passato doveva essere totale e incondizionata, anche perché era la sola cosa visibile di quella trasformazione, oltre al vestito, al cappello e alle abitudini alimentari.
Giacomo dunque non aveva più né padre né madre fuor della Chiesa, della pietà della Chiesa. Non era più figlio di un popolo errante e perseguitato, ma era divenuto fratello di centinaia di migliaia d'altri esseri condannati a vagare nel Purgatorio della terra, in attesa dell'espiazione vera di quel peccato più grave: esser nati come insulto al Cristo, come i suoi carnefici, come i proprietari del segreto di fabbricazione di quella vernice rosso sangue che doveva decorarne l'onore delle mani, dei piedi e del costato. Fantasma, larva anche lui in un limbo nebbioso, melmoso, insicuro, non gli poteva certo bastare quella protezione troppo poco potente, marginale, di un gentiluomo ricco sì, ma non abbastanza.
Innanzitutto ci voleva un'occupazione redditizia, e Giacomo, con l'aiuto economico dell'amico, divenne un commerciante di strumenti musicali.
Viaggiava fra Cremona, Milano, Brescia e Venezia, commissionando violini, viole, violoncelli o liuti a diversi liutai, perlopiù giovani, così da investire il suo denaro nel modo migliore, potendo lui, con la sua competenza di ottimo musico, guidarli nel migliorare il loro lavoro, dirigerli a idee rinnovate, in cerca di un'efficienza nuova, attraente per le nuove generazioni di virtuosi che si proiettavano in un avvenire europeo.
Partì così, un giorno del 1728 per Londra, col suo prezioso carico di strumenti da vendere, in cerca di fortuna presso gli artisti italiani che cercavano la stessa cosa in quel paese, ma avevano bisogno di buone forniture di strumenti adatti. Aveva allora già quarantasei anni, ventitré dei quali passati come Giacomo Cervetto.
A quell'epoca, un uomo di quell'età poteva già sentirsi vicino alla morte, ma non Giacomo. Lui aveva appena cominciato la sua vita: tutto il resto era stato solo la lunga preparazione, l'ascesa alle condizioni per poter vivere la vita che desiderava. Non si era ancora sposato, ma, apparentemente, non era neppure invecchiato: il suo aspetto non era particolarmente bello, con il suo lungo naso sul quale scherzarono e raccontarono aneddoti per tutta la sua vita, ma il suo corpo eccezionalmente robusto, grande, muscoloso, doveva renderlo simile a un Titano, o a un eroe indistruttibile. Almeno, così doveva essere agli occhi del suo omonimo amico e protettore, che invece invecchiava inesorabilmente, senza aver mai amato altri che quel suo protetto, senza aver mai goduto dei piaceri dell'esistenza.
Per quel gentiluomo l'immagine dell'amico convertito era l'unico successo della sua vita, l'unica vittoria; e doveva sembrargli bellissimo, luminoso, quasi l'immagine stessa dell'immortalità. Si sentì impazzire alla notizia che l'amico sarebbe partito per un paese così lontano: vedeva lo stato del proprio corpo, e capiva che non era possibile che Dio lo obbligasse a una vita ancora molto più lunga di quella che aveva vissuto. Nello stesso tempo era vecchio e maturo abbastanza per capire pure che non poteva trattenere il suo amico ora, proprio in quel momento cruciale della sua vita; neppure cercar di convincerlo a restare ancora con lui, soltanto per quel poco che sarebbe dovuta durare ancora la sua esistenza di malato e deforme.
Tacque, dunque, mortificandosi nel silenzio, e Giacomo partì per diventare James.
Conosce quella scritta del XIII secolo che sta da qualche parte, su un muro di Toledo?»

 

 

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© Claudio Ronco 1999.