Lettere
di Claudio
Caro Claudio,
le sue parole mi hanno raggiunta a Bari, con la grazia che la contraddistingue,
e si sono mischiate al suono della risacca e l'aspro odore di salsedine.
Mi permetta di offrirle un "labirinto" del tutto particolare,
per la forma a spirale. A me sembra suoni una melodia tutta sua, vista
la mancanza degli angoli retti. A volte l'inaspettato implode ed elimina
il rumore con il quale siamo costretti a vivere. Credo che la sua sensibilità
di uomo e di artista le racconteranno un suono. E sarà cristallino.
Antonella
Non posso che ringraziare ancora.
I labirinti sono luoghi nei quali entrare significa uscire, e viceversa.
Sembra a tutti che debbano avere un centro, e invece non hanno neppure
un perimetro. Questa è la ragione per cui alcuni restano intrappolati,
altri vanno fieri di se stessi per esser riusciti a uscirne grazie all'intelligenza,
senza però accorgersi che non per volontà loro ne sono
stati rigettati, altri ancora li attraversano con levità solenne,
sostenuti dalle leggi d'armonia. Insomma, quelle stesse leggi che hanno
fatto volare le ali di Dedalo, risucchiandole in spirali verso l'alto.
Dove l'intelligenza ha prevalso, dei suoni acuti e cristallini si è
sfruttata la trasparenza, e il tessuto ampio dei suoni bassi si è
così palesato alla vista e alla volontà che ha potuto
dirigere il volo. Dove è prevalsa l'emozione e l'eccitamento,
o l'estasi e il distacco dalle cose terrene, il risucchio si è
capovolto in caduta verticale, scivolando fra le trame degli accordi
nei bassi, di vuoto in vuoto, fino alla dissoluzione violenta della
materia preziosa che pure era giunta tanto in alto.
Con affetto, con riconoscenza per chiunque si muova nel mondo con passo
leggero poggiato sulle trame di armonia, guardando cielo e terra insieme,
tenendo la mano di chi ancora non sa volare, rassicurandolo, dandogli
il tempo, sorreggendo il suo difetto senza correggerlo per forza al
proprio stato, modellando la vita per riflessi e dissonanze ben risolte...
in una parola: AMANDO.
Claudio.
Arvo Pärt
è uno dei grandi Maestri di Musica viventi. Con lui l'acqua,
il fuoco, la terra e l'aria, in infinite combinazioni. Il sospiro, il
gemito o il riso e il pianto, il grido o il piccolo rumore che fa sussultare,
o il sussulto, o il fruscio, o il vento o lo scroscio dell'acqua sono
sempre, ancora Musica. Perché Musica è il luogo in cui
tutto ciò si ascolta senza indifferenza. Il flauto dolce o la
dulciana non sono meglio di un sax o di un violino, e un flauto di canna
si può suonare anche un un crine e un po' di pece. Suona una
pietra sfregata a un'altra pietra, o un filo d'erba teso fra le labbra,
e non servono mille Sinfonie da grande orchestra senza chi le sa ascoltare.
Per ascoltare ci vuole una sola cosa: il tempo.
"L'arte
non può e non deve essere espressione del sé."
Balthus
Cara,
il nome di Dio in ebraico è il sigillo posto ai confini di un
universo altrimenti infinitamente espanso.
Nel paradosso meraviglioso del racconto di Luria, Dio pare quasi giocare
spensierato, sorridente, osservando che "nel nulla non c'era lo
spazio per creare un mondo", e quindi, per poterlo creare, "ritrasse
il nulla sui suoi lati, e nello spazio vuoto che si formò creò
il mondo". Questa scena e questo personaggio sembrano a loro volta
giocare con la frase lapidaria che è il passo 3.14 dell'Esodo:
"Io sono colui che sono", come pronunziata da qualcuno che,
seccato o stufo, la dice alzando le spalle con aria annoiata e poi se
ne va per i fatti suoi, lasciando un pigreco a fabbricare mondi o suonare
piacevoli melodie infinite a chi lo traduca in suono. E quei suoni si
intrecciano in infiniti contrappunti, muovendosi fra l'alto e il basso,
senza priorità direzionali. Ecco allora che noi, chiamando "Fughe"
le nostre imitazioni di quei contrappunti, le facciamo muovere fra tre
punti diversi ma connessi fra loro: la Tonica, la Dominante e la Sottodominante,
ovvero il primo, il quinto e il quarto grado dell'Ottava. Ne derivano
fabbricati armonici di difficile bellezza, dove ci rassicura l'idea
che essi "correggano l'errore del Demiurgo".
