~ T E A T R O ~

 

~ T E A T R O ~

 

    Alcuni anni fa, a cena da amici amanti dell’arte e della cultura, capitò per caso, all’ultimo momento, un anziano attore drammatico che si sedette a tavola con noi. Qualcuno gli fece la domanda rituale: «Cosa stai preparando di nuovo, nel tuo teatro?», e lui rispose, con una certa divertita leggerezza: «Uno spettacolo di parole».
Tutti s’incuriosirono e tacquero, nell’attesa che qualcuno prendesse l’iniziativa di farlo continuare sull’argomento. Ma prima ancora che qualcuno formulasse una domanda, lui, da ottimo attore qual era, approfittò del silenzio e della predisposizione all’ascolto di quel momento, e continuò: «Sul palco ci sarò soltanto io, offrendo parole al pubblico, per circa un’ora».
A quel punto tutti avevano gli occhi su di lui, e qualcuno chiese: «D’accordo, tu dici “parole”. Ma parole di chi? chi le ha scritte? chi è l’autore
«Beh —rispose l’attore— le hanno scritte un po’ tutti gli scrittori, o i poeti... non è così?»
«No, no, va bene, d’accordo... —continuò l’interlocutore, nelle cui parole si immedesimavano tutti i convitati alla cena— forse non ci siamo capiti... Intendevo dire: dove hai preso quelle parole? Insomma, che testo hai usato? come lo hai usato?...»
E l’attore fu fulmineo nella sua risposta: «Dal dizionario! perdìo! E dove altrimenti avrei potuto trovarle tutte insieme?...»
Quello fu, ovviamente, il momento centrale, la conquista del massimo silenzio, della sospensione del tempo, e l’istante di quella particolare e rara tensione dell’intelligenza verso il punto di possibile espansione.
Dunque, su quel “terreno”, l'attore proseguì: «Cercate di capirmi: la gente oggi, anzi il pubblico, non ha più nessuna voglia di ascoltare le storie degli altri. O forse non ne ha proprio il tempo... sicché a me non resta che raccontare a ognuno di loro la sua personalissima storia, che è rimasta l’unica che ha voglia e tempo di ascoltare. Ma come potrei fare io, povero attore indipendente, a realizzare e offrire uno spettacolo o un racconto ogni volta per una sola persona di pubblico?... Beh, certo, potrei fare dei film, o recitare solo in televisione. Ma anche in quel caso non avrei tempo a sufficienza per accontentare un numero sufficiente di individui disposti a pagare il mio lavoro e permettermi di continuare a svolgerlo, a meno di ingannarli, facendogli credere di raccontar loro una storia personale e unica, ma in verità già venduta a milioni di altri individui... Insomma, finalmente ho trovato il modo per risolvere i miei problemi di teatrante e quelli del mio teatro: vedete, io salgo sul palcoscenico e inizio a recitare parole, una dopo l’altra. E alcune le recito con rabbia, altre con dolcezza, altre ancora con energia o debolezza, sussurrando o gridando... e così, una dopo l’altra, le parole raggiungono ogni singolo individuo in sala, e ognuno ascolta solo ed esclusivamente la sua storia personalissima e unica, segreta e irripetibile, uscendosene poi felice e soddisfatto dal mio teatro, che così non fa bancarotta, né chiude i battenti».
Tutti erano ammutoliti e affascinati, gli occhi fissi sul sorriso enigmatico di quell’uomo, e solo allora lo vedevano nella sua integrità, fatta di un viso sofferto e stanco, abiti dismessi e consunti, forse non per scelta o maniera, ma per necessità e contingenza...
E qualcuno ricordava che quell’attore aveva recitato per più di vent'anni le “parole” di Pirandello o di Feydeau, di Corneille o di Molière, di Shakespeare o di Chaucer, ma anche le sue, in composizioni raffinatissime che pure erano rimaste solo in manoscritti mai dati alle stampe.
Allora, per togliersi dall’imbarazzo del dover rompere il silenzio, il padrone di casa risolse il suo dovere di ospite rivolgendosi all’attore e a me insieme, con questa domanda: «Dunque il tuo teatro, ora, in qualche modo, è fatto di una parola astratta dal senso, libera dal significato, diventata pura musica?»
E qui l’attore si volse verso di me, il musicista, passandomi l’onore della risposta con complicità. Io fissai il mio pubblico negli occhi, e poi offrii con fermezza questa risposta: «No, nulla a che fare con la musica pura. Essa infatti ha bisogno di esattissime sequenze e di precisissime relazioni strutturali, e non può adeguarsi per conseguenza a nessuna costrizione di senso e significato... insomma, la splendida proposta teatrale che ci è stata descritta è quanto di più lontano si possa offrire dal tessuto o dalla materia della musica pura».
L’attore si alzò in piedi e mi abbracciò così forte che tutt’e due cominciammo a singhiozzare e ridere insieme, allontanandoci nella nostra solitudine, con gli occhi lucidi di lacrime.

