Contrappunti
del Silenzio
«Il ponte [...] presenta sistematicamente la “scala doppia”: a ogni salita corrisponde una discesa.
«Si sale allora da un lato per pioli che sono “scienze”, cioè gradi di conoscenza corrispondenti alla realizzazione di altrettanti stati, e si ridiscende dall’altro lato per pioli che sono “virtù”, cioè i frutti di questi stessi gradi di conoscenza applicati ai loro rispettivi livelli.»
(René Guénon, Simboli della scienza sacra;
in: Giuseppe Sinopoli, Parsifal a Venezia, Marsilio 1993, pag.55)
Per capire meglio quanto detto fin qui, potremmo sintetizzare una visione della storia di tutte le arti dal Barocco al contemporaneo (facendo attenzione, certo, ai danni del troppo semplificare…) osservando come "l’operatore" dell’arte barocca –pittore, musicista, poeta, filosofo o quant’altro— a un punto della storia abbia iniziato a "mascherarsi" con un "nome d’arte" scelto per poter accedere a un universo parallelo e storico/mitologico: l'Arcadia. Indossato quel nome, l'artista "trasferiva" la sua personale identità storica a un "altrove", fuori dal tempo consueto ma non per questo estraneo alla realtà del presente. In tali condizioni di mascheramento, l’espressione congiunta del personaggio mitologico rappresentato e dell’individuo reale che ne "vestiva" il nome si intrecciavano sotto il controllo di un sistema ben ordinato di regole retoriche. Tutto ciò non è molto diverso dal comportamento di un artista di teatro di qualsiasi altra cultura antica: il musicista dell’India si riveste degli attributi di un Raga, immaginato a somiglianza umano-divina, o uno sciamano di qualsiasi società tribale si maschera degli attributi di una divinità tellurica, a sua volta mascherata con gli attributi della sua creazione terrestre, quali la terra o il metallo o l’acqua o il sole o la luna.
Quando nell’arte del Barocco, con la sovrapposizione della mitologia e storia antica alla lezione cattolica, si uniscono l'intreccio delle diverse mitologie e l’incontro della realtà sociale con la rappresentazione retorica di se stessa, ha inizio a una vicenda di rappresentazioni del potere spirituale e secolare che in capo a mezzo secolo è già fonte di profonde crisi intellettuali, proprio perché si sono manifestati gli inevitabili contrasti tra la retorica dell’élite dominante e la coscienza formatasi nell’esercizio dell’osservazione introspettiva, che il teatro della società nobiliare dell’epoca aveva saputo rendere cosa viva e pulsante nel suo raccogliere materia poetica anche nell’ambiente e nella cultura "naturale" del popolo: il pubblico intellettuale presto non sarà più tollerante verso le "mostruosità" teatrali quali i castrati o gli eccessi di edonismo, pian piano non vorrà più vedere in scena la figura del popolano ridotta a icona di stupidità, si preoccuperà di cercare un linguaggio teatrale il più possibile aperto ai diversi livelli di comprensione e godimento.
Da qui inizia una vicenda del tutto nuova per il mondo occidentale, nella quale è la mitologia a spostarsi nella realtà, e non più "l’uomo reale" nel territorio mitologico. O meglio, accade che "l’uomo della realtà" si muova verso il mito, cambiandone radicalmente i connotati: l’entità mitologica, all’inizio del Romanticismo, si conforma al tempo storico dell’umanità dei suoi fruitori e trae la sua immagine da un mondo che ad essi appartiene, nel quale essi vivono anche al di fuori dell’esperienza teatrale e artistica. Niente più Giove e Venere, quindi, e neppure Mosè o Paolo, ma uomini, donne, vecchi o bambini divenuti “heroi” di vicende la cui ambientazione è sempre riconducibile a una realtà vissuta, nella realtà o nel mondo onirico che da essa è generato, qualsiasi cosa ne pensassero o credessero i primi romantici come Friedrich von Schlegel:
«La nostra poesia, dico, manca d'un centro quale era la mitologia per quella degli antichi, e tutto l'essenziale per cui la poesia moderna resta addietro all'antica può essere espresso col dire che noi non abbiamo una mitologia. Ma, aggiungo, siamo prossimi ad averne una o, piuttosto, s'avvicina il momento nel quale dobbiamo seriamente collaborare a crearne una. Poiché essa verrà a noi per una via del tutto opposta a quella dell'antica, che fu soprattutto la prima fioritura della giovanile fantasia, riattaccandosi e informandosi immediatamente a ciò che di più vicino e più vivo era nel mondo sensibile. La nuova mitologia deve, all'opposto, venir tratta dalla più remota profondità dello spirito, deve essere la più artistica di tutte le opere d'arte perché deve comprendere tutte le altre, un nuovo letto e un nuovo vaso per l'antica eterna primigenia sorgente della poesia, la poesia infinita stessa che cela i germi di tutte le altre poesie.»
(Friedrich von Schlegel, Frammenti critici e scritti d'estetica,
Firenze, Sansoni, 1967, p.192).
Tutto ciò accompagna e distingue un’era di radicali trasformazioni del mondo e dell’intelligenza, e vivendo in quella, noi assistiamo alla crescita del potere di una società dominante in virtù di una vasta tecnologia che va dal controllo della natura al controllo del pensiero delle masse di esseri civilizzati e urbanizzati. Giunti al punto della storia umana in cui quella stessa tecnologia ha già generato e imposto all'intero pianeta innumerevoli mezzi di comunicazione, di amplificazione, di interlacciamento di interessi, l’arte sembra aver perso ogni valore caro agli antichi, congelandosi sempre più nella funzione di soddisfare ogni singolo individuo della scala sociale, nel personale desiderio di espressione del sé.
