—AUTORAPPRESENTAZIONE—

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«Diventiamo consapevoli di certe rappresentazioni che non dipendono da noi; altre dipendono da noi, o perlomeno lo crediamo; qual è la linea di demarcazione? Si dovrebbe dire "pensa" proprio come si dice "piove". Dire cogito è già troppo, non appena lo si traduce in "io penso".
Assumere, o postulare l'Io, è un'esigenza pratica.»

(Ch. Georg Lichtenberg, in Deutsche National Literatur, 1780, vol. 141, pag.47)

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Certo, era stato chiarito fin dall'inizio che quel termine doveva esser tenuto distante da tutto ciò che potesse relazionarsi esclusivamente all'ego, selezionando per quell'eventuale scopo la parola "auto-referenzialità", che avremmo potuto usare, per esempio, nel descrivere un atto equivalente a produrre e proporre un "monumento della propria immagine pubblica", come gli antichi palazzi dei monarchi o le loro moderne vicende private "raccontate" dai mass-media, o le teatralissime chiese del Vaticano, o la maschera di "personaggio" del mondo dello spettacolo popolare (come quella dei "Blues Brothers", a capo di questa pagina, ma anche di un qualsiasi individuo —politico o religioso o quant'altro— attivo nell'attuale "spettacolo" dell'informazione). Dunque credevo di aver chiaro il concetto da cui avevo sortito con tanta scioltezza queste parole: "ogni rappresentazione necessita di una maschera", compresa quella di se stessi.

Cercavo di spiegare, allora, come nel teatro antico si rappresentassero i miti per spiegarci a noi stessi tramite quelli, e quindi le loro maschere teatrali erano "media" che rimandavano a un mondo separato, con una sua natura, una sua estetica, un suo spazio metafisico e temporale (l'ayon, per i greci) e precise leggi simili o parallele a quelle di un governo ideale, qui sulla terra. Ma con lo sviluppo progressivo dell'idea preromantica per cui era necessario tornare in possesso di una mitologia, secondo la convinzione che la sorgente di quella moderna non fosse più da cercarsi nel mondo sensibile, bensì traendola «dalla più remota profondità dello spirito» (F. Schlegel; chi vuol dettagli, vada alla nota 1, in fondo alla pagina), eravamo giunti a un'era totalmente rinnovata, nella quale sarebbe stato possibile, se solo l'avessimo voluto, creare nuove maschere come "segni" il cui codice, una volta decodificato, non avrebbe più rinviato a un mondo, ma a un'interiorità, dove ogni messaggio è possibile.

Tuttavia —avrei voluto concludere— l'attenzione eccentrica che noi offriamo all'atto di comunicare e comunicarci sposta la sua ottica continuamente dall'oggetto comunicato al suo comunicatore, in una condizione nella quale la "comunicazione di noi stessi" è quasi il solo modo rimastoci per "muovere" il nostro essere e percorrere, o "attraversare" la vita. Così, alla fine, tutto ciò rischia di diventare null'altro che una confusione simile a quella che faremmo nell'ideare e progettare non la vela di una nave, bensì il vento che la deve gonfiare e spingere... In breve: quando con una maschera l'umanità poteva produrre dei fenomeni la cui "missione" era quella —per citare ancora Barthes— «di rendere leggibile la comunicazione fra gli uomini e gli Dei» (op.cit.) l'uomo inventava e sviluppava maschere che erano al tempo stesso "veicolo" dell'arte —intesa come téchne, capacità di fabbricare cose, forme e figure che non esistono in natura— e "metodologia" dell'indagine nell'invisibile, nell'ineffabile, attraverso una osservazione nei "riflessi" delle cose naturali, o in una visione "spostata" da quella di un'ottica immobilizzata nella consuetudine. Una tale condizione implicava che qualsiasi "linguaggio", così come qualsiasi "strumento dell'arte", potesse virtualmente avere funzione di maschera, e agire imprevedibilmente, ma in conseguenza dei suoi prevedibili fenomeni.
L'avere oggi la possibilità di infinite mascherazioni del reale, capaci di rinviare tanto a un mondo —suggerendolo o evocandolo con segni e significanti, non più impicciati dal solo "significato"— quanto "a un'interiorità, dove ogni messaggio è possibile", come detto sopra, diventa una pericolosa, se non tragica follia, dal momento in cui il reale ha cominciato a perdere il senso dei suoi confini e della sua concretezza proprio perché, paradossalmente, confinato nella rete delle informazioni, divenute l'unica "realtà universalmente condivisibile" nella nostra società.
Come osserva l'attore Carmelo Bene, l'arte della nostra cultura occidentale si comunica ormai solo più "da un interno a un altro interno", in un mondo imperniato sul desiderio di "riferirsi" (o "presentarsi"...) alla propria individualità, anche se "di gruppo", e in una civiltà che è costretta ad "amplificare" ogni suo messaggio medializzandolo e inglobandolo in uno spazio ormai privo di un "centro" qual era l'idea di Dio per gli antichi. Pure se proprio quest'ultima condizione potrebbe proteggere l'umanità attuale dall'orrore delle guerre e dei massacri da parte di civiltà fondate sulle religioni o sulle fedi occulte...

