Contrappunti
del Silenzio
«Per perdersi in Dio, i sufisti ripetono il loro nome o i novantanove nomi divini finché questi non vogliono più dire nulla. Io desidero percorrere tale via.»
(Jorge Luis Borges, Lo Zahir, in El Aleph, 1952,
trad. F. Tentori Montalto, ed. Feltrinelli, 1959.)
L’Istruzione dell’Arte.
Guardando i miei figli crescere, espandere con il loro anche il mio mondo, un giorno ho preso coscienza della necessità di istruire nuovi musicisti e non solo di essere un buon esecutore, o interprete, della tradizione per cui avevo ricevuto un'istruzione dai miei maestri. In quel giorno mi si è manifestato un pensiero che gradualmente è diventato l'idea dominante, a volte ossessiva, spesso portatrice d'inibizioni, d'insicurezza, di stanchezza, ma ineliminabile e onnipresente nel mio agire e osservare all'interno e all'esterno di qualsiasi opera d'arte; in una metafora architettonica, essa è la "chiave di volta" che stringe e sostiene tutto l'edificio della mia lezione di musica e di un'etica dell'invenzione artistica: l'errore di condurre l'identificazione del sé nelle cose rappresentate dalle arti.
Questo punto è quanto di più vicino al ribaltamento dell'assunto per cui Dio ci abbia creati ex-nihilo a sua immagine e somiglianza: nel ribaltamento, si assume che l'artista sia creatore della sua opera, ovvero che da uno stato di vuoto, di bisogno interiore spinto a gran forza nello spazio-mondo esteriore, la sua opera tragga forza “ex-pressiva” proprio dalla "somiglianza al suo creatore", ottenuta per ricalchi, risonanze, riflessi, specchiature e quant'altro; ovvero: con tutto, meno che con “PONTI DI CONNESSIONE” a luoghi che non siano l'immagine stessa dell'autore.
Potremmo tranquillamente dire che quasi tutta la musica romantica dopo Beethoven e l'acceso "titanismo" che ossessiona i compositori di quell'epoca, pecca di questo errore: avvicinarsi troppo alla "creazione" di un alter-ego in sé chiuso, o meglio confinato nei limiti della sua stessa figura. Questo alter-ego del "creatore" è indubbiamente più o meno capace di "sedurre e persuadere" a seconda della conformazione del mondo in cui viene introdotto: ad esempio, l'espressione di sentimenti eroici ed esaltati, alternati ad altri di nostalgia e tenerezza e infine posti in sequenze che rendano l'effetto di una ben dosata espansione di energie e di flussi emotivi, funzionerà alla perfezione in ambienti condizionati da una retorica demagogica, quando consacrata a esaltare il sentimento d'amore per il proprio senso della giustizia e quindi a odiare il nemico, dichiarato disumano e senza Dio, con la forza congiunta di corpo e anima... Questa scena —sebbene io l'abbia descritta con una certa dose di cinismo che spero mi venga perdonato– può essere né più né meno quella che nei primi del Novecento si svolgeva con indubbia soddisfazione delle alte sfere militari ed ecclesiastiche, durante gli ascolti pubblici delle Sinfonie per grande orchestra di qualsiasi compositore europeo tardo romantico. Insomma, a ben guardare ci si accorge che il Settecento mandava i soldati in battaglia al suon di precetti e prediche, tromba, tamburo e piffero, quando solo la società benestante sedeva nei teatri a godere dei fasti regali magnificati dalle arti e il popolo si limitava ad ammirarle in qualche festa, mentre all'Ottocento pare non bastassero più neppure le nuove marce militari e gli inni patriottici riccamente orchestrati, ma per esaltare le menti del popolo ci volesse l'aiuto di qualche più efficace e ridondante stimolatore di sentimenti, qual era la musica sinfonica che con una sessantina di orchestrali e uno spazio di buona acustica poteva raggiungere e soddisfare qualche migliaio di orecchie al colpo.
