Contrappunti del Silenzio

 

 

«Si può conoscere nel modo più sicuro il vero volto di un'epoca, considerando i rapporti esistenti tra religione e realtà. In certi tempi gli uomini "credono" in una realtà indipendente, dotata di esistenza propria, con la quale hanno un rapporto effettivo e della quale, come ben sanno, possono farsi soltanto una rappresentazione assai inadeguata. In altre epoche, invece, al posto della realtà vi è una rappresentazione di essa, che si "ha" e che si può maneggiare conformemente; oppure rimane il residuo della rappresentazione, il concetto, che mostra soltanto le tracce sbiadite dell'antica immagine. Gli uomini, che sono ancora "religiosi" in tempi simili, per lo più non si rendono conto che il rapporto, creduto religioso, non è più tra loro, né è una realtà indipendente, bensì si stabilisce entro il loro stesso spirito, uno spirito che comprende immagini, "idee" divenute indipendenti. Allora compare anche, in modo più o meno evidente, una particolare specie umana che ritiene giusto questo stato di cose. Per costoro la religione non è mai stata altro che un processo interno dell'anima, le cui immagini vengono "proiettate" su un piano in sé fittizio, al quale l'anima attribuisce caratteri di realtà. Le epoche di cultura, essi dicono, si possono distinguere dal grado di intensità figurativa col quale avviene tale proiezione; ma infine l'uomo, giunto alla chiarezza del sapere, deve riconoscere che ogni presunto dialogo con la divinità non era altro che un monologo, cioè un colloquio tra i vari strati del proprio Sé. Allora, come ha dichiarato un rappresentante odierno di questa specie umana, bisogna annunciare che Dio è "morto". Ma con un tale annuncio in realtà nient'altro è detto se non che l'uomo è diventato incapace di afferrare una realtà per antonomasia indipendente da lui, e di rapportarsi ad essa [...] *** »

(Martin Buber, Religione e realtà,
in L'esilio di Dio, Mondadori, Oscar Saggi 1990, pag.25)

 

LIstruzione dei Maestri.

Ed eccomi nuovamente sullo stesso punto della strada, a chiedermi cos'è questo silenzio che mi attornia anche nello spazio più sovraffollato... a chiedermi cioè, senza pudore, senza nascondermi e senza neppure esser stato crocifisso da un popolo di fanatici: "Elai, Elai, lamma lamma sabachtani... Dio, perché cihai abbandonati?".
Sì, cara amica Antonella: sono certo che è questa la ragione che mi impedisce di scrivere qualcosa di "armonico e semplice", qualcosa, come tu mi chiedi, che "possano i bambini del futuro ascoltare, perché non partano svantaggiati dalla sordità dei genitori, perché la scissione dell'ascolto armonico non divenga una scissione col Trascendente".

Dunque ho ricordato oggi di come alcuni dei miei maestri indiani di musica, e in seguito i rabbini che hanno guidato la mia ricerca di Dio, si impegnavano a costruire dentro di me un edificio di culto, un "Tempio" che non contenesse simulacri o vanità, ma solo un vuoto, nel quale potesse entrare colui che mi veniva indicato col nome di Dio.
Svolgevo allora ogni giorno, in quelle stanze dello studio, il rituale dell'intonare la voce con le corde degli strumenti dell'arte, allo scopo di pronunziare i molteplici nomi di Dio in coerenti ed esatti rapporti armonici, enunciandone le varie identità e i diversi attributi nell'atto del disporre in giusto ordine le note dei Ragas. Continuavo poi modellando e rimodellando quei nomi a forme estetiche, rifinendole nei dettagli con passione devozionale, e infine collocavo quell'entità ormai viva e pulsante fra le mie mani, nell'intreccio labirintico delle variazioni all'interno di multipli di un ciclo ritmico-matematico, il Tala. Con queste azioni, mi si diceva, si ripercorrevano tutte le fasi della Creazione del mondo, e ne avremmo potuto correggere gli errori.

Abbandonai tutto ciò con un confuso sentimento di disamore; col tempo formulai svariate ragioni per giustificare quell'abbandono, compresa quella estrema, che mi convinceva d'aver edificato in quegli anni null'altro che simulacri di entità divine già estinte nell'istante stesso della loro resurrezione nella mia memoria.
Qualcosa cambiò radicalmente solo quando mi ritrovai —impreparato come qualsiasi uomo o donna sulla terra– a raccogliere con le mie mani e portarmi al petto il peso leggerissimo del mio primo figlio appena nato: mi accorsi che nel sollevarlo ritrovavo le stesse, esatte sensazioni del maneggiare un fragile strumento musicale, come un violino, un liuto, un sitar... e quell'oggetto vibrava in sé, e dentro di sé, e in tutto il mondo attorno, intrecciando risonanze che percepivo perdersi nell'infinito.
Fu allora che incontrai per la prima volta il mio rabbino, e fu lui, indicandomi un neonato e un libro, a dirmi che esistevano cose senza inizio e senza fine, sparse in un mondo ossessionato dal cercare il fine e l'inizio di tutte le cose.

clemencic

Mi concentrai su quella visione: ora le stanze dei Talas indiani, scolpite nella mia memoria dall'arte dei miei maestri più che dalla loro metodologia, già perfette strutture architettoniche capaci di contenere qualsiasi architettura, diventavano mondi, universi non più astratti, separati dalla mia percezione della realtà, bensì sospesi su di essa, in un mirabile e costante parallelismo. Il Tala nella cultura vedica, ora lo scoprivo, ha lo stesso aspetto del Talmud nella cultura ebraica: un luogo infinito nello spazio della percezione, dove possono abitare tutte le cose dell'universo, presso l'ineffabile Volontà del Creatore.
Di riflesso in riflesso, a quel punto osservavo che c'era stato un "uno", che ero io, diventato un "due" nell'unirmi a quella donna da cui era nato un altro "uno", nostro figlio; e così accadeva quando, imbracciato un sitar, intonavo le note del Raga immedesimandomi in esso, vestendomi del suo costume, rappresentandolo. Quell'inizio, nella lingua dei Vedas, si chiama Alap e si sviluppa in una dimensione puramente sonora e armonica, preparandosi così ad entrare nello spazio che deve condividere con il Tala, su di una sorta di scacchiera dalle innumerevoli divisioni matematiche del primo numero primo: il due, come due e solo due sono i giocatori contrapposti ai lati opposti di quell'universo: Dio e la sua immagine.

