«Spero di non essere arrivato troppo presto... ha un'aria stanchissima, Hans!»
«Non sono riuscito a dormire, Claudio. Alla mia età è normale dormire poco, ma questa notte è stato un inferno; le gambe: volevano continuamente muoversi, agitarsi. Io non ho più l'età per scendere e andare a correre un po' in strada, ma forse avrei dovuto farlo...»
«Non credo che possa fare alcun male: basta stare attenti a non sforzare il cuore.»
«Il cuore... quasi quasi vorrei chiederle quale dei due. A quello che continua a pompare sangue, mi vien voglia di chiedere a cosa crede di arrivare pompandomelo ancora, e all'altro che pompa quando gli va, vorrei domandare un po' di ordine, di misura; esplode in un momento coi suoi eccessi, poi si spegne di colpo, in un vuoto di sentimenti insopportabile...»
«Secondo me, c'entrano le zampe dell'orso. Lei dovrebbe cercar di sedurre quel bestione con le sue bellissime storie, così si metterebbe seduto fuori dallo spazio della sua anima, per ascoltarla meglio!»
«Ho piacere che le piacciano le mie storie. Purché non le prenda troppo alla leggera...»
«Oh no, questo no. Sono ancora straniato, incredulo, stordito; ma ora sono ben conscio di quello che ho ricevuto. Tutti i conti tornano!»
«E bravo, allora. Venga a sedersi in salotto.»
«Preparo un caffé?»
«È già pronto per lei, eccolo. Ha già suonato qualcosa, questa mattina?»
«Sì: la migliore ora di esercizio di tutta la mia vita, fino ad oggi.»
«Così deve essere; non smetta mai: la forza si ricava dalla ripetizione regolare, continua, come lo scorrere del ruscello...»
«A proposito: ha letto quella piccola sciocchezza del "ruscello tra fiamme", che le ho scritto prima di partire per Vienna?»
«Sì, è piacevole. Ma mi dà molto più piacere pensare che oggi lei ha provato a suonare la sua quinta corda.»
«...Certo!... ero certo che lei l'avrebbe intuito... e questa mattina ero certissimo che questo fosse esattamente ciò che lei intendeva chiedermi con la sua domanda, nelle sue due lettere.»
«Bene. Lei ha altre domande per me?»
«Beh, certo, delle curiosità... mi piacerebbe sapere ancora delle cose su questo libro, su di lei, su come ha avuto il violoncello.»
«D'accordo. Abbiamo cominciato con un ventidue e un nove da infilarci in mezzo; ora quel nove lo sposti a destra.»
«229? Ecco la pagina.»
«Legga l'ultima nota, l'ottava.»
«Nota otto, eccola: "Popper possedette diversi violoncelli durante la sua carriera. Il più importante fra quelli, per il quale lui ebbe una speciale predilezione, era il Nicola Amati (1650). Fu venduto dalla Signora Popper, tramite un commerciante di Vienna, a un violoncellista che viveva in Germania. Popper possedeva anche un G. B. Grancino, del seicentottantacinque, che fu venduto ad Alfred Wallenstein nel venti, anche questo in Vienna.
Per molti anni Popper usò con frequenza il suo J. B. Guadagnini (...del settantadue). Fu venduto in Inghilterra, e portato negli Stati Uniti attraverso Wurlitzer ed Emil Herrmann, e infine venduto a Joseph Dutilo. Lo strumento fu malamente danneggiato in un incidente automobilistico a Los Angeles, ma da allora è stato restaurato.
Durante il suo incarico all'Opera di Vienna, Popper usava il violoncello del liutaio viennese Martin Stos, dell'ottocentoquarantadue. Più avanti nel libro, l'autore dice in quale modo gli fu dato da Popper." ...Incredibile!»
«Giri pure nuovamente quel suo nove al contrario.»
«226. Ed eccoci ritornati alla foto di Emil Herrmann; perché? L'ha conosciuto?»
«No, non ci siamo mai incontrati, ma lui portò il violoncello in America, ed è lì che io l'ho comprato, a Los Angeles.»
«Giusto: cos'è questa storia dell'incidente d'auto?»
«Solo un modo per tacere la verità su quelle fratture.»
«Appunto: anche se credo d'intuirlo, mi dica il perché del tacere proprio quell'ultima delle verità.»