Ma non tutti i compositori di quell'epoca sembrano esser stati così facilmente disposti a usare le armi più potenti di una sapienza musicale molto antica, a fini così volgarmente propagandistici...
I musicisti italiani tardo romantici –Verdi, Puccini, Mascagni, Pizzetti, tanto per ricordarne alcuni, pur nel mio proseguire con sguardo ancor più cinico– hanno perlopiù optato per un sentimentalismo semplice, quasi "popolare", che mettesse in sordina ogni richiamo alle profondità oscure dell'introspezione, così formando un humus ideale al sopravvenire di quella "stupidità retorica" che avrebbe saputo accogliere nel più catastrofico dei modi il fascismo di Mussolini, l'opportunismo più immorale, l'ipocrisia più abbietta... In ultima analisi, un'ottima preparazione al mercato canzonettistico nazional-popolare di Sanremo, con buona pace di Palestrina, Corelli e Gioacchino Rossini, quest’ultimo trasformato ormai, da paladino qual era della tradizione musicale classica, a un ideale rappresentante di squisitezze “à l’ancienne”, messe in bacheche di cristallo per raffinate élites di privilegiati. In un’immagine: un Figaro che si gode, in barba alla sua “lanterna della Ragione” e a qualsiasi morale, le ignobili conquiste destinate ai piaceri privati di un arrogante nobilastro che tutto può ridurre al suo desiderio, grazie alla potenza del “nobil metallo” che egli solo può distribuire.
Va da sé, allora, che dopo guerre, disastri, e sofferenze e disillusioni di portata planetaria quali il mondo intero ha vissuto nella prima metà del XX secolo, dovessero per forza venirsene fuori le proteste fatte di suoni straziati e di esaltati inestetismi, a quasi cancellare tutto il passato, come fa chi sfregia il ritratto dell'amante che ha amato con troppa, esasperata passione per venirne poi tradito, e infine, come a terminare il già troppo lungo percorso di una musica colta e complessa che si era voluta "titanica", cioè immortale, una vox populi magnificata dagli stessi altoparlanti mass-mediali che avevano reso (e rendono) potenti i mostruosi dittatori colpevoli delle moderne catastrofi...
Ma l'intelligenza organizzativa dei mercati è ben più abile di simili reazioni rivoluzionarie: vox-populi, demagogie capovolte, nuove sensibilità liberate da ingannevole e ipocrita retorica, esse vengono senza difficoltà inglobate, digerite, adattate e riversate nel ciclo dei naturali mutamenti dell'ambiente sociale. Con buona pace, questa volta, non più soltanto delle lezioni "prospettive" di qualche generazione di saggi, bensì di tutta l'esperienza dialettica ereditata dalla saggezza antica.
E allora dov'è il vero errore dell'arte e della dialettica?
Esso potrebbe nascondersi nell’aver cessato di compiere l'atto di "trasferire" realtà e sogno nella finzione/rappresentazione teatrale (qui nel senso più aderente all’etimologia di teatro: luogo in cui si vede, con l’intento di vedere oltre l’ovvio), in maniera tale che le relazioni tra questi mondi si possano intrecciare sempre e invariabilmente con quei PONTI DI CONNESSIONE che, sollevati e sospesi sul piano orizzontale della comunicazione e comprensione dei fatti reali o storici, sono i luoghi privilegiati della visione trascendentale. Dove il mondo dell'arte si distanzia troppo da quello reale, infatti, si giunge a un'arte edonistica, che invariabilmente dimentica la sua funzione etica; dove invece all'arte si dà forma ed etica con l'impegno di aderire alle esigenze e agli stimoli del reale, prima o poi si riduce il suo messaggio a un linguaggio di sentimenti comuni, integrati alle esigenze della particolare società che di tale arte fruisce. Ma tutto ciò avviene, appunto, sul piano orizzontale dove l'arte e la realtà fluiscono nella vita, mentre l'atto creativo, l'invenzione trascendentale, l'intuizione che rende libero il pensiero, la visione dell'altrove, non possono avvenire che in luoghi più elevati, purché comunicanti con ciò che sta più in basso, sulla terra.