Nell'aula del mio rabbino, quel numero "uno" era la lettera Aleph, il cui disegno ricorda un uomo sospeso tra il cielo e la terra, (o il punto in cui s'intersecano due rette e due direzioni, così somigliando a un vortice), quel "due" la lettera Beth, che significa casa in lingua ebraica. Con quella seconda lettera, e non con la prima dell'alfabeto, ha inizio l'universo in sospeso della Torah, i primi cinque libri del canone biblico nella loro forma originaria ed essenziale: un'ininterrotta sequenza di lettere ebraiche e di spazi vuoti, senza punteggiatura, tesa in un unico fiato lungo un intero anno lunare a far ribaltare la Lamed, l'ultima delle lettere che la compongono, nuovamente nella prima Beth, così formando un anello a due: Lamed-Beth, che si legge lev, e significa cuore...
Seguivo dunque il battito dei cuori: quello di mio figlio –che era stato il suo primo manifestarsi, ascoltato attraverso le membrane tese del grembo materno, dall'oceano lontanissimo in cui nuotava— e quello del mondo, nel ciclo delle settimane e degli anni, scandito dall'intonazione della porzione di Torah che ogni Sabato si ripeteva nelle sinagoghe, nell'ordine lineare che in capo a 54 Sabati giungeva alla fine del testo e quindi all'inizio del nuovo anno.

Da un Alap a un Aleph, dal Tala al Talmud, tutto mi sembrava avere una meravigliosa assonanza e una logica perfetta. Guardavo il mondo attraversato dalle linee rette incrociate di un'infinita quadratura della sua immagine, che pure mi sembrava di saper leggere, di poter ammirare dalle altezze di un privilegiato belvedere. Sotto, in basso, mio figlio gìà muoveva i suoi primi passi e balbettava i suoi primi "perché?". Io gli ero accanto, e il "tempio" che stavo edificando in lui, a mia immagine e somiglianza, già cominciava a degradarsi.

continua

 

immagini:

Pietra Brahamanda-Lingam, l'Uovo Cosmico;
Benares, altezza 83 cm.
——
Scultura lignea di Dignitario seduto (particolari)
Cina, primo periodo Qing, fine XVII secolo, altezza 80 cm.


coll. René Clemencic, Vienna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Si può conoscere nel modo più sicuro il vero volto di un'epoca, considerando i rapporti esistenti tra religione e realtà. In certi tempi gli uomini "credono" in una realtà indipendente, dotata di esistenza propria, con la quale hanno un rapporto effettivo e della quale, come ben sanno, possono farsi soltanto una rappresentazione assai inadeguata. In altre epoche, invece, al posto della realtà vi è una rappresentazione di essa, che si "ha" e che si può maneggiare conformemente; oppure rimane il residuo della rappresentazione, il concetto, che mostra soltanto le tracce sbiadite dell'antica immagine. Gli uomini, che sono ancora "religiosi" in tempi simili, per lo più non si rendono conto che il rapporto, creduto religioso, non è più tra loro e una realtà indipendente, bensì si stabilisce entro il loro stesso spirito, uno spirito che comprende immagini, "idee" divenute indipendenti. Allora compare anche, in modo più o meno evidente, una particolare specie umana che ritiene giusto questo stato di cose. Per costoro la religione non è mai stata altro che un processo interno dell'anima, le cui immagini vengono "proiettate" su un piano in sé fittizio, al quale l'anima attribuisce caratteri di realtà. Le epoche di cultura, essi dicono, si possono distinguere dal grado di intensità figurativa col quale avviene tale proiezione; ma infine l'uomo, giunto alla chiarezza del sapere, deve riconoscere che ogni presunto dialogo con la dività non era altro che un monologo, cioè un colloquio tra i vari strati del proprio Sé. Allora, come ha dichiarato un rappresentante odierno di questa specie umana, bisogna annunciare che Dio è "morto". Ma con un tale annuncio in realtà nient'altro è detto se non che l'uomo è diventato incapace di afferrare una realtà per antonomasia indipendente da lui, e di rapportarsi ad essa — incapace pure di raffigurare e rappresentare questa realtà in immagini vive che la sostituiscano in luogo di una contemplazione che non può eguagliarla. Poiché le grandi immagini divine dell'umanità non nascono dalla fantasia, ma dal reale incontro con la reale potenza e magnificenza divine. Nella stessa misura in cui viene meno la facoltà di affrontare la realtà, da noi indipendente, ma accessibile alla nostra ricerca e alla nostra dedizione, viene meno anche la capacità umana di rappresentare in immagini il divino.» ***

(Martin Buber, Religione e realtà, in L'esilio di Dio,
Manesse Verlag, Zurigo, 1953,
Trad. Sergio Quinzio, Mondadori, Oscar Saggi 1990, pag.25)

 

 

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