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E fu l'inizio e la fine della mia gloria.
Ebbi un applauso prolungato, lunghissimo, in quella chiesa: cosa
ben strana a un funerale. La gente mi avvicinava con timore,
sfiorava appena le mie mani, con sguardi commossi, riconoscenti.
In alcuni vedevo gioia, in altri il rapimento della dolcezza,
in altri ancora lo stravolgimento, l'alterazione di un contatto
inatteso, coll'ineffabile, coll'indistinguibile.
Io ero ormai chiuso a quel mondo inferiore: camminavo in un'aura
di orgoglio glorioso, separato persino in me stesso, dove un
corpo versava lacrime congestionate nel caos delle emozioni,
e un'anima si esiliava nelle stanze superiori della mia vittoria
sulla prova.
Portavo quel mio violoncello alto sul petto, il mio cuore pigiato
contro quella sua cassa, ad esortarla ancora, a sollevarla ancora
di più, il più lontano possibile da quella tomba:
elevarsi oltre la vita e la morte, legno reso eterno dall'arte,
albero tramutato in angelo, forma resa sublime nel suono.
Sapevo con certezza che ero nato a un'altra vita, seppellendo
con dignità quella di mio padre. A noi infelici abitanti
della terra in questo secolo sciagurato, restavano ben poche
opportunità di divenire eroi, di essere dei grandi, ma
io la vedevo già nelle mie mani, a muovere le voci di
quel violoncello.
Passarono i giorni del lutto.
Giulia restò con noi nella nostra piccola casa di famiglia,
non lontana dal cimitero di mio padre. Io passai quei giorni
a suonare, e a cercar di capire in quale modo si era potuta verificare
quella formidabile emanazione di suono; in effetti, il ponticello
era stato spostato in un punto molto più alto della sua
posizione abituale.
Immaginai innumerevoli ragioni possibili per quel fatto, ma scoprii
infine che era stato solo il caso: fu mia madre, appena mi venne
in mente di chiederglielo, a confessare d'esser stata lei a rimetterlo
a posto così come poteva, perché l'aveva sentito
cadere dentro alla custodia. Era semplicemente successo questo:
avevo talmente trascurato quel violoncello, che nell'aria troppo
secca dell'appartamento dei miei genitori i piroli avevano ceduto
la presa, rilasciando le corde e facendo cadere il ponticello,
mentre l'anima si spostava un po' più in basso, a conseguenza
del rilassamento improvviso della tavola.
Tutto procedeva nel modo migliore: il destino sembrava aggiustare
gradualmente le cose, e io procedevo nel mio cammino fortunato.
Nella cassetta della posta trovai un numero mai visto di nuove
richieste per concerti; decisi quindi di sbarazzarmi dell'insegnamento
e di tornare sulla scena, anche se erano ancora solo incarichi
di accompagnamento a cantanti, violinisti o flautisti barocchi,
e pagati una miseria. Il lavoro cominciò quasi subito,
e continuò ininterrotto fino a primavera, quando le occasioni
concertistiche, improvvisamente, divennero davvero straordinarie.
Venni interpellato da alcune persone famose, e mi furono offerte
occasioni che fino ad allora avevo solo sognato ad occhi aperti.
Cominciai a girare il mondo, a trovarmi solo al centro della
scena, a godere del successo e a subire le invidie e maledizioni
dei colleghi.
Passò un'altra estate e un'altra ancora.
Giulia ormai si era laureata a pieni voti, e si dedicava con
calma alla ricerca di un lavoro, perché ormai il nostro
conto in banca era fiorente. L'appartamento si era riempito di
libri, dischi, bei mobili, oggetti preziosi; era ingentilito
da alcuni restauri, reso confortevole dall'aria condizionata,
da una cameriera a tempo pieno, dalla costante presenza di amici
di rango o da gioviali vecchi compagni di studio. Mi ero comprato
una macchina comoda, e affidavo a quella il mio bisogno di libertà,
salendoci ogni volta che mi sentivo stanco o oppresso, per gironzolare
in città, o portarmi fino alle tranquille colline torinesi,
oppure nella casa di campagna, o ancora a sognare in riva ai
laghi di Avigliana, o raggiungendo le valli verso nord, nella
malinconia dei paesaggi ai piedi dei monti.