C'è una donna che si allontana nell'ombra; è un dettaglio
da un affresco romano che originalmente era al Palatino e ora si trova
da qualche parte, forse nei Musei Vaticani. Quando lo guardo io vedo
il ritratto dell'Anima umana, e penso che un'immagine simile sia nel
profondo della coscienza di ogni grande pittore. Quella donna sta uscendo
di scena, e la scena forse era quella della festa, chiassosa, spensierata.
Lei pare stanca --lo suggerisce la sua mano abbandonata sul fianco--,
come colta da un soffuso torpore. C'è una rilassatezza nei suoi
passi sospesi sul tempo, sui secoli che ci distanziano da quella percezione
retinica del pittore, che ci fa pensare all'attesa di un sonno sereno,
alla tranquilllità di una notte senza luna, a un buio senza spavento.
Essa cammina verso il mistero.
....è chiuso, ma "risonante": esso fa risuonare
la musica del mondo, come una sala di musica che fosse in grado di riprodurre
in suoni i movimenti visibili dal basso.La chiusura è insomma
"condizione dell'essere per il mondo". Forse è un significato
della figura che non mostra il volto. L'illimitato nel finito...
Nell'isola
di San Giorgio, davanti a Piazza San Marco, qui a Venezia, c'è
un convento benedettino. [...] io mi sono messo in testa di far intuire
al profondo della coscienza dei turisti che stancamente calcano le calli
veneziane, che i Benedettini hanno bisogno di uno spazio grande almeno
quanto serve a contenere un CHIOSTRO quadrato, perché percorrendolo
in preghiera essi reggono le sorti del conflitto fra la luce e le tenebre
nel mondo, ripercorrendo le figure della Creazione.
Insomma, io sto componendo le musiche per uno spettacolo che probabilmente
intitolerò "La Creazione infinita", concentrandomi
soprattutto sul tessuto dei contrappunti, secondo la Regola dell'Arte...
... l'idea di contrapporre i suoni ha una sua ragion d'essere ben
più profonda della sola convenienza d'attrazione di un pubblico...?...
Stai intessendo un nuovo linguaggio?...
No no: non c'è nulla di nuovo sotto il sole, come recita l'Ecclesiaste.
E neppure sotto la luna; l'Aleph Beth non può cambiare se non
per volontà di Dio.
Io penso, ahimè, alla sordità dei nostri contemporanei,
ai quali è inutile rivolgersi con suoni armonici, poiché
non sono più in grado di riconoscerli. Diverso è per il
ritmo, che è primitivo, o primordiale, se preferisci (ma cambia
poco la sostanza del concetto...), e quindi, anche se viene ascoltato
col "corpo" e per riferimenti culturali estremamente superficiali
(da cui deriva l'ascolto o il rifiuto all'ascolto), è certamente
più facile per il "performer" conquistarsi l'attenzione
del pubblico, per-formare un luogo condiviso di fruizione dei
messaggi di un'opera d'arte. Infatti ti ho scritto:
"...lavorando con cura una potente "presenza" degli strumenti
a percussione, in modo da compiacere i miei contemporanei fruitori di
musica, in modo da non finirmene incompreso o inascoltato, ma concentrandomi
soprattutto sul tessuto dei contrappunti, secondo la Regola dell'Arte..."
Per spiegarmi meglio, la necessità di compiacere "immediatamente"
il mio pubblico è tale ossia una "necessità"...
perché nei nuovi ordini del mondo si è ormai totalmente
sviluppata una perversa ignoranza della Musica (anche fra le persone
di ampia cultura), relegandola a una dimensione meramente emotiva o
espressiva di una memoria storica il più delle volte sterile,
perché non articolata nella contemporaneità e nei suoi
fenomeni complessi o semplici.