Entrando ancor più a fondo in questa metafora, un semplice movimento verticale, quale potremmo figurarci quello dell'armonia musicale espressa con accordi di note, contrapposta al movimento orizzontale delle melodie, o anche una visione mistica simile a quella di Giacobbe che sogna una scala tra la terra e il cielo, percorsa nelle due direzioni dagli angeli, non deve essere confuso con l'elevazione che è insita nell'attraversamento un ponte o nel soffermarsi sul culmine della sua arcata: un ponte non presuppone una scalata in verticale, bensì una alternanza di salita e discesa, nello spazio-tempo di uno spostamento, di una traduzione, fra luoghi altrimenti incomunicanti.
Tra gli scritti di un celebre musicista, Giuseppe Sinopoli, abituato come tutti i musicisti a muoversi tra scale, arpeggi e ponti armonici, possiamo trovare questa osservazione: «Il ponte [...] presenta sistematicamente la “scala doppia”: a ogni salita corrisponde una discesa.» e a seguito cita un celebre filosofo ed esoterista, René Guénon: «Si sale allora da un lato per pioli che sono “scienze”, cioè gradi di conoscenza corrispondenti alla realizzazione di altrettanti stati, e si ridiscende dall’altro lato per pioli che sono “virtù”, cioè i frutti di questi stessi gradi di conoscenza applicati ai loro rispettivi livelli.» (René Guénon, Simboli della scienza sacra, trad. it. Milano, 1987, pp. 123-124).
Quindi Sinopoli riprende:
«[...] La scala è un simbolo assiale; essa riconduce all’Asse dell’universo, cosicché salire una scala equivale simbolicamente all’ascensione dell’essere lungo l’Asse del mondo. I gradini o i pioli corrispondono ai diversi livelli, o stati dell’esistenza universale [...]
Ascendere una scala è così rinascere ogni volta a un più alto livello di conoscenza e a un più elevato stato ontologico. La scala è, come nel caso di Giacobbe, un ponte “verticale” innalzato dalla terra verso la sommità del cielo. [...]
Il ponte è anch’esso legato alla simbologia del passaggio. La forma originaria della simbologia del ponte può essere considerata una fune, una trave, oppure una lama sottile tesa tra le due rive che rappresentano due stati dell’essere... Dalla simbologia del ponte nasce la funzione del pontifex (da pons e facio), il Mediatore tra il mondo sensibile e il sovrasensibile, il sommo sacerdote che officiava il culto. Il passaggio figurato del ponte era il passaggio dalla morte alla vita, dalla terra al cielo. Questi mondi, separati dalla Manifestazione universale rappresentata dal fiume-canale, sono congiunti dal ponte. Il ponte equivale quindi simbolicamente all’Asse del mondo che congiunge la terra al cielo. [...]»
(Giuseppe Sinopoli, Parsifal a Venezia, Marsilio 1993; pp. 56-57, 61.)
Nel chiarore di queste riflessioni, io credo si possano intuire i significati più vivi del Comandamento biblico: "Non ti farai immagine alcuna", e infine avvicinarsi e accogliere il senso etico dell’affermazione per cui “l’arte non deve essere espressione del sé”, o ancora più in evidenza —poiché tale l'arte giunge ad essere per effetto delle strategie di mercato– "rappresentazione del sé", sia questa entità rappresentata l'immagine di un Pontefice, o di Dio, sia quella dell'uomo comune.
continua
immagini:
Scultura lignea di Dignitario seduto (particolari)
Cina, primo periodo Qing, fine XVII secolo, altezza 80 cm.
coll. René Clemencic, Vienna.
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