Maschere, e

Metodologie

 

« Noi non siamo più autori di nessuna opera [...] non si può più dare opera d'arte, si può solo più essere opera d'arte [...] bisogna disfarsi degli autori, e farsi, semmai, visitare da chi li ha visitati [...] L'uso e l'abuso dell'amplificazione ha interdetto la comunicazione, sì da precipitarmi da un "dentro", da un interno, in un altro interno. [...] Del suono resta l'alone, la risonanza, [...] l'atto coincidendo col suo immediato svanire...»

(Carmelo Bene, al "Maurizio Costanzo Show", Canale 5, novembre 1995)


« Chiudi l'occhio fisico per vedere dapprima il tuo quadro con l'occhio dello spirito. Poi fa emergere alla luce quanto hai visto nella tua notte, affinché la tua azione si svolga in cambio su altri esseri, dall'esterno verso l'interno »

(Caspar David Friedrich, pittore romantico tedesco, 1774 - 1840)


«
Il teatro acquista il proprio significato nel momento in cui si articola nella vita materiale dei suoi fruitori »

(Roland Barthes, in: L'ovvio e l'ottuso, Einaudi, 1985)

 

Cari amici
     del Guggenheim Public,

 

la sera di mercoledì 17 gennaio 2001, al primo incontro del nuovo anno, scendeva un delicato nevischio, facendo sognare a grandi e piccini il sopraggiungere di una notte incantata e silenziosa sotto il manto della neve, così rara a Venezia.
(L'inquieto affaccendato che volesse saltare subito a delle conclusioni, clicchi qui...)
Alla malinconia intensa di quella promessa di biancore, però, si è sostituita presto una pioggerellina instabile, banale, quasi petulante, a rendere bagnate e traslucide le pietre delle calli. Restava allora quel desiderio insoddisfatto, quella mancanza, più o meno frustrante. Eppure, a ben vedere, la suggestione della magia invernale si ritrovava un poco, appena nascosta nei riflessi glaciali delle luci al neon, quasi "rappresentata" da quegli algidi colpi di luce, come gettati ad arte da un veloce virtuoso del pennello, con bianco di zinco poco stemperato nell'olio, sopra una pittura già indurita di infiniti toni di nero fumo e grigi ingialliti.
A guardarla con occhi attenti, quella visione mostrava la pelle diafana di Venezia, la "maschera" del suo volto, il suo sguardo inquietante e magnifico.

Solo due volte l'avevo vista "mascherata" di neve: era percorsa ovunque dalla silenziosa leggerezza dei fiocchi, e da frenetici fotografi che pure, ogni tanto, sembrava saltassero giù dal treno del tempo, e in lunghissime interruzioni se ne restavano muti e immobili, nella coscienza —vagante, sfuggente, malinconica— che mai avrebbero potuto cristallizzare quella seduzione nelle loro lisce pellicole. C'era infatti il bisogno di muoversi, di camminare, e insieme lo struggente desiderio di fermare il mondo per non segnarne con le nostre tracce terrose e disordinate ogni fragilità e bellezza. Venezia si donava allo sguardo con un'intensità così forte che nessuno poteva sfuggire a un innamoramento straniante, e dunque ne annullava la coscienza calpestandone la figura, cancellandola con le tracce delle sue scarpe, con l'oblìo della quotidianità, col vaporetto da prendere di corsa per andare al lavoro o a scuola o al mercato, col parlare forte di tutto ma non di quell'amore che si ricacciava in gola, codardamente, stupidamente. E la subdola, perfetta organizzazione della nostra banalità spargeva sale sui ponti, per non far scivolare le vecchine e i malaccorti.
Se solo tutti avessimo zittito la nostra paura del silenzio —pensavo ad alta voce per le orecchie gelate dei miei figli, allora in età di giochi e di fiabe— gli orologi di Venezia si sarebbero tutti fermati di fronte all'infinito, e da ognuno di quelli, infrangendo i confini delle loro circonferenze, dodici raggi avrebbero indicato le vie della libertà, e ogni ponte avrebbe scavalcato un universo, ogni pozzo avrebbe risucchiato gli abissi e li avrebbe scagliati nei cieli, mentre i passi della gente, diventata leggera, avrebbero lasciato impronte come segni di pennello, svolazzi, riccioli barocchi e ghirigori, come fanno i gabbiani scivolando o camminando sull'acqua ghiacciata, divertiti, o stralunati.
Ma anch'io rompevo i silenzi parlando, e affondavo le scarpe nelle superfici candide e compatte di quella maschera effimera, decomponendone l'essenza.

