L'idea I.

Era il 1730. A Parigi un giovane musicista di talento, allievo dei fratelli Saint-Sevins, violisti della più alta scuola francese, abbandonava la viola da gamba per sostituirla definitivamente con il violoncello degli italiani: strumento più sonoro ed efficace nella musica teatrale, sulla scena, e quindi nel racconto musicale; ovvero più adatto al nuovo gusto per la musica esportato in tutta Europa da Roma, da Napoli o da Venezia.
Il giovane talento si chiamava Jean Barrière, e appena ventitré anni dopo, nel 1753, il "Siècle de Louis XV" riportava la notizia della sua fama: «Il famoso Barrière, che è morto recentemente, possedeva tutto ciò che si può desiderare da un violoncellista; nessuno può eguagliare le sue esecuzioni».
Ed egli la sua fama l'aveva cercata solo nel violoncello, offrendogli tutto ciò che aveva appreso dai suoi maestri violisti: l'incanto sensuale della melodia francese, la pienezza e l'inquietudine delle sue armonie, l'ideazione "magica" -o alchemica- delle forme, il gioco sensibilissimo di atmosfere e sentimenti sospesi al di sopra, o al di là del narrare o del descrivere i fenomeni naturali.
Per quei musicisti l'arte musicale era indagine sulla "Natura degli Dei", e solo ad essi apparteneva: non all'uomo.
Così Barrière partiva per l'Italia, pare nel 1736, con in spalla il pesante fardello di uno strumento che, per essere posseduto, necessitava dell'assenso di chi era nato sul palcoscenico italiano, e possedeva per nascita e per natura l'arte di commuovere o divertire nella lingua più musicale d'Europa.
Di sé, tra le fatiche del viaggio e le vessazioni di gelosissimi colleghi, il giovane Virtuoso avrà sognato infinite volte il divenire simile ad Orfeo, e d'imbracciare il suo strumento mutato in Lira, per muovere sicuro e fiero i suoi passi fra le belve, e discendere, visitare e riemergere trionfante dai luoghi più profondi dell'ignoto.
Mi piace immaginare che fosse proprio questo sogno a condurlo a Roma, in cerca del principe dei violoncellisti: quel Francesco Alborea detto il Franceschiello, napoletano, che suonava «così come cantano gli angeli», perché come un angelo, appunto, elargiva il dono di saper suonare il suo ingombrante strumento in un'eufonia di voci maschili e femminili, terrene e ultraterrene.
Franceschiello si era conquistato la sua fama col raggiungere negli acuti le voci dei Soprani -angeliche, candide, innocenti-, e sapendo mimare i toni sensuali dei Contralti così come quelli eroici dei Tenori. Ma ancora potendo calarsi nei suoni profondi e oscuri dei Bassi, nel loro mondo terrificante d'inferi, dove la Natura primigenia attende d'esser sedotta e dominata.
Questa era la grandezza del violoncello: mutare il suono grave della terra e dei suoi corpi più pesanti, in nobile sostegno delle armonie celesti, in fondamenta dell'edificio sonoro: il Tempio apollineo della Musica.
Se veramente il Franceschiello in quegli anni era a Roma -e non a Vienna, come pare documentato-, almeno due anni di studio con quell'angelo violoncellista restituivano Barrière a Parigi, incoronato del Lauro di Roma e del nome leggendario di un Maestro di cui non ci rimane neppure una composizione plausibilmente autentica, né traccia del suo stile.
Al pubblico francese, però, si erano presentati nel frattempo già troppi nuovi violoncellisti, e fra questi era appena stato acclamato il fondatore della scuola violoncellistica nazionale: Martin Berteau.
I suoi allievi e i posteri dichiareranno esser stato anch'egli allievo del Franceschiello -anche se non si capisce come e quando il pur attivissimo maestro napoletano avrebbe potuto aver così tanti allievi...-, ma ben più importante era il fatto che ogni violoncellista di rango, in Francia, dichiarava se stesso «élève du célèbre Berteau», e su di lui fu fondata la tradizione dei fratelli Duport, e da essa deriva tutta la scuola moderna del violoncello, così che pure un Casals avrebbe potuto dichiararsi apostolo di quell'oscuro Virtuoso francese, benché del celebre Berteau si credessero perdute tutte le composizioni per il suo strumento.
E Barrière? Aveva lasciato quattro libri di Sonate per violoncello, che Madame Leclair aveva elegantemente incise su rame: le prime nel '33 e intorno al '40 le altre.
I libri vennero conservati nella Biblioteca Reale, oggi Nazionale, di Parigi, e là quelle composizioni attesero gli anni '80 del nostro secolo, nei quali il violoncellista David Simpson ne ha elegantemente incise alcune su disco; a tutte queste ottime incisioni io mi sono riferito, per sviluppare la mia personale interpretazione.
Oggi, attraverso i caserecci impianti stereofonici di coloro che sono riusciti a rintracciare quell'edizione di raro pregio, Barrière risuona, e potrà aver sorriso di soddisfazione nell'ascoltarsi interpretato con strumenti della sua epoca e nel "filologico" rispetto del suo stile.
Ma potrà addirittura ridere di gusto, nell'accorgersi che la musica perduta del Berteau fu in realtà studiata, eseguita, ascoltata e ristampata ininterrottamente per due secoli, ma attribuita a Sammartini -o, più di recente, a François Martin, e pure a un certo non ben identificato Filippo (?) Martino- poiché la terza Sonata in Sol maggiore dall'edizione del 1748 intitolata «Sonate da Camera a Violoncello solo... composte dal Sig.r MARTINO, opera prima...», conservata nella biblioteca bolognese che fu del celebre Padre Martini, piacque così tanto da diventare popolarissima, e fece finire in una formidabile ubriacatura di "Martini" ogni tentativo di identificarne l'autore.
Nel 1975, dopo ben duecentotré anni, è venuta alla luce in Inghilterra la seconda edizione delle stesse Sonate, datata 1772, in cui il nuovo editore -affinché i posteri avessero di che ringraziarlo- aggiunse al "Sig.r MARTINO" il cognome «BERTAU».
Non più oscuro Maestro dei violoncellisti moderni, ora Berteau può comunicare con noi attraverso quelle sue composizioni, che sono il documento del suo modo d'immaginare la musica per violoncello; e ciò accade proprio quando anche "il famoso Barrière", che tutti avevano dimenticato, rivive nei nostri suoni e nella nostra tecnica del "violoncello barocco", ritornando al mondo dei concerti, e nel Parnaso dei violoncellisti.

