Contrappunti del Silenzio
Allontanandoci, anzi "spostandoci" da un televisore (o da un blog volgare) che ci trasmette nozioni e sensazioni dalle quali potremmo aver imparato a proteggerci con una nuova intelligenza, al bel mezzo di una comunicazione condotta negli spazi di una razionalità intellettuale misurata e prudente, può capitarci di non ricordare affatto, o di non tener conto di come anche il ragionamento riflessivo sia "un’arte", una “tèkhne” intesa a muoversi nello spazio astratto del pensiero "spostando" gli oggetti e i soggetti senza sosta, per poter proteggere il loro significato da congelamenti che inevitabilmente condurrebbero all'annichilimento o all'alienazione. Com'era stato argutamente detto da Carmelo Bene: "Il significato è un sasso in bocca del significante", ma solo quando, appunto, il significato delle cose resta l'unico e univoco rapporto che noi intratteniamo con esse. E' a questo punto del discorso che ritorna insistentemente alla mia memoria un precetto talmudico col quale cerco di confrontarmi all'inizio di qualsiasi comunicazione: “Così come vi è l'obbligo di dire ciò che sarà compreso, allo stesso modo vi è obbligo di tacere ciò che non sarà inteso” (Talmud, Yevamot, 65b). Borges, nella sua novella intitolata "L'Aleph", nella quale ci "dice" il suo incontro con il mitologico punto dell'universo in cui tutto ciò che è esistito, che esiste e che esisterà, ed è stato presente, reale e contemporaneo davanti ai suoi occhi, scrive: «comincia qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l'infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?». Elie Wiesel, in un suo libro del 1970 il cui titolo "Entre deux soleils" ("Tra due soli", che nella versione italiana è diventato "Al sorgere delle stelle") fa riferimento alla notte, che fin dalla sua prima esperienza letteraria come sopravvissuto allo sterminio degli ebrei d'Europa era stata il simbolo della sua vocazione alla testimonianza, ci pone di fronte al problema centrale del "comunicare se stessi", come attori nel teatro del mondo e di fronte al sorgere terrificante di un immenso silenzio: egli descrive l'angoscia dei testimoni al processo di Norimberga, il processo in cui il nuovo mondo civile cercava di tradurre in parole e concetti l'orrore vissuto nella carne e nell'anima dai sopravvissuti all' "Olocausto", alla Shoah. Uomini e donne che erano stati denudati, straziati, "disanimati" dalle leggi di un governo la cui etica era deviata, impazzita; con quel dolore atroce su tutto il loro essere, quella ferita che avevano appena cominciato a nascondere nell'intimo, a celare dietro un terapeutico pudore; con quel recente sollievo che li faceva sperare in un ritorno possibile alla vita, alla "normalità" di un lavoro, una casa, una famiglia, quella gente doveva raccontare, descrivere ciò che era successo, perché la giustizia degli uomini potesse "fare il suo corso", perché "i popoli potessero capire".
Nella mia agitazione nel cercare una voce che possa comunicare attraverso questi silenzi, nei giorni in cui mi aggiravo fra gli appunti di ciò che sto scrivendo, ho avuto la tentazione di iniziare il mio scritto con queste parole, scritte all'uomo che tace, che non accoglie più alcun invito alla crisi, che si compiace del "già detto" come di qualcosa che ha già compiuto la sua funzione:
Bene, non ho usato quelle premesse, ma non ho potuto ignorarle o dimenticarle. Perché se il mio obiettivo non è una Captatio Benevolentiæ fine a se stessa, ma un'indagine nel profondo di un mistero che forse si nasconde in tutte le cose del mondo, e che forse possiede il dono di essere universalmente comprensibile, nel mio discorso deve almeno poter sopravvivere integralmente il movente che l'ha generato, affinché la strada che sarà percorsa non sia solo quella delle strategie del mio superbo inconscio, ferito nel suo orgoglio di musicista "classico", ovvero di "Umilissimo Servitore della Maestà dell'Arte Immortale", ormai fuori luogo e fuori tempo... A questo punto il problema è sostanzialmente ristretto a quello di una "retorica", inevitabilmente e perennemente presente in qualsiasi forma di comunicazione. Dunque, stringendo ancora di più il fuoco, il problema torna ad essere quello trattato dagli Antichi, sulla ricerca e formulazione di una retorica che "non insegna sul giusto e sull'ingiusto". Ma questa retorica deve tener conto di ciò che ci aveva ricordato Borges: «Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono». E dunque: nella società del futuro, quale "linguaggio", ovvero quale "retorica" potrà assumersi l'incarico di tradurre efficacemente tutti gli idiomi per rendere possibile un globale intreccio delle comunicazioni, se già i primi strumenti di comunicazione di massa conducevano con pieno successo all'annullamento della molteplicità di pensieri, e quelli attuali sono soltanto più efficaci nel giungere allo stesso risultato?
immagini: Giampietro Carlesso, Mater-Bi, 1999 —— Francisco Goya y Lucientes,
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