«Mi permetta di andare per ordine: il violoncello di Amati per cui Popper aveva una speciale predilezione, era quello che Liszt comprò a Parigi per Alfredo Piatti, e di cui Piatti si liberò dopo qualche anno perché era troppo grande per la sua statura, vendendolo a un certo "Canon Pemberton". Questi era un emissario londinese di Liszt, che dopo aver riascoltato l'Amati suonato da Piatti aveva deciso di riappropriarsene; agiva sotto pseudonimi diversi, divertendosi da buon inglese a giocare con quelli. 'Pemberton' secondo lui significava: "Pilgrim, (o: Piatti...) rEMemBER thy TONe", e 'Canon' voleva indicare quel che è, ovvero l'enigma musicale degli incastri di sequenze circolari in moto parallelo su uno stesso sentiero, ma spostate in diversi spazi temporali. In quegli anni, la contesa per divenire, anche se inconsapevolmente, l'eletto al possesso di quel violoncello errante, era come un "canone a due", fra Piatti e Popper: due pellegrini della musica, viaggiando attraverso l'Europa e attraverso la musica del passato, di cui divennero entrambi interpreti famosi, l'uno rappresentando il rigore e la severità della tradizione, e l'altro il fulgore dei nuovi linguaggi, liberati dalle catene della Retorica. Altri paragonavano il suono di Piatti ad Apollo e quello di Popper a Dionisio, o Pan; comunque, almeno in questa gara, il mondo ci guadagnò quegli inestimabili tesori musicali che sono le composizioni e gli insegnamenti di tutt'e due questi virtuosi. Tenga presente, però, che l'opera 72 di Popper è il quarto Concerto in Si per violoncello e orchestra, dedicato, indovini a chi?... Proprio ad Alfredo Piatti!»
«Impressionante... e il violoncello del Grancino?»
«Ah, il Grancino era solo un violoncello eccezionalmente simile al Guadagnini, per le dimensioni e l'aspetto esteriore: era quasi un "gemello" dello strumento che per Popper rappresentava la sua fortunata carriera, come se il giovane Guadagnini si fosse ispirato proprio a quello, per disegnare il capolavoro ordinatogli dal gentiluomo Cervetto; fu acquistato solo per questo motivo. Sia questo strumento che l'Amati erano divenuti proprietà del Maestro, e quindi Olga poté venderli a Vienna, alla morte del marito. Quanto al Guadagnini, infine, dovette ovviamente ritornare a Londra, presso i nobili proprietari dei diritti e privilegi su di esso.»
«E dunque la Corona britannica riprese a proteggerne il segreto e a cercare un nuovo violoncellista...»
«Sfortunatamente no: dopo la morte di Liszt e di altri della sua generazione, rimaneva ben poca memoria del rispetto sacrale che si doveva a quello strumento, e contemporaneamente erano nate troppe leggende esoteriche intorno ai sacri legni del Tempio. L'ascesa del nazismo, con tutte quelle sue follie impregnate di esoterismo e di deliri misticheggianti, considerò anche la necessità di entrare in possesso di quel violoncello sacro. Ma il destino volle che lo strumento fosse già nel Reich, arrivato lì per vie oscure, e suonato da un giovane ebreo tedesco, il cui nome è scomparso, cancellato...»
«Cioè... non se ne sa nulla?!»
«Fatta eccezione per l'espatrio del violoncello dall'Inghilterra, intorno al 1930, e il suo ritrovamento ad Auschwitz nel '45, tutto il resto della vicenda è pura deduzione, se non addirittura illazione.»
«Ma... è incredibile... così vicino a noi...»
«Ciò che sembra logico pensare è che quel giovane artista ebreo non si accorse dell'enormità del pericolo incombente, come tanti altri che anziché emigrare in America attesero fiduciosi nella forza della Ragione, in un'Europa che la Ragione l'aveva persa nell'incalzante trasformazione della coscienza di uomini che si mutavano in mostri.»
«Troppi, forse... chissà quali geni sono scomparsi in quegli orrori...»
«Quando fu troppo tardi per fuggire, probabilmente quel giovane tentò di camuffare il violoncello, in modo da non farlo cadere nelle mani del demonio trionfante. Ora, gli incaricati delle SS non erano né stupidi né impreparati: sapevano scegliere e inviare in missione gente esperta, oltre che senza scrupoli.»
«Era davvero così?...»
«Per farle un esempio: si racconta che quando irruppero nella casa di Mahler, il magnifico violoncello Stradivari in suo possesso fu scagliato barbaramente dalla finestra; in realtà, da quella finestra fu gettata una grande scultura di Alma Mahler, considerata "arte degenere", insulto giudaico all'ideale di bellezza perfetta del Reich. È interessante prendere in considerazione il motivo per cui, nei ricordi di quel fatto, un violoncello finì col prendere il posto di un idolo di Venere scolpito in pietra, che barbari indemoniati espulsero con violenza distruttiva dalla sinagoga della musica ebraica: la casa di Mahler a Vienna.»
«Ho sentito parlare della storia di quel violoncello...»
«Siccome però lo Stradivari scomparve davvero, e non fu mai più ritrovato, razionalmente vien da credere che le SS sapessero bene cosa buttare dalla finestra, e cosa trafugare per ricavarne denaro o glorie e onorificenze.»