Insomma, tenendo conto che la musica è un lusso biologico, e
quindi la si fa se c'è chi ne fruisce e la compra, oggi la musica
o è elemento di coesione di un gruppo, oppure è espressione
del sé, e solo quella che risponde positivamente a tali parametri
sopravvive e si riproduce (con attaccato tutto il musicista, carne,
ossa e orecchie).
Per gli Antichi, la Musica era invece indagine nell'ineffabile e sussurro
dell'Assoluto.
Se ascolti con attenzione la musica di successo dei nostri giorni, ti
accorgerai che tutto è ridotto a un mero "linguaggio del
corpo", che si esprime nel "tocco del pianista" oppure
nel "timbro inimitabile della voce del cantante", non importa
se "classico" o "commerciale". La riconoscibilità
di questi linguaggi espressivi è di gran lunga maggiore di quella
che può avere la complessità del puro pensiero musicale,
e l'omologazione dei generi e dei "moduli espressivi" avviene
inavvertitamente, proprio sotto il velo di quell'azione che si continua
a chiamare "interpretazione", benché sia ridotta a
essere nulla più di una mera "appropriazione" di qualcosa
che abbiamo ereditato dal passato in modo parassitario. Siamo una società
cannibale, di uomini-parassiti del pianeta, senza più memoria
e resa miope proprio da questa mancanza.
L'arte degli antichi era attenta a dare il giusto equilibrio all'espressione
del sentimento, fra ciò che era frutto dell'individualità
e ciò che era (o si credeva) universale. Per questo la lezione
dell'arte era tanto severa nel giudicare la tecnica d'esecuzione che
favoriva la velocità della mano anziché quella dello "Spirito".
Ingres, quando già anziano dirigeva l'Accademia di Belle Arti
a Roma, insegnava così: «Il cosiddetto tocco
è un abuso dellesecuzione. È la qualità dei
falsi talenti, dei falsi artisti che si allontanano dallimitazione
della natura», e i suoi contemporanei lo deridevano e, sprezzanti,
lo cacciavano nel dimenticatoio chiamandolo vecchio trombone retorico.
Così il seguito è stata la vittoria beffarda di un'arte
falsa e ingannevole che ci ha portati al trionfo delle vanità,
con prodotti d'arte già morti, già vecchi e decrepiti
sin dalla nascita, e assolutamente incondivisibili col resto del mondo
ancora tragicamente sofferente la povertà e la desolazione.
Io ho visitato Chandigar e le opere di Le Courboisier, e ho indelebile
in me il ricordo della rabbia violenta che sviluppavano le sue incomprese
teorie materializzate e imposte alla gente dell'India, degenerando in
odio profondo per l'arroganza dell'Occidente... io ho vissuto cinque
anni a Calcutta, chiedendomi ogni giorno se, vestito non in frac o in
eleganti abiti inglesi, ma nei semplici abiti di Gandhi, avrei potuto
suonare Bach e Beethoven per quel mondo... io ho guardato fissa negli
occhi la rabbia ignorante e cruda dell'indigente della terra, che desiderava
la morte della mia intelligenza... offriremo Andy Warhol allo sguardo
dei pigmei o degli aborigeni, offrendogli l'opportunità di possedere
un conto in banca e una pensione da vecchi? o delle cartoline con la
riproduzione delle tre Grazie di Botticelli? o una vacanza premio agli
Uffizi?
Gentile Antonella, il pasticcio è fatto, e a noi non resta altro
che "improvvisare" nel modo più attento a seguire gli
impulsi d'Amore. Ma cercando almeno di riconoscere "l'amore giusto"...
Come mi era capitato di scrivere un giorno: "Per far sopravvivere
un'intelligenza sana nel mondo attuale, non si può ricorrere
ad altro che a un'agilità mentale simile a quella della scimmia
sugli alberi, quando fugge dal suo predatore."
Per questo, usando l'arte antica della Retorica né più
né meno come un agente pubblicitario o un uomo politico in tivù,
anch'io cerco un "Argumentum ad homine" adatto a non
soccombere, cercando di non ridurmi a introdurre il "rock"
musica cannibale, che fagocita indistintamente qualsiasi arte
per favorire la sua potente capacità di fare adepti, omologandoli,
alienandoli... nelle mie composizioni, al fine di non morire povero
e senza speranza di venir ricordato da improbabili posteri...