 

Claudio Ronco

 

 

Lettera a un moderno
Attore di Teatro,

dopo una casuale collaborazione musicale per una moderna Commedia, messa in scena con sacrificio e devozione all'Arte, e con la solita mancanza di soldi...

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Un grazie enorme dell'aiuto (indispensabile) del quale ci hai fornito.
A presto,
Davide
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Non c'è di che, caro Davide...
E' stato molto bello e istruttivo essere lì da voi anche in questa occasione, e vi ringrazio dell'opportunità.
Devo dirvi che quello che avete messo in scena non è un testo interessante, ed è anche molto disequilibrato; né più né meno della struttura narrativa che si osserva nei comuni video-clip, dove però l'estrema brevità e accumulo di stimoli audio-visivi produce l'effetto di "compattezza" necessario a ricevere l'integrità della proposta... in altre parole: cose che durano un giorno e basta, effimeri che, non poggiando positivamente i piedi nel terreno degli archetipi universali, se ne vanno in un soffio, si disperdono in un "troppo pieno", in ammassi che soffocano ogni sguardo sul vuoto, dove il soffio, al contrario, a volte può essere quello sottile e ineffabile della creazione...
Ti dico questo —assumendomene ogni rischio— perché sono commosso e felice di osservare la vostra energia e onestà di attori, e il modo in cui si articola nel caos di segni, orme e tracce dell'attuale comunicazione retorica. "Attore", intendo, come agenti quell' "Actus-Retoricus" ineludibile, che lascia emergere quel poco che non si può "de-finire" del proprio "esistere" (osservato come: "ex-sistere", dove "ex" è "uscire da") nel mondo fisico, e quell'altrettanto poco che si può "teorizzare" (dal greco "theoria", "osservazione" del divino) del mondo metafisico nell'arte del nostro tempo storico.

Forse dovremmo tutti cercare un modo per non sprecare la nostra energia in imprese inadeguate, o forse proprio questa è un'impresa quasi impossibile oggi...