Cercavo allora di dire, a un certo punto della serata, che avremmo potuto provare ad accorgerci di questo fenomeno, osservando come nella "matrice" del nostro sistema di pensiero e percezione del reale ci fosse già, ben evidente, la traccia di un errore che ci ha condotti a divenire ciò che siamo; invitavo quindi a notare che nell'entità complessa del Cristo dei cattolici avremmo potuto riconoscere la "maschera" di Dio, ovvero il "media" tramite il quale "l'ineffabile" potesse manifestarsi al mondo. E a quella maschera viene richiesto di "conformarsi" (l'Imitatio Christi) per far progredire i figli del "peccato" (o dell'errore) di Adamo ed Eva verso il trionfo di un mondo superiore su quello inferiore, ambedue, però, "sezioni" o "manifestazioni" non del demiurgo artefice delle cose terrene, ma dello stesso Dio creatore ex nihilo, unico e onnipresente. Ed è naturale che anche la maschera del Demonio sia presente in questo "teatro", antagonista necessario allo sviluppo del "Drama" tellurico.
L'idea di questo Dio d'origine ebraica, non "visibile", non scolpito nella pietra o «
che somigli a ciò che è in alto nei cieli o in basso nel mondo terreno, o nelle acque, o sotto la terra» (Esodo 20:4), è "vincente" e facilmente comunicabile solo dal momento in cui si "rappresenta" all'umanità, attraverso l'incarnazione nel Cristo, sebbene al tempo stesso questo Dio carichi l'uomo delle sue colpe, non più "spostate" caricando la colpa dei mali sulle figure di dèi maligni o spiriti tenebrosi da combattere con le forze degli dèi benigni. Il Dio cattolico, quindi, in un certo senso si AUTORAPPRESENTA incarnandosi nel Cristo, senza il quale non avrebbe altra soluzione che l'essere "rappresentato" da idoli di legno o di pietra, fabbricati dall'arte dell'uomo.

Ecco forse come, scomparendo Dio dal nostro pensiero, rimanga la traccia di quell'auto-rapprentazione nel nostro desiderio di scoprire "chi siamo", prima ancora del relativo "perché". E molto di tutto ciò è già presente nella nostra arte e nel nostro "fare arte", che per secoli ha "magnificato" Dio fabbricandogli opere ammirevoli e meravigliose, nonché monarchi "illuminati" dalla sua divina volontà. Così, nel "magnificare" tradotto in "amplificare", si è "tradotta" una società religiosa in un'altra laica, ma equivalente nel suo bisogno di affermazione d'un controllo e un potere sulle cose fisiche e metafisiche.

Diverso è rispondere all'invito di Carmelo Bene, e osservare come sia divenuto necessario accorgersi che nell'impossibilità di "dare arte", ma solo più "essere opera d'arte", poiché "non possiamo più essere autori di nessuna opera", —non nel mero senso di opera nuova, rivoluzionaria, inattesa, per la quale basterebbe cancellarsi un po' di memoria storica e far spazio a qualcosa di sconosciuto in arte, ma opera sublime, immortale, universale— quasi si restituisce significato all'idea di un Adamo "a immagine e somiglianza di Dio", che dopo il lungo percorso terreno, sulle orme dei suoi figli Caino e Abele, recuperando gradualmente la sua originaria "unità" del femminile e del maschile, inizia il suo "rientro" nel mistero dell'origine primordiale. L'unico problema che ci resta, però, è di scoprire dove e con quali arti dovremmo cercarlo...