Mi ossessiona
il problema degli spazi chiusi della comunicazione, dove il linguaggio
--col suo ritmo, con le sue risonanze armoniche-- erige le mura della
divisione
( http://users.iol.it/claudioronco/genova2.html
).
Stanotte alle tre e venti, dopo aver riletto l'email che ti ho inviato,
ho riletto anche tutte le tua altre lettere, ritrovandomi a meditare
confusamente sulle "sovrapposizioni" dei linguaggi, quando
essi non vengono "regolati", o "diretti" da una
precisa e dichiarata struttura retorica. E questo perché oggi
è diventato impossibile pretendere che un tale ordinamento del
discorso avvenga "realmente", in quanto la nostra mente si
è configurata a più o meno stabili moduli culturali, ma
ha nel contempo sviluppato una sorta di "anarchia" direzionale,
forse proprio a difesa della sua incolumità, minacciata dalle
implosioni, dai collassi dei sistemi chiusi e finiti. Per questo, rileggendo
una terza volta quel che ti avevo scritto nell'ultima lettera, mi sono
accorto di aver usato tante parole per comunicartene con convinzione
soltanto poche, ossia queste:
"Per far sopravvivere un'intelligenza sana nel mondo attuale,
non si può ricorrere ad altro che a un'agilità mentale
simile a quella della scimmia sugli alberi, quando fugge dal suo predatore."
Queste, e poche altre...
Così mi è tornata in mente la "poesia" di Zbignev
Herbert su Baruch Spinoza, l'ebreo convertito a Cristo...
e il suo incontro con quel dio ambiguo, che scenderà le scale
verso il buio. Era forse il demonio? O proprio quell'oscurità
è il "luogo" prediletto del Dio in terra?
Un Dio che si aggira in preda a disperazione nel caos da lui generato,
fra i "cocci" dei vasi distrutti dalla deflagrazione primordiale...
Su questo vortica la mia mente questa mattina, guardando i pentagrammi
su cui ho scritto i primi temi che compongono i lati del CHIOSTRO dell'opera
musicale cui ti ho invitata.
Alla poesia di Herbert avevo unito l'immagine che ti allego: l'alchimista
di Rembrandt.
Rispondo ancpora a una tua domanda: telefonami pure quando ti pare;
se ho bisogno di privacy o di silenzio (almeno del telefono) spengo
il cellulare, e --almeno credo-- ho annullato la segreteria telefonica
per non dover richiamare io chi non mi ha trovato.
Scusa l'invasione di parole.
Shalom, Claudio.
Ti ho letta mentre l'elica rotante fra buio e luce dell'Alchimista di
Rembrandt si sovrapponeva a quella del mio ventilatore instancabilmente
acceso giorno e notte a soffiarmi frescure artificiali sul volto, e
ho scoperto con gioia di averti inutilmente precisato qual era il "centro"
del mio messaggio.
Sono le 12.40 e comincia l'ora "del silenzio" nel mio palazzo,
che fino alle 15 risuonerà solo delle voci e suoni della televisione.
Il mio violoncello è appoggiato alla sedia da studio, l'arco
sul leggio, le corde sono tese e intonate, il suono è sospeso.
Domani sera, dopo la fine di Shabbat, partirò per Vienna col
frac in valigia, ma non porterò con me il computer, liberandomene
fino al 18 luglio. Oggi ti voglio scrivere ancora.
Il perno dell'elica formata dalla scala, nel quadro di Rembrandt, dovrebbe
essere uno specchio circolare convesso, tipico dell'arredo fiammingo
di quell'epoca. Eppure quello specchio appare concavo (poco importa
se in effetti voleva essere un piatto in metallo e non uno specchio,
poiché ambedue riflettono o "contengono" qualcosa...)