«Sì... temo fosse proprio così...»
«È per questo che io immagino il giovane violoncellista intento a scollare con estrema cura la pergamena posta dal Guadagnini all'interno di quel corpo preziosissimo, e sostituirla con un falso cartaceo, un'etichetta destinata ad ingannare i barbari. Cosciente di aver a che fare con gente astuta, cerca di combatterli con astuzia; non sceglie di fingere il suo strumento di un autore minore o recente, ma di farlo credere una copia: la copia del re dei copisti, Jean Baptiste Vuillaume, che imita Giovan Battista Guadagnini. Per realizzare la copia dell'etichetta di Vuillaume lui fa quel che può, non essendo né esperto, né liutaio: copia attentamente quella riprodotta nel trattato di liuteria del Vannes, e ci mette a penna la data del '67... per caso o intenzionalmente? Questo nessuno potrà mai saperlo, visto che quella è proprio la data in cui Liszt, invaghitosi del pianoforte "l'Immortale" di proprietà dei Savoia, riprende con rinnovato vigore le redini del gioco, e dà inizio quel percorso che attraverso Popper, nel '72, porterà quel violoncello via via fin nelle sue mani.
Sono scenari lividi, desolati, funerei, quelli in cui agisce; c'è come un ambiente squamoso, sordido, viscido come uno stomaco di mostro, di Leviatano, nel quale quel giovane si agita, ormai spacciato. Nasconde un'identità storica mentre si rende conto che sta perdendo anche la sua, inesorabilmente, dissolta negli acidi vischiosi in cui è finito. Forse sarà lui a portarlo con sé ad Auschwitz, forse qualcun altro... numeri, e null'altro che numeri, tutti costoro sono diventati sequenze numeriche, e restano imprigionati nelle cose del mondo, che cambiano aspetto ma non sostanza, in calcoli, proporzioni e rapporti invariati e ineffabili...»
«Capisco... sono fantasmi vaganti nel limbo... è terribile. E forse quel loro limbo è sospeso proprio sopra un semplice sogno di normalità, non di eccezionalità da superuomini, come poteva essere per Wagner o per Liszt, o persino per Popper... forse quel giovane violoncellista sognava solo un mondo giusto, razionale, democratico, pulito...»
«Caro Claudio, la razionalità, la pulizia, la misura, erano cose che avevano già perso la gara con Piatti, tanti anni prima. D'altro canto, né lui né Popper avrebbero mai potuto vincere, cambiare, o anche solo influenzare le scelte di un destino guidato da così tanti uomini superbi, potenti, arroganti... Erano solo "violoncellisti"... essi non sapevano e non dovevano sapere oltre precisi limiti, così rispondevano solo alle sollecitazioni del divino che è in tutte le cose del mondo, distinguendo il bello dal brutto, ma non il male dal bene, quando questi erano cifrati negli intrecci arcani, nei "conserti" fra privilegiati elettori, eletti per nascita ai compiti più alti e arcani nel dominio del mondo. In ultima analisi, ci pensi bene, la parola greca daimónios significa niente più che "appartenente a divinità"...»
«Ma Basevi, Piatti, Popper...»
«Basevi, Piatti, Popper erano solo uomini in cammino, in cerca di una centralità che somigliasse in qualche modo a Dio, per dare un ordine alla loro vita. Tormentati o euforici che fossero nell'atto del cercarla, finivano col credere di trovarla attraverso quella inconfutabile conferma del loro talento che era il successo mondano. Infine, consacravano quel Dio che avevano evocato con l'arte, nei loro diversi modi di rapportarsi ai costumi del tempo, alla storia e alla tradizione.»
«...Sì, credo di seguirla. Tutta questa storia, in fondo, non è affatto diversa da quella della Chiesa di Roma: i misteri supremi chiusi nell'Arca del Vaticano, il segreto a reggere e gestire i rapporti fra le gerarchie, e nella base, in terra, l'atto umilissimo dei fanti di quell'esercito di Dio, a lenire le sofferenze del popolo oppresso; e oppresso proprio dal peso di quelle piramidi virtuali del potere. Popper, Piatti o Basevi, per quel che ho capito, in fondo non furono mai sollevati a rango diverso di Parroci o Curati... Anche se agli occhi dell'ignorante dovevano apparire come idoli pagani, sottomessi all'autorità del Tempio del Dio unico, non erano però gratificati con alcuna trasfusione di sangue dal rosso al blu, neppure se cercavano di comprarsi un titolo nobiliare, o di nobilitarsi nei letti di vogliose principesse o contesse o duchesse...»

