-XV- Qualcuno stava per infilare la chiave nel suo portone; corsi ad approfittarne anch'io, e salii con furia all'appartamento del signor Haas.
Sulla porta lessi solo un numero: l'otto, ma era certamente quello giusto, se non altro per il piccolo cilindro d'ottone, la metzuzah, che era inchiodata allo stipite. Bussai cautamente, e lui venne ad aprire con aria serena.
«Benvenuto, amico mio! Vedo che è guarito benissimo!»
«Shabbat Shalòm, Hans! Scopro che lei prega con le spalle a Gerusalemme...»
«Ma cosa dice?! Certo che no!»
«Non mi prenda in giro! L'ho vista bene, guardando la sua finestra da quel punto lì della strada!» esclamai indicandoglielo.
«Ha visto male.»
«Per dio, ha una stanza grande abbastanza per pregare lontano dalle finestre; il tavolo con le candele è distante quanto basta, e lei si piazza in bella vista a pregare al contrario?»
«Non capisco dove vorrebbe arrivare...»
«Lei non si copre la testa per pregare, accende le candele del sabato e dice le benedizioni -almeno credo, spero che siano benedizioni!- rivolto ad ovest... cosa dovrei pensare di lei? Che è un distratto, oppure che è male informato sulla posizione dei punti cardinali, oppure ancora che è uno scellerato?»
«...Di quando in qua lei è diventato rabbino?»
«Non mi farò più fregare dalle sue fughe dalle mie domande. Risponda semplicemente a quello che le chiedo: perché prega inchinandosi all'ovest?»
«Siccome è luogo comune che gli ebrei rispondano sempre con un'altra domanda, ho finito col prender l'abitudine di rispondere così anch'io...»
«Va bene, d'accordo; le rispondo io per primo: no, non sono un rabbino. Però non sono neppure un fesso. Soddisfatto? Adesso risponda lei.»
«Non mi ero accorto che fosse l'ovest...»
«E la testa scoperta?»
«Prima era coperta, poi sono venuto ad aprire la porta, senza attribuire a quell'atto alcun valore di preghiera...»
«Astuto. E dov'è il suo copricapo, foss'anche uno qualunque e non una kippàh?»
«Eccola: la kippàh ce l'ho in tasca.»
«E ora mi dirà che era sulla sua testa mentre pregava... Basta, Ahasvero, ho passato momenti terribili a ragionare su di lei, a cercare di capirla. Devo chiederle di far chiarezza su tutto ciò che riguarda i nostri rapporti e che servirà a mantenerli. Voglio sapere, ad esempio, perché ho dovuto attendere tanto tempo per sapere il suo nome, o per avere un suo indirizzo.»
«D'accordo, non ha tutti i torti... Venga, si sieda. Vede quest'appartamento? Bene, non è mio, ma di un mio conoscente che ora è andato a vivere in Israele, e me lo lascia usare; si guardi intorno: pochi mobili vecchi, intristiti, e non c'è più neppure il telefono, perché questo è un appartamento in attesa di qualcuno che se lo compri, e certamente non sarò io quel qualcuno. Di mio, non ho praticamente nulla più che pochi oggetti a riempire un paio di cassetti, e un po' di oro, gioielli, effetti personali e documenti, tutti in una banca svizzera, in cassette di sicurezza.
Lei vuole vedere qualcosa che le racconti di chi sono, di come vivo, di come sono vissuto? Mi spiace, ma di tutto questo non ho nulla qui, e quel che troverebbe in banca le direbbe davvero molto poco.
Ma forse lei si chiede come faccio ad avere una discreta cultura, anche se non posseggo libri? E io le rispondo che dall'età di trentatré anni in poi io ho sempre studiato, ora non sono più un giovinetto, e i libri migliori e in gran quantità si trovano in biblioteca, e non in casa o dal libraio.
Quanto alle mie abitudini religiose, ogni tanto ne ho e ogni tanto me ne dimentico, o non mi interessano più: fatico a credere in Dio; non è poi un fatto così raro...
Sono un uomo solo, che è sempre vissuto in solitudine, fin dalla nascita. Certo, ho moltissimi conoscenti e qualche amico, ma comunque sono sempre solo. Ho fatto mille mestieri, e sono stato a volte un uomo rispettato e potente, altre un perdente e un povero; i miei alti e bassi forse sono stati eccessivi, estremi; ma così è la vita di un viaggiatore. Perché, in fondo, questo sono io, e nient'altro: l'ebreo errante...»
«Mi dica ancora di lei: mi parli della sua famiglia...»
«Non ho famiglia; sono una specie di "non nato": non so quando, né dove, né perché sono venuto al mondo. Un giorno mi ci sono ritrovato sopra, o dentro... nel bene e nel male.»
«Posso capire... Ma nella sua vita ci sono luoghi, città, ricordi: mi parli di quelli.»
«Gliel'ho detto: sono un viaggiatore; certo che ci sono luoghi e città e ricordi, ma sono tutti confusi l'uno sull'altro, senz'ordine. Cosa vuole sapere: dove sono nato? Ebbene, non so neppure quello. Non mi crede? Sappia allora che non sono una rarità: le basterebbe andare in una qualsiasi casa di riposo per anziani, per trovare decine di casi simili al mio; gente che si è accorta di vivere senza sapere dove, che ha cambiato lingua senza quasi accorgersene, che ha attraversato interi continenti prima di rendersi conto che stava viaggiando; gente, come me, troppo occupata dal problema di sopravvivere, o di resistere alla morte anche senza sapere cos'è, o perché un fatto, un avvenimento, la vita stessa "succede", malgrado tutto...»