L'idea II.

Era il 1736. A Parigi giungeva il giovane virtuoso di violoncello Salvatore Lanzetti. Aveva appena pubblicato ad Amsterdam le sue «Dodici Sonate per Violoncello e Basso, Opera prima», con un'importante dedica a Federico di Brunswick, Principe di Galles, e un altrettanto importante qualifica di se stesso: «Napoletano».
Lanzetti era preceduto dalla fama di essere il prodigioso violoncellista che già aveva meravigliato i più ricercati compositori. Parigi gli aprì le porte dei suoi "Concert Spirituel", e per la prima volta è documentata un'occasione concertistica in cui il violoncello solo è protagonista assoluto della scena: per la prima volta al violoncello veniva concessa la fiducia del pubblico, abituato a credere che solo i Soprani -cioè "i più alti", come i Principi o gli esseri superiori- potessero produrre un effetto di totale appagamento.
Tuttavia il successo di Lanzetti fu assai moderato, forse dall'eccessiva novità delle sue proposte, o forse dal pressante imbarazzo che in quegli anni era provocato dal dover accettare una qualche superiorità espressiva del violoncello rispetto alla francesissima e raffinata viola da gamba.
Salvatore Lanzetti si era formato nella miglior scuola di violoncello semplicemente perché era nato a Napoli, ed era cresciuto nel Conservatorio di S. Maria di Loreto -lo stesso di Porpora e di Farinelli, e negli stessi anni- dove i violoncelli suonavano come soavi voci bianche, inseguendo i virtuosismi canori dei più famosi castrati; potevano imitarne quel particolare timbro androgino e apprenderne i sicuri effetti seduttivi, liberarsi dalla prigionia dei Bassi e attribuirsi la sessualità degli angeli, nell'ebbrezza di quel senso assoluto d'innocenza e beatitudine, che è racchiuso e conservato nella voce dei fanciulli.
Né al violoncello tutto ciò doveva pagarsi con la mostruosità della mutilazione: esso continuava pertanto a rappresentare "l'uomo" nel pieno della sua facoltà penetrativa e procreativa; dal certo, stabile fondamento delle sue armonie, poteva far scaturire l'emozione della frase melodica, e così pure far scorrere le figure poetiche, nelle rappresentazioni teatrali, dove proprio al violoncello era dato il principale compito di accompagnare, fra le Arie e i Recitativi, il percorso meraviglioso dei personaggi.
La musica che apprese il giovane Lanzetti era l'arte dell'imitazione diretta e immediata della natura, ed era chiassosa e sensuale come una strada napoletana in festa.
O chiassosa come i morsi della fame, che spingevano le famiglie a far castrare i loro bambini nella speranza di un futuro di benessere, o costringevano il giovane virtuoso a far compiere alle sue mani -o alla sua gola- prodezze da funambolo per conquistarsi l'approvazione dei potenti.
Come Pulcinella col suo mandolino, Lanzetti partì da Napoli verso il mondo, e forse il suo maggior fardello fu la fame, se poi per tutta la vita si dannò a metter da parte denaro, e a fare e rifare il suo testamento nell'indecisione ossessiva del dover scegliere chi di quel denaro avrebbe dovuto godere.
Il teatro del suo violoncello fu capito solo per quel ribaltamento dei ruoli che il suo eroico virtuosismo seppe compiere, e quando il cantar da soprano sul violoncello divenne un fatto comune, egli non cercò oltre la sua affermazione.
Verso il 1780 morì a Torino, abbastanza ricco, ma ignorato dai nuovi musicisti, che pure cominciavano solo allora a scoprire e apprezzare ciò che lui già sapeva e offriva in gioventù.