Fra dubbi e certezze, fra il pensare a un assoluto e incondizionato abbandono di ogni mito e ogni "metodo" del passato, o a un ritorno nel "paradiso perduto degli archetipi" sognato da quei professionisti del sogno che erano i primi romantici tedeschi, quella sera ero arrivato alla mia crisi: nessuna delle "finzioni" e degli "artifizi" del "mio teatro" riusciva più a offrirmi lo sguardo rassicurante che mi aveva sorretto nelle scelte di tutta una vita d'artista. E di questo dovevo esser grato alle poche parole (magari da me mal interpretate) di una psichiatra fuori dal suo orario di lavoro? O all'artista americana che, seduta vicino a me, aveva sostenuto che erano cose ben diverse il "rappresentarsi nelle vesti di un personaggio" (mitologico o meno) e il "rappresentarsi nelle vesti di se stessi"?
Mi ero quasi alzato in piedi per ribellarmi a quell'idea, gridando che siccome l'attore "si spoglia di se stesso per vestirsi del suo personaggio", prima o poi ci si sarebbe dovuti accorgere di come in quel "suo personaggio" era già sottilmente presente anche la sua personale "identità", e nello stesso tempo, nella necessità di spogliarsi del sé per recitare, quella sua identità personale non poteva che venir "rappresentata", causa "assenza" dell'originale... E che nessuno mi venisse a spiegare —aggiungevo con una certa rabbiosità— di come probabilmente sarebbe stato possibile, e innovativo, immaginare un "teatro" così aderente alla realtà da ospitare il miracolo di una presenza "vera" e non "fittizia" o "retorica" al centro della sua scena! Nessuno —continuavo a sbraitare— può convincersi di essere solo ed esclusivamente quel che crede di essere, dal momento che si offre a un pubblico, pena l'essere macinato in farina finissima e rimpastato dalla macchina dei "media", senza più speranza di ricomporsi allo stato originale; per entropia "amplificata" all'assoluto!

A volte l'errore in un discorso non sta in una mal riuscita "captatio benevolentiæ" o in una scelta infelice di metafore, o un tyché, il caso, scambiato per un telos, la risoluzione, ma semplicemente nello sbagliare il momento dell'atto retorico... così, come accade al cattivo attore, tutte quelle mie parole —cui sarebbe seguita l'immagine di un Gesù in forma di maschera— erano cascate in mezzo a un "passaggio leggiadro, in forma di Minuetto", che i convenuti alla serata stavano godendosi senza che io me ne fossi accorto, fra i brevi e graditi comic reliefs di Thomas (che tra una sigaretta e l'altra si stava finendo la grappa, comme d'abitude...) e gli spessori di faticosamente compres(s)e citazioni da "Nice" (che non era la Ninfa arcadica), Rembaud o Spinoza. Così, ritornato ai miei pensieri in solitudine, ho ricordato quel che mi era capitato di scrivere ormai parecchi anni fa, dopo aver composto —per disperazione, per desiderio inarrestabile di bellezza musicale e di oblìo dalle sonorità del mondo in cui ero nato, tutto sommato, malgré moi— una "Serenata Pastorale" per tre personaggi, Tirsi, Clori e Cupido, messi in musica per tre Contralti, violino e Basso Continuo, nello stile che avrebbe avuto l'approvazione della critica e del pubblico ai tempi di Haendel e Metastasio:

«[...] ma finisco col chiedermi: io ho composto una Serenata allegorica per rivitalizzare le "metodologie" dell'interpretazione filologica [della musica barocca], oppure ho definitivamente decomposto le membra sparse di un irriproponibile modello musicale?
Ciò che rischio, è distruggere quella patina di sacralità che forse è tutto ciò che ci resta per "ispessire" anche le arti minori, quando si impregnano di storia —sebbene, forse, solo per "riflesso"—, quando l'arcinota povertà di contenuti di mèlica e melopea arcadica si nobilita o sublima solo più col "rispetto" che unicamente quella pregnanza riesce a incutere nell'osservatore.

Qui è situato il cuore del mio problema di musicista contemporaneo: vivere in un'epoca di totale saturazione dei linguaggi, nella quale si avverte —come intuiva Thomas Mann nel "psicanalizzare" il suo Doctor Faustus— «la vicinanza della sterilità, la disperazione innata e predisponente al patto col diavolo»
E rinnovarsi con tale patto, si sa, riporta alla disperazione, e sfocia nella follia.

L'Arcadia può redimerci? Forse.
Nella mia Serenata Pastorale l'unica "disperazione" è quella di Tirsi: "arcadicamente" vuota. Eppure, giunto al momento di riscrivere l'Aria di Haendel "Non sospirar, non piangere mio cor, che sono i gemiti indegni del tuo duol", ho intriso di dolore vero, umano, moderno, brutale, le note dell'accompagnamento che vi ho aggiunto. Tirsi sono io, che languisco d'amore per una Musica ingannatrice e diabolica, dall'incantevole nome di Clori?