«Tuttavia, una persona così semplice come lei me l'ha descritta, può pure dimenticare il suo nome e il suo luogo di nascita, ma non credo gli venga l'idea di far mettere sotto segreto il suo numero di telefono...»
«Questa è un'altra faccenda. È cosa che riguarda momenti in cui ho avuto necessità di proteggermi a causa di alcuni di quegli "alti", ...o, chissà, forse "bassi" della mia vita, di cui dicevo. Comunque di queste cose, mi deve scusare, non posso parlarne a nessuno.»
«Appunto: e perché?»
«Si tratta di segreti che non ho il diritto di svelare.»
«Segreti di che tipo?»
«Non posso parlarne.»
«Militari?»
«Forse.»
«Lei vorrebbe farmi credere d'esser stato, o di essere tuttora, un agente segreto, che so io, magari del Mossad?»
«Se le rispondessi qualcosa al riguardo, sarebbe come se le rispondessi di essere un cavaliere Rosacroce. A lei chi glielo prova? E cosa significa la mia risposta? E dove porta? E cosa le dà? Quali informazioni? Quale utilità?»
«Va bene: cancellata la domanda e l'osservazione. Ma se io devo darmi una ragione delle sue stranezze, almeno quella è plausibile. Lei ogni tanto è qui ogni tanto è là, in incognito, senza recapito, pieno di soldi. Solo che spesso le viene una crisi mistica, e allora prega, o cerca Dio in biblioteca, o regala violoncelli preziosissimi a gente conosciuta per caso, dopo un totale di circa quattro, o cinque ore separate da un mese di silenzio, di profonda amicizia e di esaltata ammirazione. Tutto regolare, per una spia. Ma io ho rivoluzionato la mia vita, a causa delle sue stranezze. Fino a pochi giorni fa non solo sentivo una gratitudine profonda per lei, ma anche un amore... l'amore di un figlio. Sa, quando mi ha detto di avere settantaquattro anni... quella era l'età di mio padre, quand'è morto.»
«E quando è successo?»
«...Nei giorni in cui io ho cominciato a capire che cosa avevo ricevuto da lei, quando finalmente ho ricevuto il dono di saper suonare il violoncello!»
«E questo quando è successo?»
«Dopo aver ricevuto il ponticello, con la sua lettera da New York.»
«Quel ponticello ha fatto tutto ciò? Formidabile! Gliene manderò altri, se vuole.»
«Non scherzi, sono serio! Io non ho preso nulla di tutta questa storia con leggerezza; glielo ripeto: ha cambiato radicalmente la mia vita!»
«Non mi attribuisca meriti che non ho: lei aveva bisogno di una rivelazione o di una rivoluzione, e l'una o l'altra l'ha avuta. Se non c'ero io l'avrebbe ricevuta da qualcun altro, se non c'era neppure quello, gliel'avrebbe concessa il primo oggetto capitato sotto i suoi occhi nel momento di massimo bisogno.»
«Non riduca a così povera cosa un violoncello di Guadagnini!»
«Ah... dunque ha scoperto che è proprio un Guadagnini!»
«No! Non l'ho scoperto affatto. Ho semplicemente deciso che lo è, perché ha una voce divina. E quando dico "divina" non uso una figura retorica abusata: intendo davvero "vicina a Dio", o almeno alle cose più alte dell'esistenza...»
«Come la morte?»
«Sì, anche come la morte... ma perché la morte?»
«Perché lei mi ha parlato della morte di suo padre...»
«È vero: l'ho scoperto suonando al funerale di mio padre.»
«Questo mi interessa; continui.»
«Sono io che devo farla raccontare, non lei me!»
«Ma suvvìa, perché è così astioso? So di essere un po' distratto, e magari, ogni tanto, troppo bizzarro, ma mi sono già scusato di questo con lei. Ora abbia compassione...»
«Appunto la compassione. Quel violoncello l'ha avuta: dalle mani di un uomo anziano, appassionato, che ha saputo dirigere l'intelligenza e l'abilità nelle direzioni della saggezza e dell'infinitamente complesso; solo così ha potuto ritrovare il suono perduto di quello strumento e farlo cantare, perché ha saputo trasferire a me la sua intuizione, e consegnarmi l'oggetto restituito al suo equilibrio armonico e alla sua funzione di strumento di musica.»
«Dunque quello che io le ho dato è il violoncello che attualmente lei usa nei suoi concerti?»
«Sì, certamente. E anche ben più di questo: è quello che mi ha permesso di diventare concertista!»
«A questo punto le devo chiedere di lasciarmi solo. Mi scusi per la scortesia, ma devo pensare. La prego di tornare a trovarmi domani; le va bene se ci vediamo di sera, dopo la fine di Shabbat?»
«Sì, certo... perché no. Anzi, io ho portato diversi doni per lei, e dato come sono andate le cose, non ne avevo ancora parlato né li avevo portati con me. Ne approfitterò per portarglieli qui.»
«La prego, non voglio nulla; ogni cosa in più che posseggo è una cosa che poi dovrò lasciare; vorrei, al limite, solo cose virtuali...»
«Deciderà lei cosa farne. Io intanto le porterò qui.»
«Ha già fatto fin troppo per me...»
«Ma... non capisco...»
«Capirà. A domani sera.»
Mi mise gentilmente alla porta, e io rimasi solo, troppo stanco per pensare.
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