«Certo. Vede, tutt'al più erano beatificati a immaginette di Santi da adorare, o, insomma, "santini", scolpiti in legno o in pietra, o su carta stampata, resi coerenti coi principi dottrinali cristiani dal loro essere solo veicoli della parola divina, e non dèi essi stessi.»
«Beh, sa che le dico? Che di fronte a constatazioni di questo genere vien voglia di andare a vivere fra gli aborigeni o coi selvaggi della giungla amazzonica... Ma poi si considera che, oltre al mangiar male e non avere il bagno in camera, al fastidio delle zanzare e dei serpenti velenosi, tutt'intorno a quelle isole, radiazioni plutonico-uranico-aurifere continueranno ad essere irradiate da tutti i telefonini dei nobiluomini, elettisi fra loro, in nome del loro personale dio onnipotente e onnipresente!...»
«Amen. Io ho fame; e lei?»
«Io devo fuggire da qui al più presto: bisogna che mi prepari con cura, perché alle tre sono atteso dal Gran Connestabile, l'Imponderabile Arconte dei Labirinti e delle Correnti, il Barone dei fetidi feti e degli inginocchiatoi per topi da laboratorio spirituale. Oggi sarà in compagnia di qualche Venerabile Umilissimo suo Servitore, con intenzione di elevarmi a rango di memoria volatile del Genio delle Loro Sublimi Intelligenze... guai se arrivo in ritardo! Guardi un po' cosa mi tocca fare per poter far risonare quel violoncello nel posto che si merita!»
«Auguri!»


Così canzonando il mondo e la storia me ne uscivo nel freddo di Vienna quel primo pomeriggio dell'undici novembre, salterellando leggero fra il vero e il falso, il significante e il significato; un cartellone pubblicitario che m'eccitava un solleticante desiderio sessuale, e un colosso mostruoso con la sua bocca murata e la scritta:
WEHRMACHT - MUTTER u KIND. Era indistruttibile, incorruttibile, ineluttabile: Vienna ci conviveva malgrado l'edera che non riusciva a coprirlo, e neppure gli inarrestabili decoratori a spray dei muri pubblici, dopo aver coperto di scritte migliaia, milioni di vagoni ferroviari e di pareti squallide color grigio-cemento, trovavano tempo, voglia, o coraggio per avvicinare quei mostri e ingentilirli coi loro segni svelti e colorati: quelle tre parole massicce, dettate in lettere capitali, dipinte con vernice eternamente incancellabile, erano la cosa inutilizzabile meno restaurata e meglio preservata di tutta Vienna... perché non avrei dovuto conviverci anch'io con un rilassato sorriso?

 

 

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Estratto da "Il violoncello errante" di Claudio Ronco.

© C. Ronco 1999.

 

 

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