e non riflette nulla, trattenendo il tutto quasi nella sola pennellata
d'ombra che deve servire a rappresentarne la concavità. Nel guardare
meglio, ci si accorge che uno specchio indubbiamente convesso è
presente, sebbene visto di lato, nella forma della figura di un paiolo
appeso alla scala, appena sopra il centro geometrico del quadro, un
poco spostato a destra per indicare il movimento ideale della rotazione
dell'elica, insieme alla linea di luce sopra la finestra. Anch'esso,
però, è opaco e non riflette alcuna immagine. A "far
ruotare l'immagine", in effetti, è funzionale la "piattezza"
dell'esecuzione della scala, poiché se avesse più tridimensionalità
o semplice profondità di campo imporrebbe l'effetto di un movimento
esclusivamente dall'alto verso il basso o viceversa, e limitato al ruotare
della spirale. Distribuendo invece con cura i toni di colore, Rembrandt
riesce a far ruotare l'immagine di ben più di un'elica, e in
tutte le direzioni, così creando lo straordinario effetto di
un globo prodotto da una complessità di movimenti indipendenti,
spinti dalle rispettive attrazioni dei livelli di luce e ombra. In una
certa misura, ciò che vediamo nel quadro "è"
l'immagine riflessa da uno specchio convesso...
La figura del corpo dell'uomo e quella della porta, infine, si equivalgono
per altezza e forma, e pare restino l'unica parte immobile del quadro,
in emblematica attesa.
Ora, questo quadro ha alcune importanti relazioni con la "donna
che si allontana nell'ombra" dell'affresco del Palatino (....lapsus
interessante: avevo scritto "Plotino"...). La prima è
all'apparenza banale: dipingere una nuca anziché la complessità
di un volto (di fronte o anche solo di profilo) è innanzitutto
una scelta di "economia"; è più facile e sbrigativo.
Altrettanto si può dire del dipingere uno specchio opaco (concavo
o convesso) anziché lucido e riflettente. Potremmo immaginare
il committente un po' seccato che protesta col pittore, il quale gli
risponde "Signore, con quello che mi ha pagato è già
tanto che io le abbia dipinto i contorni dell'oggetto...". Questa
osservazione ci costringe a chiederci: "quale è stato il
movente di una tale scelta?" e darci una risposta ancora una volta
all'apparenza banale, scegliendo fra l'attribuire le "ragioni"
alla convenienza pratica o alla scelta concettuale. Le implicazioni
della NOSTRA scelta, espressa nella risposta a un tale (inutile?...)
quesito, sono però fondamentali rispetto alla configurazione
di quelle strutture di base di una cultura che favoriscono l'intelligenza
pragmatica oppure quella emotiva. E tutto ciò condiziona la sopravvivenza
di un'arte rispetto a un'altra.
In secondo luogo, "l'opacità" è presente sia
nel dipingere uno specchio che non riflette, che nel dipingere una nuca
coperta da capelli nell'ombra. E "opaco" è ciò
che "non ha luce". Se dunque nel quadro di Rembrandt tutto
parrebbe destinato a mostrarci come la luce sia il "motore"
di un moto presumibilmente perpetuo (poco importa se vorticoso o circolare),
perché il suo centro, il suo "perno" è opaco?
Così è pure nella donna dell'affresco, la cui nuca contiene
(trattiene?) l'energia del movimento, poiché racchiude e rappresenta
lo "sguardo" di cui lo spettatore si appropria, più
o meno inconsciamente. E quella nuca è il punto più "scuro"
del dipinto.
In terzo luogo la "direzione" del moto di queste immagini,
che in ambedue è "diretto" verso l'infinito, per effetto
di "artifizi" diversi ma protesi allo stesso risultato: il
vortice che si libera dai confini statici della materia, oppure l'assottigliamento
della materia di fronte al soggetto dipinto in modo da rappresentarlo
in moto verso questa, così da generare l'inquietante sensazione
di "spostamento" della materia verso il luogo dell'assenza
di tempo, spazio e direzione.
I significati attribuiti o attribuibili alle immagini di specchi convessi
riflettenti il mondo sono ben noti a chi abbia studiato l'arte fiamminga
dal Quattrocento a Escher, e così pure i valori del "linguaggio
delle assenze" nell'arte in generale, sono argomento frequentato
anche in eccesso nell'ultimo secolo. Ma il troppo parlarne ci porta
a credere di averne svelato il mistero, costringendoci per conseguenza
a pensare necessaria una condizione di "innocenza dello sguardo"
per poterne godere ancora. Torno quindi alla "banalità"
della prima osservazione, per considerare ancora da un altro punto di
vista l'urgenza di restituire all'Arte una dialettica elastica e positiva
fra convenienza pratica e impulso spirituale, pena il disastroso sopravvenire
di una vittoria definitiva della stupidità.