Io possedevo ormai un violoncello formidabile, splendido alla
vista e all'ascolto, e dalla potenza sonora eccezionale. Enrico,
in soli quattro giorni intorno a quel primo Capodanno dalla morte
di mio padre, aveva sostituito l'anima e la catena col legno
della pala d'altare, e ora l'efficienza di quella tavola era
miracolosa; la voce del mio strumento sembrava rubare tutte le
voci del mondo, riempire lo spazio della sua vibrazione luminosa
di emozioni, con un calore intenso di passione, di desiderio,
di erotismo sublime.
Non avevo affatto bisogno di avere un'expertise: tutti accettavano
di chiamare il mio violoncello "il Guadagnini", persuasi
dal suono, dalla sua straordinaria bellezza, dal mio successo.
Io incantavo il pubblico irritando i critici: mi si rimproverava
d'essere approssimativo, impreciso, indifferente ai dettagli,
alla purezza dello stile; ma ognuno era rapito dai percorsi della
mia frase, dalle visioni, dalle lontananze estreme da cui sembrava
provenire ogni mia interpretazione. Questo modo forte, semplice
da percepire, aperto al linguaggio del corpo, dei sensi, era
soprattutto quello che piaceva alle agenzie, ai cacciatori di
talenti, alle grosse case discografiche. Ma io mi negavo a tutto
ciò, come a ogni eccesso di commercializzazione: ero sicuro
di me stesso, di ciò che avevo e di ciò che rappresentavo
col mio aristocratico diniego. Mi offrivo solo come un dono prezioso
e unico, irripetibile. Solo questo - pensavo - doveva sollevarmi
al rango superiore cui sentivo di corrispondere: io ero il solista
del re, non del popolo; a quest'ultimo avrei portato onore, o
il riflesso della nobiltà più alta del mio mestiere.
Giulia viveva tutto questo come oggetto di soddisfazione: era
fiera di me, si sentiva fortunata, eletta, felice. Non chiedeva
molto, le bastavano quei pochi momenti del giorno dedicati alle
nostre chiacchiere rilassate, lontane da tutti i problemi quotidiani
di cui ormai si occupavano solo le persone che pagavamo per quelli.
Spesso si faceva visita ai suoi genitori, e loro si affrettavano
a rendere ogni nostro arrivo un'occasione mondana. Mi si faceva
pesare solo il mio rifiuto al matrimonio con la loro figlia,
la nostra convivenza senza ufficialità e sicurezze legalizzate.
Ma Giulia non se ne preoccupava affatto; non voleva avere alcun
dubbio sul nostro futuro, nemmeno sulla mia fedeltà alla
nostra coppia. Io cominciai a tradirla, e finii col farlo con
disprezzo.
Amavo appassionatamente, così come suonavo il violoncello.
Cominciavo a pensare alla brevità della vita, del piacere;
avevo paura della malattia, pur godendo di una salute eccezionale.
Il sesso divenne un'ossessione continua e incontrollabile: trovavo
irrinunciabile masturbarmi dopo ogni concerto, anche quando portavo
al mio albergo una donna. Era un gioco da felino, col topo che
subisce per il puro esercizio del piacere del gatto, o forse
era solo la rabbia che portavo dentro di me, per quell'inganno
costante che era la mia dichiarazione d'amore o d'affetto per
Giulia; c'era solo disgusto per me stesso, proiettato su di
lei, sul suo corpo, sulla sua pelle, sul suo viso, nel suono
della sua voce. Allontanandomi da Giulia, tutto il mio errore
iniziava ad affiorare alla mia coscienza, e io lo ricacciavo
nel profondo, dov'era la pena più insopportabile del mio
esser solo, esiliato in spazi desolati. Pensavo che qualsiasi
fosse la verità, era divenuta inutile... mentre le parlavo
affettuosamente della nostra vita insieme, odiavo ogni cosa di
Giulia; provavo repulsione per il suo sesso mentre lo eccitavo
al contatto del mio; violentavo quel suo corpo per punirmi dell'averlo
violato, e riuscivo solo a sperare che potesse cessare al più
presto quell'assurda condanna, con qualcosa, qualsiasi cosa,
capace di interromperla, di rivoluzionare la mia vita, di spezzare
le sbarre di quella gabbia così stupida... Eppure non
riuscivo a credere ad altro che a un'inerzia dannata, proiettata
solo verso la mia morte, all'annullamento.
Ma il mattino del primo giorno di novembre, fra la posta, c'era
una lettera da Vienna per me. Era di Ahasvero.
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