Cent'anni dopo, il violoncello tornerà ad essere un prim'attore, con le personalità di David Popper, o Alfredo Piatti, osannati e glorificati dai potenti e da un pubblico che nel frattempo si era smisuratamente moltiplicato; ma i mezzi tecnici di quei violoncellisti restavano inevitabilmente pressoché quelli che già furono dichiarati al mondo da Lanzetti, in quelle sue prime Sonate virtuosistiche stampate nel 1736.
Anche le pubblicazioni di Lanzetti finirono nell'amorevole cantuccio che la Biblioteca Nazionale di Parigi riserva a quei virtuosi del '700; lì io le ho lette, amate e studiate, per poi inciderne una prima interpretazione su strumenti d'epoca, e consegnare così anch'io il mio contributo al già saturo mercato discografico.
Negli scaffali di quella Biblioteca, i libri di Lanzetti stanno quasi accanto ai quattro di Barrière; vicinanza di cui in vita i due virtuosi difficilmente poterono approfittare, e di cui finora non è apparsa finora alcuna traccia in testimonianze d'epoca.
Infatti nel 1736, mentre il parigino partiva alla ricerca di un Maestro napoletano, il napoletano giungeva a Parigi, e quando il primo rientrò in patria per sopravvivere poco più di un decennio al suo debole successo, l'altro partiva senza più grandi illusioni per l'Inghilterra, da cui sarebbe tornato per concludere la sua vita nella mediocre Corte di Torino.
E poi, per dirla alla maniera degli uomini del Settecento, Barrière forse sarebbe stato una "barriera" al successo di Lanzetti, e Lanzetti una pericolosa "lancia" conficcata nel costato di Barrière.
Probabilmente in tarda età, Lanzetti scrisse ancora una Sonata di formidabile virtuosismo; essa restò inedita, ma ne esistono varie copie manoscritte a testimonianza del fatto che ebbe un qualche successo. Questa Sonata fu l'unica fra le sue composizioni ad avere un titolo: «Porto Mahone», o "Marone", o forse "Marino", (o "Martino"?...) in altre copie.
Non so dove si trovasse questo porto, né cosa significasse per l'autore di una Sonata in cui i richiami marini non sono impossibili da immaginare, ma neppure evidenti, o dichiarati, o almeno suggeriti. Ma di certo c'era che il mondo aveva riconosciuto la paternità della scuola violoncellistica italiana ai maestri napoletani, e l'unico nome ad essere immortalato, con toni leggendari, non fu quello di Salvatore, ma quello del Franceschiello.
Mi piace allora immaginare che in un momento di ispirazione teatrale, fra la stizza e la frustrazione, come l'eroe dopo la pena dell'onde in tempesta giunge sereno al porto, Lanzetti abbia deciso di intitolare il suo testamento musicale all'approdo felice e fortunato, in cui per un istante almeno si è in pace con il mondo intero.
Ma forse scrisse al solo fine di rivisitare se stesso per quel grande Virtuoso che certo era stato, e così, indagando ancora una volta nella gravità e nella leggerezza del violoncello, riscopriva nella sua musica tutti i toni melanconici d'Orfeo, e tutti i lazzi di Pulcinella, divenuti ormai un unico, appassionato canto d'amore per il teatro della vita.
Infine, a ben vedere, quel condividere con Barrière gli stessi scaffali della biblioteca parigina, avrebbe potuto permettere ad altri di notare quanto d'Orfeo c'era in Pulcinella, e di Pulcinella in Orfeo; almeno perché in Lanzetti e in Barrière la malinconia musicale era la stessa, ed è la nostalgia profonda della separazione, nel ricordo occulto di quando si era un unico essere: madre e figlio, uomo e donna, Dio e uomo.
Uguali nell'amare, dunque, la Musica, l'Umanità.
E compagni di un viaggio in cui, come in tutti i viaggi, non si attende che l'arrivo al porto.