... trovati un posto isolato , illuminato dalle stelle e componi
qualcosa di armonico e semplice, legato al mistero della creazione,
del ritrovarsi. Componi un'armonia che possano i bambini del futuro
ascoltare...perchè non partano svantaggiati dalla sordità
dei genitori, perchè la scissione dell'ascolto armonico non diventi
una scissione col Trascendente...
Non c'è bisogno di "creare" nulla. Tutto è già
esistente, e basta copiarlo diligentemente. Ciò che dobbiamo
fare, invece, è apprendere il modo giusto per "articolare"
quel che abbiamo copiato nell'attività del mondo. Questa è
la vera arte della composizione musicale, così come l'hanno tramandata
gli Antichi. E questo è il motivo per cui io, in quelle notti,
in quei "giorni dell'erranza", curerò la mia memoria
della precarietà della vita terrena. I nostri bambini dovremo
curali sempre e solo noi genitori, senza mai delegare a nessun altro
quel sacro compito. Dunque non potrà bastarci l'atto di "offrirgli"
qualcosa di "bello", ma dovremo dar loro gli strumenti e il
metodo per fruirne. E lo faremo intrecciando le nostre buone azioni,
come le dita delle Grazie.
Ho spedito la posta e l'ho ricevuta di seguito.
La doppia scala a spirale del dipinto che mi hai inviato corrisponde
in effetti alla descrizione che mi hai dato della mia persona. L'intersecarsi
dei movimenti ascendenti e discendenti (senza altro ordine che non sia
la scelta di chi affronta la salita o la discesa), pare indifferente
a quel piano di arrivo o di partenza che si riempie di un centro palese
e luminoso, dove la sfera trasparente sostenuta dal tondo bianco di
base, dalla colonna cilindrica e dal piedistallo scuro apparentemente
quadrato (ma l'occhio vede un triangolo...) sembra messa lì solo
per rassicurare l'animo che chi, altrimenti, sentirebbe come una minaccia
quella piattaforma vuota. Questo tipo di vani, è noto, suggerisce
il suicidio. Nel museo Guggenheim di New York, dove l'architettura è
simile, trattengono il pubblico a distanza dal limite della spirale,
nei piani alti. La doppia spirale causa una specie di "loop"
mentale, un inquietante corto-circuito emotivo. Una situazione simile
è presente anche in una delle piramidi più antiche in
Egitto, che infatti è chiusa al pubblico. Non ne ricordo il nome,
ma nel suo interno è cava, e una serie di piani si susseguono
connessi da scale fino alla punta del vuoto piramidale interno. La visione
verso il basso dagli ultimi piani è così sconvolgente
che si erano verificati nell'Ottocento diversi suicidi, fino alla decisione
di impedirne l'accesso ad altri che non fossero studiosi autorizzati
dalle autorità locali. Se decido di immaginare le figure dell'alchimista
e della porta alle sue spalle di Rembrandt in questo ambiente, ho il
desiderio di ribaltare i piani, e immaginare che essi si trovino sul
soffitto, capovolti.
Un ciclo ritmico indiano, un "Tala", di particolare bellezza,
conta undici battiti divisi in questo modo: 2+2+2+2+1 e mezzo+ 1 e mezzo.
Il "Bol", la sequenza sillabica per portarlo a memoria nella
sua struttura fondamentale e archetipica, secondo il modello classico
della scuola "dhrupad", ovvero "immutabile", è
il seguente:
(1)dhat - tarikit tat - (3)dhin - na - (5)thun - na - (7)khat - ta -
(9)dhin>>>na - (9 e mezzo)dhin>>>na (11)
Questo Tala rappresenta l'amore delle ragazze per la bellezza fisica
del dio Krishna, quando suona il Bansur, il flauto traverso a sei buchi,
presso il lago dove esse fanno il bagno nude, lasciati i vestiti appesi
alle fronde degli alberi, proprio là dove il dio si reca a suonare
per loro. La prima sequenza di otto divisi in quattro coppie, rappresenta
le cose terrene, e il secondo gruppo di tre diviso in due parti quelle
ultraterrene.