Ma non è forse la mia una follia d'amore, per quella purissima "perfezione" arcadica, che mi viene negata, e che risuona in me come la memoria dell'innocenza perduta?

E se l'innocenza è irrecuperabile —e in musica nessun "Messia" è giunto per redimere— perché allora io sento l'insopprimibile bisogno di ascoltare ancora e ancora la musica di Vivaldi o di Haendel? Può veramente essere solo perché devo "servire" la storia della cultura?

Temo ormai che potrei non sentirmi più "interprete" della musica che amo —forse mio malgrado, forse dovrei amare qualcos'altro...— ma solo più un "riproduttore sterile", ed è già abbastanza duro sentirmi simile a un sacerdote che ripete un rito ai fedeli, senza speranza di ritrovare memoria dei significati di quel rito stesso.

Scelgo dunque l'inebriante illusione di libertà nel "fingermi" Virtuoso barocco anch'io, e la difficile, malagevole condizione di "mascherarmi" con gli "strumenti originali d'epoca" di cui mi servo per ri-comporre una Serenata in modo antico. Vesto una maschera da Virtuoso affinché produca dei fenomeni —per citare ancora Barthes— "la cui missione è quella di rendere leggibile la comunicazione fra gli uomini e gli Dei" (op. cit.). E gli Dei sono coloro il cui linguaggio è situato al di là del tempo e dello spazio, mentre uomini sono coloro i quali sentono l'urgenza di un linguaggio che dallo spazio e dal tempo si possa liberare, in piccole o grandi intuizioni.

Forse è proprio per questo che, quando nella mia Serenata Cupido si è addormentato, nella leggerezza del sogno (e nella libertà dal peso del mio violoncello, che cessa di suonare poiché in questo gioco teatrale rappresenta l'arco e le frecce di Amore), il violoncellista posa il suo strumento a terra, e canta l'Arietta mista al Recitativo: "Tacete, voi che sapete! (è proprio vita dura!) Dorme Amor, nol vedete? Non sia voce importuna che gli turba il riposo: Amor giace... (Sol quando dorme Amor, il mondo è in pace!)".

Sì, con questo mio lavoro io invito a credere all'esistenza di Cupido, Tirsi e Clori solo in quanto essenza musicale, pura astrazione, ma anche strumenti dell'ineffabile, e, soprattutto, come "segni" il cui codice, una volta decodificato, non rinvia più a un mondo, ma a un'interiorità, dove ogni messaggio è possibile. [...]» (2)

Forse... non avevo tutti i torti... Ritorniamo in Arcadia, amici: probabilmente i romantici erano solo degli stolti!
...O forse, dopotutto, aveva ragione l'artista romantico Füssli, quando in uno dei suoi "Aforismi" scriveva: «Il momento centrale, il momento dell'attesa, la crisi; ecco il momento che conta, pieno di passato, carico d'avvenire...»
Che me ne faccio dell'arte che ho ricevuto? Di queste mie armonie in crisi?...Cerco la melodia, e canto: «Vado... ma dove?... Oddìo!... / Resto... ma poi... che fo? / Dunque morir dovrò, / Senza sperar pietà?» (P. Metastasio, dalla Didone abbandonata, 1724)
...Secondo me,
—e pensatene quel che vi pare—
non suona niente male, dopotutto!
...«Tu vuoi saper s'io vado / Tu vuoi saper s'io resto; / Sappi, ben mio, che questo /
Non lo saprai da me. /
Non che pudor nativo / Metta alla lingua il morso /
O che impedisca il corso / Quel certo non so che...»

(A. Manzoni, parodia del Metastasio, 18...?.............................................

Addìo... cioè, al prossimo incontro! Forse nevicherà...

 

Venezia, 18 gennaio 2001.

Il vostro affezionato
Claudio Ronco.