La lezione.

L'attor tragico e l'attor comico vivono e muoiono allo stesso modo; nei loro ricordi, la fatica del teatro ha lo stesso sapore.
Nella carriera dei nostri due virtuosi, sogni e fatica erano gli stessi, e gli idiomi diversi in cui avevano appreso ad esprimersi cercavano di fondersi in musica, poiché in quel composto di italiano e francese -che essi chiamavano «les gôuts réunis»- intuivano la forza delle unioni, che è energia sempre rinnovata di Amore.
Essi dunque si cercano come amanti, viaggiando come pellegrini penitenti con il pesante fardello/violoncello sulle spalle, sperando in una fama che non otterranno, offrendo un complice sorriso alla loro naturale vanità, che li sostiene nella disillusione.
Un po' Orfeo e un po' Pulcinella, con la testa piena di melodie, si alleggeriscono scaricandone qualcuna sulla carta: per distaccarsene, per osservarle vivere d'energia propria.
E sulla carta Apollo si appropria di quei segni, e su di essi esercita il suo dominio. Dionisio attende invece che da quei fogli scritti scaturisca il desiderio dei suoni, il corpo della musica: là eserciterà il suo potere.
L'inquietudine dell'esistenza è anche quel bilico, dal quale un Lanzetti o un Barrière indagavano in cerca delle loro identità; ed è nelle inquietudini che si sono generate tutte le nostre più grandi opere d'arte.
A noi non resta che riscoprire in tutto ciò quel che vi è di moderno, e porgere loro l'omaggio che i posteri devono a tutti i Maestri, pena il ricadere nella più cupa barbarie.

Claudio Ronco, Venezia, settembre 1996.                       

 

© C. Ronco 1996

 


L'introduzione.
*** L'idea I. *** L'idea II. *** La lezione.


claudio ronco
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