Quell'irregolarità, quel battito insieme accelerato e rallentato
(un due dentro allo spazio-tempo del tre, che fa intuire un tre cui
dovrà seguire il quattro, mancando il quale si genera il senso
dell'accelerazione, immediatamente successivo a quello del rallentamento)
rappresenta lo spirito sottile del desiderio e dell'energia "rivoluzionaria"
che ne deriva.
In effetti, il tutto dura molto poco: undici battiti, infatti, difficilmente
superano il tempo cronologico di 11 secondi. Il ciclo, ripetendosi senza
sosta, rimbalza sull'uno nell'istante in cui lo raggiunge come se fosse
un 12. E di dodici è il ciclo della Natura e delle cose terrene
in movimento, riflesse nell'universo delle costellazioni.
Il Tala che ti ho descritto si chiama "Tala Sawari", ed è
la struttura ritmica principale che ho scelto per le Fughe destinate
allo spettacolo "La Creazione infinita", per i Benedettini
e il loro chiostro, unita al "Teen Tal", che è il ciclo
di 16 diviso in quattro sequenze di quattro, la terza delle quali rappresenta
un "vuoto".
La forza di qualsiasi racconto non può essere altro che nel mito.
E scriverli, i racconti, richiede quindi un atto "rituale".
Il dipinto di Turner che ti ho inviato stanotte lo conferma: alla pittura
romantica, sensibile, impressionistica, si unisce il mito: il VORTICE,
lo stesso del quadro dell'Alchimista di Rembrandt, e di tanti altri
classici antichi o moderni.
A ben guardare, qualsiasi vortice dipinto contiene ocomincia da un segno
grafico semplice, che è una X dalle linee "mosse",
come il disegno dell'Aleph. E se questo segno è per i latini
il numero 10, lo è in effetti anche per l'ebraismo, come insegna
la Qabbalah, equiparando l'uno al dieci e a tutto ciò che in
matematica moltiplica o divide l'uno con lo zero (ad es. -1, -0,1, -0,01
ecc., tenendo conto che i numeri si possono contare nelle due direzioni).
Dunque anche Turner inscrive la sua visione romantica nel segno "rituale"
di una tradizione che è "seconda natura" dell'espressione
universalmente condivisibile. D'altronde, nulla meglio di una divisione
a X della tela ci permette di leggere un dipinto con facilità,
penetrandone lo spazio illusorio e vivendolo con i nostri sensi. Tutta
la pittura, sia quella che usa la prospettiva, sia quella che non la
conosce, si avvale infatti delle linee trasversali del campo visivo
per "omogeneizzare" il tutto, così da poter sviluppare
ritmi anche assai complessi al suo interno, ma "visitabili"
e percettibili poiché "ordinati" e trattenuti da un
campo totale "simpatico". Lo stesso procedimento si usa nella
composizione musicale, là dove essa sia "colta", tanto
nell'Europa di Corelli e Bach quanto nell'India del Raga e del Tala,
e in tutte le grandi culture antiche.
Dunque cos'è il ritmo? (di una composizione musicale, o pittorica,
o letteraria)
Io credo sia innanzitutto il "TEMP--I--O", costruito idealmente
dall'esecutore e dal fruitore insieme, dove insieme essi si recano e
si ritrovano. E il Tempio, sempre e invariabilmente, è un microcosmo.
Diverso quindi da un "TEATRO", dove si riflette la nostra
figura, "spostata" a un'altra realtà possibile. Il
teatro, quindi, è il luogo del racconto, della narrazione catartica,
della liberazione dai lacci e dai lucchetti del "destino".
Infatti questo è il luogo della "VISIONE", laddove
il Tempio è il luogo della trascendenza, o dell'intuizione dell'invisibile.
Ma cos'è dunque un CHIOSTRO?
Ecco, io credo sia tempio e teatro insieme.