Dunque l'altra sera, ritornandomene a casa sotto l'instabile pioggerellina, assistevo al miracolo di una maschera veneziana diversa, ma non meno efficace. Pensavo però che avrei potuto raccontarlo solo a me stesso, seppure nostalgicamente, senza condividerne le suggestioni con nessuno, pena il somigliare a un obsoleto imitatore di qualche poetone o poetastro d'epoca romantica o, peggio che mai, a un retorico, pedante e misantropo consumatore di consumati sentimentalismi fin de siècle...
Quindi tacevo. O meglio, parlavo d'altro. e col mio parlare mi mascheravo in modo adeguato all'ambiente di una Venezia notturna illuminata di gelide luci biancastre o giallognole, dove la gente si mostra indifferente a tutto e parla solo dei fatti suoi, pure se è una coppia di innamorati.

Insomma, ero un essere "diviso", ma con un'inconsueta coscienza di quella mia divisione: c'erano in me, forse per la prima volta, un'identità "pubblica" e una "privata", perfettamente coesistenti e parallele, anzi: "contemporanee". Era forse questo un criptico messaggio della mia psiche, per indicarmi un effetto inatteso, sebbene previsto, voluto e strategicamente provocato dall'esercizio del "Guggenheim Public"?
Ora, io sono quel che si dice "un artista da palcoscenico"; uno che quando ha la faccia gonfia e costipata dai peggiori raffreddori, assiste impotente e incosciente al miracolo della cessazione immediata di tutti i sintomi, dal primo calcare le assi del palcoscenico al momento del ritorno in camerino. Che detto in altre parole dovrebbe essere: dal me stesso "privato" (ma non privato delle mie fisiche debolezze e fragilità...) a quello "pubblico", destinato "all'altro" —"sublimizzato", "universalizzato", in una parola: "teatralizzato"— che in quei momenti, se l'arte compie il suo compito, cesserà come l'attore d'essere "privato", diventando "il pubblico"...

Dunque, pur essendo un musicista, anch'io sono un "Attore". E come attore vesto una maschera, un "alter ego", per "comunicarmi" al mio pubblico; quella maschera è il mio "strumento", ma non solo: è anche tutta la complessità del "suonarlo" e del "farlo risonare" nello spazio del "pubblico". Come attore, io compio un "Actus Retoricus" rivolto a un mondo che apre, dilata dei varchi nel tempo lineare, e sospende tramite quell'atto il corso della natura, in brevi istanti in cui non ne con-divide più le leggi, e ne sperimenta la libertà: io sono cosciente di essere un corpo pesante, dunque volo in perfetta leggerezza; oppure: io sono un corpo imprigionato nella mia figura, dunque mi apro ad altre figure e ad altri mondi possibili.
Ecco dunque l'essenza della "Rappresentazione", che contiene a sua volta —come indicava Alberto Madricardo, pure se indirettamente, proprio quella sera al Guggenheim— l'essenza della "Presentazione", che è sempre quella estrema, sublime, del "presentare" la propria anima e la propria vita all'istante della morte. E se qualcuno aveva osservato che nella rappresentazione c'è sempre un'intenzione o un "effetto" rassicurante, —era Schopenhauer, ancora secondo l'indicazione di Madricardo—, forse è perché il "rappresentare", nella sua sottile implicazione di qualcosa che "si rappresenta poiché non è presente", sostituisce una "assenza", una "mancanza di percezione dell'essere", altrimenti insopportabile.

Ma proprio quella sera, una colta e simpatica signora di professione psichiatra, dava a me l'impressione di ritrarsi da un approfondito parlare di quotidianità attraverso le metafore del teatro, quasi ci si dovesse sforzare di tenere quei mondi dell'arte e della vita sempre ben separati, pena la malattia mentale, la dissociazione irreversibile, un caos da cui sarebbe troppo duro risalire. Qualsiasi fosse stata la vera intenzione di quella signora, io ero piombato in una crisi profonda: d'un tratto, la mia rassicurante abitudine a pensare il teatro secondo l'antica lezione greca, come "il luogo in cui si vede", e dunque luogo in cui è possibile anche la visione dell'invisibile, crollava di fronte al dubbio che nel teatro si potesse "vedere" solo "l'illusione", cieca o miope, di un'altra "figura" di se stessi, anch'essa indissolubilmente legata a un'entità condannata alla solitudine, mortale e terrena, e per questo terrificante...

Ecco: a quel punto, e solo a quel punto, ho iniziato a "penetrare" in quella parola che Anita Sieff aveva offerto a "cardine" della serata, per "aprire", "com-penetrare", "vedere", indagare e interrogarsi sul tema della: "AUTORAPPRESENTAZIONE"... (continua cliccando...)

 

Continua cliccando sulla foto qua sopra,
scattata da Luca Muscarà durante la "Scultura sociale"
al Simposio sull'amore del Guggenheim Public

 

 


(Musica: Maurice Ravel, dal: Tombeau de Couperin, Suite per pf. a 4 mani, 1917.)

 

 

©claudioronco2001