« Non ti posso mandare la mia interpretazione della parola "romantico"; essa è lunga 125 fogli »

(Friedrich von Schlegel, lettera al fratello, 1798)

« Presque toujour ce qui nuit à la beauté morale, redouble la beauté poétique. On ne fait guère que des tableaux tranquilles et froids avec la vertu; c'est la passion et le vice qui animent les compositions du peintre, du poète et du musicien.»
(Quasi sempre ciò che nuoce alla bellezza morale raddoppia la bellezza poetica. Con la virtù non si può far nulla più che quadri tranquilli e freddi; è la passione e il vizio che animano le composizioni del pittore, del poeta e del musicista)

(D. Diderot, Le neveu de Rameau, 1761)

« [...] la vita ha sposato l'inconscio e l'involontario al ragionevole e allo spontaneo: e quindi l'uomo non dovrebbe separare ciò che il cielo ha unito.»

(I. P. V. Troxler, Blicke in das Wesen des Mensches, 1812)

 

 

MASCHERE = PERSONÆ

MASCHERA:

deriv. in -era, da un lat. medv. masca "strega", affine al dialettale masca v. "guancia", risal. a un tema mediterr.

RAPPRESENTARE:

dal lat. repraesentare, comp. di re- e praesentare, incr. col doppio pref. it. ra(d)-.

PRESENTARE:

dal lat. tardo praesentare, verbo denom. da praesens, -entis; v. PRESENTE.

PRESENTE:

(agg.), dal lat. praesens, -entis che non è part. pres. di praesum "sono alla testa di qualcosa", ma calco su absens con la sostituz. di prae- "davanti" a ab- di assenza.

( G. Devoto, Diz. Etim.)

 

CONTINUA

continua in versione Flash 4


Da qui ti muovi verso un percorso, o un seguito, di "pure visual art" (almeno credo...),
scaturito dalle mie paure. Entra, se vuoi, ma senza paura.
Tuo Claudio Ronco.



Maurice Ravel, dal: Tombeau de Couperin, 1917.

©claudioronco2001

 


NOTE

1) «La nostra poesia, vi dico, manca di un centro, qual era la mitologia per la poesia degli antichi. E tutto l'essenziale per cui la poesia moderna resta addietro rispetto a quella antica, può essere espresso col dire che noi non abbiamo una mitologia. Ma, aggiungo, siamo prossimi ad averne una o, piuttosto, s'avvicina il momento nel quale dovremo seriamente collaborare a crearne una. Poiché essa verrà a noi per una via del tutto opposta a quella dell'antica, che fu soprattutto la prima fioritura della giovanile fantasia, riattaccandosi e informandosi immediatamente a ciò che di più vicino e più vivo era nel mondo sensibile. La nuova mitologia deve, all'opposto, venir tratta dalla più remota profondità dello spirito. Essa deve esistere come la più artistica di tutte le opere d'arte, perché deve comprendere tutte le arti, un nuovo letto e un nuovo vaso per l'antica eterna primigenia sorgente della poesia, la poesia infinita stessa, che cela i germi di tutte le altre poesie.»

(F. Schlegel, Frammenti critici e scritti d'estetica, Firenze, Sansoni, 1967, p. 192; trad. corretta sull'originale tedesco da me)

2) Dalla presentazione per "Serenata Pastorale, un omaggio ai Virtuosi del Settecento", di Claudio Ronco, commissionato dal Festival "Segni Barocchi" di Foligno, 1988, e da Rai3.
« Curioso, e plausibile capriccio-collage poetico musicale, destinato al concerto da camera di una Cantante d'Opera, due contraltisti suoi colleghi, il Primo Violino, il Virtuoso di Violoncello e un maestro al cembalo, come avrebbe potuto svolgersi a Venezia verso la metà del sec. XVIII. Composto scomponendo, manipolando e ricomponendo: Arie, Duetti, Terzetti e Recitativi, frammezzati a qualche movimento di Sonata in stile languido o brillante, a modo di Preludio o Intermezzo strumentale, al fine di compiacere la Vanità dei Virtuosi d'Istrumenti, senza dispiacere quella dei Virtuosi del Canto. Scritto e concertato dal moderno Violoncellista e Compositore Claudio Ronco, con ossequioso rispetto per i materiali originali, passione e follia metodicamente barocche, al fine di condurre la sua contraffazione con metodica filologia. Pasticcio euforico di settecentesche armonie, per il musicista contemporaneo, e perciò inquieto irrequieto indiscreto irriverente. Espressione e manifestazione di edonismo, ma anche della gradita prigionia nelle gabbie di un Cupido che s'era nascosto fra i suoni del Violoncello antico. Serenata allegorica, anche questa, per raccontare di Dei e Pastori, e di Muse che allattano, con irrecuperabili melodie, il melodista smarrito.
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http://web.tiscalinet.it/claudioronco/serenata.html