...Ricordo bene la leggerezza straordinaria dei miei passi quella notte, mentre tornavo all'hotel; era come mi sostenessero mille angeli alle mie spalle, col loro soffio fresco, gentile. C'era una curiosa elasticità nei miei piedi: a tratti quasi mi fermavo nel provarla, sospingendo il calcagno in alto, e accorgendomi che pareva restar sollevato da terra, staccarsi dal peso del corpo: ognuno di quei "levare" poteva essere infinito, e forse sarebbe bastato crederci, e fermarsi a mezz'aria, scomparendo per sempre dal mondo, in un salto, nell'eternità.
Nella mia camera all'hotel la custodia del violoncello era chiusa, ritta in piedi di fronte al letto, là dove l'avevo lasciata. Non volli aprirla: il libro con le fotografie di David Popper era rimasto sul tavolino di Ahasvero, e io non volevo ancora confrontare i ricordi con la realtà. A pari mezzi, la fotografia di quel violoncello nel 1913 e l'oggetto musicale che stava dietro i pochi millimetri di protezione plastica della sua custodia, si confrontavano nella mia memoria, come due trasparenti fotografici sovrapposti, ognuno portando sedimenti della storia, ognuno ricordando, ognuno offrendo se stesso all'altro.
Così m'addormentai, dolcemente, profondamente. E il mattino si aprì con l'oggetto rinnovato: il violoncello cominciò a cantare la sua nuova vita, l'arco a spingere soavemente la corda, le dita forti, sicure sul manico a indirizzare i suoni all'armonia, tutto quel corpo nobilissimo a vibrare la perfezione delle sfere, per riscaldare il suo animo, risvegliarlo, e iniziare il suo canto nuovo.
In quel momento non c'erano più parole nel mondo intorno a noi: le cose lasciavano i loro contorni e le loro forme; i nomi si dissolvevano districandosi poco a poco dai loro grovigli; si generavano catene ininterrotte di lettere intrecciate secondo numero e frequenza, passando dalla luce all'ombra con solo il piccolo, impercettibile spostamento d'una frazione minima, nel premere o nell'inclinare diversamente le dita sulle corde. Muovevo lento, comandando l'ordine di due voci simultanee, fra ritardi intensi quanto invocazioni, preghiere, risolti in terze o seste solenni, girando maestoso, nel cerchio perfetto del ciclo tonale estremo: dodici suoni eletti, dall'uomo e da Dio, per descrivere le porte del mondo all'anima, accecata dai succhi velenosi, dalla polpa mortale del frutto proibito in Eden.
In ogni tono un giardino, in ogni nota un essere, maschio e femmina, l'uno parte dell'altro e parte di Dio, fiori e frutti insieme, seme e albero uniti, immagine in movimento del Creatore. Sotto ogni tono la sua terra, orto coltivato con l'amore, amore coltivato con sapienza, sapienza coltivata con l'intelligenza, intelligenza coltivata nella speranza.
Sopra, quella voce serena, quella risonanza leggera: la quinta corda, fatta d'aria finissima, ritorta dalle dita sottili e bianche dei Cherubini, tesa fra i punti invisibili delle estremità dell'universo materiale, d'atomi musicali, richiamati fra loro da armonia pura, a formare le cose; materia, là per essere lasciata, perduta, e ancora ritrovata. Cerchio di risonanze ineffabili, eppure geometricamente cognite; nella quinta corda ora era il premio, l'intelligenza e lo spirito uniti, a pizzicarne il suono, e coglierne l'effetto.


Ora, la mia lezione era completata.
Avrei dovuto chiudere quel libro, renderlo volatile nella fiamma sacrificale, sciogliere le ceneri nelle ceneri, e raccontarne solo la materia incorruttibile della sua anima: la musica, nei suoni simili a voci redente, a chiamare a sé i disperati, a cospargere di speranza le loro ali rattrappite, annichilite...
Mossi, invece, i miei passi ancora a quella casa, di fronte al Moloch di cemento, ai suoi occhi vuoti che risucchiavano i sogni, ai suoi interni nerastri che li digerivano e li vomitavano nelle oscure profondità del caos.



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