Diventa quindi perfettamente naturale, in un tale mondo, che un individuo possa prediligere una forma d’arte su un’altra in base alla possibilità, anche se lontana, di parteciparvi o di esserne protagonista: dalla burletta popolare veneziana di un opportunistico "Nol xe beo quel che xe beo, ma xe beo quel che piase" (non è bello ciò che è bello, ma è bello quel che piace), o dai democratici "quindici minuti di notorietà per tutti" profetizzati da Andy Warhol, si arriva presto a un quasi universale "Io amo questo artista perché si esprime come me", il che purtroppo non è una burla, ma è l'inizio, o la fine, di un processo di scelte e selezioni che ha portato sulle nuove scene "teatrali" personalità in carne ed ossa come Mike Bongiorno, Silvio Berlusconi o George Bush...
La televisione infatti è l’esempio essenziale: ciò che originalmente è solo uno "strumento di comunicazione", diventa l’arte stessa, dal momento che colui che la guarda, in un mostruoso spostamento di valori e di capacità percettive, apprende che non gli è negato "l’ingresso (sebbene virtuale) in quell’oggetto", in quanto altri uguali a lui o a lui conformi sono da quell’oggetto contenuti e attraverso quell’oggetto si esprimono. Uno dei moderni profeti di questa nostra realtà culturale, Umberto Eco, ci ha avvertiti per tempo e con molte e ricche argomentazioni di questi inganni, ancora negli anni ’70, ma non credo fosse del tutto convinto dell’inesorabilità e delle proporzioni planetarie di quel processo culturale. Tuttavia era stato in grado di scrivere:
« [...] siamo ormai di fronte a programmi in cui informazione e finzione si intrecciano in modo indissolubile, e non è rilevante quanto il pubblico possa distinguere tra notizie "vere" e invenzioni fittizie. Anche ammesso che sia in grado di operare la distinzione, questa distinzione perde di valore rispetto alle strategie che questi programmi mettono in atto per sostenere l'autenticità dell'atto di enunciazione.
A questo scopo tali programmi mettono in scena l'atto stesso dell'enunciazione, attraverso simulacri dell'enunciazione, come quando si mostrano in campo le telecamere che riprendono quanto avviene. Una complessa strategia di finzioni si pone al servizio di un effetto di verità. [...] Ci si avvia, dunque, ad una situazione televisiva in cui il rapporto tra enunciato e fatti diventa sempre meno rilevante rispetto al rapporto tra verità dell'atto di enunciazione ed esperienza ricettiva dello spettatore.
Nei programmi d'intrattenimento (e nei fenomeni che essi producono e produrranno di rimbalzo sui programmi d'informazione "pura") conta sempre meno se la televisione dica il vero, quanto piuttosto il fatto che essa sia vera, che stia davvero parlando al pubblico e con la partecipazione (anch'essa rappresentata come simulacro) del pubblico.»
(U. Eco, TV: la trasparenza perduta, 1983, in Sette anni di desiderio, ed. Bompiani, 1983)
E’ proprio qui, allora, proprio a questo punto del percorso, che possiamo guardare con occhi diversi il fenomeno apparentemente innocente e silenzioso che si è insinuato nel nostro modo di vivere: l’identificazione del sé in un oggetto veicolato da un’arte.
Per non generare confusione con questa immagine, dobbiamo indaffararci fra lumi e "lanterne della ragione", soffiando su fiamme e fiammelle per oscurare un po' l'ambiente: la troppa luce non sempre è una condizione ottimale per guardare le cose (come prova l'attuale soprannumero di media dell'informazione e la conseguente stasi nella nostra coscienza della realtà...), sicché in questo caso è necessario spegnere per qualche istante l’abitudine ad intendere con la parola “arte” solo ciò che essa rappresenta comunemente –ossia un quadro, uno spettacolo, un brano musicale–, per estenderne il senso a tutte le opere d’ingegno destinate a un lusso biologico che l’uomo si diletta a concedersi, compresa la trasmissione televisiva e quindi, come prima ho invitato ad osservare, anche “l’opera che si compie da sé”, quasi ineffabilmente, dell’insospettato e nuovissimo fenomeno di interazione fra soggetto e oggetto, qual è quello in cui un uomo si dispone di fronte al televisore e il televisore invade il suo mondo percettivo.
In altre parole, se noi in atto di rispetto per la razionalità e la logica ci difendiamo dal pericolo di accogliere l'idea per cui lo strumento di un'arte (violino, pennello o televisore che sia) si confonde con l'arte stessa, non potremo cogliere la nuova sfumatura delle loro rispettive realtà, dietro alla quale ci viene nascosto –anzi, velato...– il fatto inquietante e destabilizzante per cui in un tempo ormai prossimo, in un assurdo capovolgimento paragonabile a un'arte prodotta dal dipinto e non più dal pittore, il televisore non sarà più il "mezzo" col quale si comunica qualcosa, ma in un paradosso estremo e catastrofico esso sarà il generatore stesso dei suoi comunicatori, e quindi l'autore delle sue comunicazioni, per il semplice ed ineliminabile avvenimento che come tale verrà percepito.
continua
immagini:
Leonardo da Vinci, disegno a sanguigna.
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Immagine documentante il degrado del cemento,
nell'opera del 1989 "Finestra sul mare" di Tano Festa.
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