Lascia che io ti inviti a meditare su quanto assurda sia la mia anti-economica produzione musicale, scrivendo su pentagramma partiture destinate all'intelligenza del musicista e al suo agire nell'ambito di un sistema espressivo che impone una costante interazione fra intelletto e istinto, laddove la "richiesta di mercato" non solo favorisce, ma addirittura impone soluzioni di pura istintualità, rimaneggiando e rimescolando il "già esistente". Per intenderci, ciò che voi mi avete richiesto in quanto a "musiche" è quanto si produce con efficacia solo con mezzi "non creativi", ovvero con il "repechage" (ri-pescamento...) di frammenti già "vissuti". In altre parole, ciò che ogni adolescente munito di computer con costosa scheda audio e adeguati programmi per il suono mette insieme con perfetta efficacia e celerità, pescando liberamente in un oceano di suoni già digitalizzati e pronti all'uso e consumo.
Quando voi mi avete chiesto un "effetto sonoro" destinato a "descrivere" uno sciopero, voi avete formulato la vostra richiesta in termini di "una musica per lo sciopero", e a questo io ho indirizzato la mia intenzione... cosa è successo allora? Bene, in quell'occasione è successo qualcosa su cui è importante svolgere una breve analisi: io, sul mio "foglio di carta" elettronico, ho iniziato a costruire qualcosa che perseguisse quel preciso scopo, chiudendomi all'interno di un percorso compositivo configurato sulla preparazione di schemi logici relativi alla combinazione "compositore-esecutore", secondo una concezione di questi che intende ambedue "attori" in un ambito retorico. Per farmi capire meglio, è successo né più né meno di quanto sarebbe accaduto se voi, dopo avermi chiesto un "canto di uccelletti", mi aveste visto non armato di microfono a registrare i suoni in un boschetto alle prime luci dell'alba in primavera, bensì curvo sulla carta pentagrammata a inventar modi per far suonare flauti e violini in modo imitativo di tali suoni naturali, immaginandomi immerso nei suoni di un'alba nel boschetto primaverile, fino al punto di non essere più in grado di accorgermi di quel che avevo intorno, compreso il fatto di non poter più disporre né di violinisti né di flautisti capaci di leggere ed eseguire la mia partitura...
Ora, in una condizione positiva di osservazione-azione —ossia reagendo con positiva reattività al "reale" ambiente in cui ci si trova a dover agire— io avrei dovuto munirmi immediatamente di un microfono, invitarvi a salire sul palco a battere ritmicamente i piedi e urlacchiare un po', e dopo aver registrato il tutto, in pochi minuti consegnarvi pronto e "perfetto" ciò che desideravate. Purtroppo per me, però, questa agilità intellettiva non l'ho avuta, e la confusione linguistica e semantica in cui sono andato a perdermi mi ha fatto, appunto, "perdere", e sprecare tempo ed energia.
Ma dietro a tutto ciò non è presente solo la mia "ragione" di compositore "tradizionale" e la mia "cultura classica", col relativo impegno a conservare e proteggere tutto ciò dall'estinzione, ma anche qualcosa di più...
Me ne sono accorto quando, seduti in campo santamargherita, al bar, la persona che mi sedeva accanto parlava di teatro, spiegando con ottima espressione come "se per muovere un oggetto da un punto a un'altro della scena usiamo l'attore, laddove ciò venga fatto solo perché esiste il bisogno di tale spostamento e non si trova altra soluzione a tale necessità, l'azione che ne deriva non sarà a servizio del teatro, ma servirà solo le necessità del direttore di scena"... Ero inizialmente felice di riascoltare questa lezione di John Addison, pubblicata nel "The Spectator", espressa anche da Metastasio in una lettera a Farinelli, riconoscibile anche in molti altri luoghi e certamente in buona parte dei testi di regia teatrale, finché non mi sono reso conto che essa veniva data e ricevuta come un'idea originale, offerta con tranquilla benevolenza e semplicità a un tavolino di bar, chiacchierando di mondanità con la testa occupata a restar parte di quel che da tale mondanità può emergere, ottenendo successo e approvazione.
Come mai io stavo ascoltando John Addison e non il mio vicino di tavolo?
Proprio perché io, che meditavo sul "perché?..." mi ero messo a "scrivere" il rumore di uno sciopero anziché "farlo produrre" e registrarlo, individuavo l'origine del mio errore nella memoria di un'altra lezione dell'Addison:

“In teatro, ogni realtà deve giungere in scena solo tramite l'artifizio” .



Ciao, amico caro e vero attore di teatro...

Spero tu non voglia cominciare a detestarmi, dopo una così lunga comunic-azione...
Ti abbraccio, tuo Claudio.

 

 

 

 

Claudio Ronco, da "Chiostri":

"violence three "

 

 

 

 

©claudioronco2002