G.F. Haendel, Xerses, Londra 1738.
«Ombra mai fu di vegetabile, cara ed amabile, soave più»; Se l'arte di Haendel sapeva essere piacevole intrattenimento e, contemporaneamente, sublime viaggio nell'inconscio, o ascesi dello spirito (quello non alcolico, sebbene portatore di ebbrezze e vertigini assai simili, da un punto di vista strettamente corporale), ciò era grazie a un mondo che riusciva a far convivere realtà diverse senza che, contaminandosi caoticamente, tutte finissero col banalizzarsi. Tutto il contrario di oggi... Però, a ben vedere, forse era proprio il teatro ad essere la medicina giusta contro la banalizzazione, la saturazione, la fobia da globalizzazione... perché il teatro ai tempi di Haendel — com'era dai tempi delle civiltà antiche fino all'avvento del cinema e della televisione — era di fatto il luogo in cui lo spettatore non era mai passivo durante la rappresentazione, ma sempre partecipe di un'esperienza vissuta collettivamente, totalmente e soprattutto contemporaneamente agli interpreti dell'opera teatrale. Succede tutt'ora in certi remoti angoli del mondo, come il Tibet, o qualche regione africana, o alcune città indiane d'incontaminata cultura, come Calcutta o Benares. Succede a un concerto rock? No, assolutamente no. Proprio perché a un concerto rock ci si ritrova sicuramente all'interno di un'esperienza di massa, ma in cui c'entra la chimica ben più dello "spirito" (l'adrenalina, per esempio, ma in fin dei conti anche l'eroina...), proprio come accade in una taverna con un'ubriacatura di vino mediocre. E nel nostro attuale mondo, sembra che l'intelligenza sia sballottata fra un'assoluta devozione a un Dionisio ormai rincretinito dal vino cattivo, e la razionalità di un Apollo la cui Lira non è solo scordata, ma è proprio rimasta senza corde. Noi stiamo perdendo giorno dopo giorno ogni residuo frammento di cultura musicale (non importa di quale civiltà: europea o asiatica, cristiana o induista...), e con quella il grado più alto della nostra coscienza di esseri umani civili, ossia liberi dalla schiavitù dei sensi che ci rende bestie perniciose, virus mortali per il nostro pianeta... La musica?! Ma certo! A che ci serve saper riconoscere la differenza fra un primo Beethoven e il Beethoven di Heiligenstadt, se poi l'esperienza del nostro ascolto è chiusa in noi, non si comunica che attraverso parole "informate" che descrivono le strutture superficiali di un oggetto ridotto ad essere sempre uguale a se stesso? Che ne sarebbe di uno "stregone" africano se smettesse di vivere i suoi rituali non solo credendo al valore delle sue azioni, ma vivendone profondamente e totalmente l'esperienza nel mondo sensibile? La musica, nei tempi antichi, era "luogo" dove esperimentare la morte e la trasfigurazione, l'abbandono di un corpo tellurico per "vestirsi" di un corpo celeste, armonico: una società in disarmonico disaccordo, risaliva dalle profondità del caos riconoscendo la forza d'attrazione degli ordini d'Armonia, e riscopriva così —ogni giorno— l'amore necessario alla vita. E, sapete... da buon musicista, ho davvero le prove che fosse proprio così... Anche se non
riesco più a comporre musica con tanta facilità... E se dobbiamo ricomporre qualcosa di morto, cercheremo la sua materia, o preferiremo il suo spirito? Perché allora - se il rifiuto dei disgustosi, macabri resti di ciò che era vivo e palpitante è l'ovvia, naturale risposta -, perché dovremmo conservare dell'arte solo l'oggetto, o la cruda materia già ridotta a forma finita, e sforzarci di possedere o coltivare complesse maniere di attraversarne il senso in qualsiasi direzione, se poi, per stanchezza o confusione, quell'oggetto si finisce col crederlo "soggetto" capace d'espressione e vita propria, così invadendo e saturando la terra non solo d'un eccesso di esseri umani troppo attaccati alle loro carni, ma anche di automi e feticci del genere umano? Forse la risposta è semplice: «Lo tov heyot ha-Adam levado», ovvero:«Non è bene (Tov) che l'uomo sia solo» (Genesi 2:18), che è possibile tradurre anche in modo più esatto, applicando alla parola "tov" la lezione talmudica, con: «È impossibile all'uomo di esistere nella solitudine». Proprio per questo, il versetto biblico continua e conclude (anzi: è Dio in prima persona che conclude la sua frase) con: «Farò un aiuto contro di lui». Questa stranezza linguistica, o questo paradosso, è sempre ignorata nelle traduzioni bibliche, che risolvono, nel migliore dei casi, con un bel: «farò per lui un aiuto che gli si confaccia» (trad. Dario Disegni e Alfredo Sabato Toaff; Torah veHaftaroth, Marietti, Torino 1976). Osservando meglio, la parola ebraica "ezer", "aiuto", proprio come in italiano, anche in ebraico è maschile; tanto basta a far sì che l'osservatore attento intuisca come la "complementarietà" dell'uomo non abbia, in origine, un volto femminile... quanto invece all'enigmatica espressione "aiuto contro di lui", la parola "keneguedò" si traduce in "contro di lui", poiché deriva dalla radice "naguod", che significa "opporsi", ma anche... "raccontare"... quasi quell'aiuto dovesse essere il "raccontare" all'uomo un "altro" mondo possibile, un'altra possibilità... Così Dio trarrà dalla costola dell'uomo fatto cadere nel sonno, quella donna che poi lo farà cacciare dal Paradiso terrestre? No, non è così. Certo, in ebraico la parola "Tzelà" significa costola, ma significa anche "lato", proprio come in latino: "costa". E per di più significa anche "fallimento", ma pure "zoppicare"! Certo, sarebbe perfino più logico immaginare che Dio tragga la donna da un "lato" dell'uomo, piuttosto che da una pezzo del suo corpo, soprattutto quando si è intuito che quel primo essere creato dalla polvere, Adamo, certo non poteva ancora essere sessuato. E così, infatti, dice della prima creazione il primo capitolo di Genesi: «Egli lo fece maschio e femmina» (Gen. 1:27), e tanto basta per sapere che il primo Adamo era androgino, ma orrendamente solo... un mondo finito, chiuso su se stesso, immutabile, e quindi destinato alla distruzione... La donna è allora il suo dividersi, moltiplicarsi, espandersi... a cominciare da quel "lato", quella curiosa parola: "tzelà", scritta con tre lettere: "Tzade-Lamed-Ayin". Anche la sua radice è composta di tre lettere: "Tzade-Lamed-He", che suonano anch'esse "tzelà"; e così scritta la parola "tzelà" significa: ...“ombra”... Già... sono parole che mostrano le loro diversità solo nei segni grafici della scrittura, oppure nei giochi possibili col loro suono; ad esempio: "Tzade-Lamed-Ayin" sono tre lettere che si possono leggere "tzel-ayin", così significando: "all'ombra della sorgente"... e il senso si agita in quei suoni fino alla vertigine, trasformando, connettendo... io, Claudio, m'accorgo di "zoppicare /tzelà" come il patriarca Jacob ferito al nervo sciatico, mentre quella parola "risuona" ancora nella parola ebraica "tzelel", "risuonare", e in "hatzelil" "mettere in musica", e in "tzelo", "violoncello"... Non è forse così che oggi cerchiamo il senso nell'opera d'arte? Non è forse così che un re antico si innamorò dell'ombra del suo platano, anziché d'una donna?
...Torniamo a teatro, ve ne prego!
Claudio Ronco Largo di Haendel
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