Esiste a Genova, nella chiesa medioevale di San Agostino, un CHIOSTRO
TRIANGOLARE, di straordinario fascino, realizzato con regolare alternanza
di pietra scura e pietra chiara, a comporre il battito regolare di un
ritmo binario, inscritto nel percorso ternario dei suoi lati. Percorrendolo,
la sua forza si percepisce quando l'assenza del quarto lato è
raggiunta, facendoci collassare nel ritorno al principio. L'esperienza
del percorrerlo è sconcertante, sebbene uno degli angoli sia
acuto, creando così un senso di direzione; ma certo proprio in
ragione di quella, l'esperienza emotiva diventa "drammatica",
intendendone il senso greco, di Drama, "AZIONE".
Qua a seguito qualche elemento in più di meditazione:
«"Dieci e non nove". Sebbene la sapienza sia
con tutte (le sephirot), non chiederti: Come posso dire che la
sapienza (Hochmah) è una sefirah? "Dieci
e non undici". Non chiederti: Dal momento che la sapienza rappresenta
l'inizio del pensiero del discorso, come potrò non contarne undici?
Non devi infatti separare la sapienza dalla corona (Keter, la
prima sefirah), che è il pensiero dell'inizio del discorso, sebbene
tu non possa afferrare il pensiero di Colui che conta e che unisce.
(...) Poiché non vi è fine alla causa del pensiero dell'inizio
del discorso, come potrò fare del pensiero una sefirah?
Non dire dunque che esse sono undici né nove. Sebbene il discorso
sia nell'infinito, vi è nondimeno una causa sottile, o un essere
sottile che il pensiero afferra nella contemplazione di ciò che
vi allude. Questa causa rappresenta pertanto una sefirah del
pensiero, che è un essere sottile in cui ve ne sono dieci. Le
cose hanno dimensioni e misura, ma il pensiero non ha misura; per questo
vanno di dieci in dieci: dalle sottili derivano quelle che sono state
tracciate, giacché dieci derivano da dieci, le sottili da quelle
poste nell'intima sottigliezza. Dalla forza di allusione del pensiero
riconosciamo ciò che possiamo comprendere e quanto siamo costretti
a tralasciare, giacché da quel punto in poi non è possibile
capire il pensiero allusivo. La cosa creata non ha infatti la forza
di afferrare l'intima allusione del pensiero alla comprensione dell'En
sof (l'ineffabile, l'infinito) giacché ogni contemplazione
nella sapienza, a partire dalla comprensione intellettuale, è
sottigliezza, allusione del suo pensiero nell'En sof. Per questo
afferma: dieci e non nove, giacché il pensiero non concepisce
di dare misura a ciò che è al di sopra della sapienza,
se non attraverso la contemplazione, come è detto: devi intuire
con sapienza. Intuire è un verbo all'infinito; in
quanto imperativo, devi intuire è rivolto alle sole persone
in grado di comprendere. (...)»
Yitzhaq ben Avraham il Cieco, Perush Sefer Yetzirah, "commento
al libro della formazione", Francia meridionale, fra il XII e il
XIII sec. Traduzione di Giulio Busi, in Mistica Ebraica, ed.
Einaudi, 1995.
"......l'albero sefirotico è l'Adamo
primordiale, e quello, quindi (o ciò che ne rimaneva) è
ovvio credere che fosse l'albero proibito nel giardino di Eden.
Né esiste differenza vera fra la conoscenza del bene e del male
e la vita stessa, come si può ben capire guardando l'animale
che non mangia del cibo che sa essere velenoso per lui.
Così, di alberi con le radici nella terra ce n'è tanti
quanti ce ne sono con le radici nel cielo, e si chiamano "anime".
Se la tua immaginazione ricorre all'albero in metafora, le troverà
sia all'interno di un violino o di un violoncello (l'anima, negli strumenti
ad arco europei, è quella colonnina non incollata, che all'interno
della cassa armonica trasmette la vibrazione della corda, attraverso
il ponticello e la tavola armonica, al fondo della cassa, traducendone
il movimento da ondulatorio a sussultorio, ovvero da orizzontale a verticale),
sia dentro a un bosco............"
Claudio
«Il Santo, sia Egli benedetto, sposa le coppie».
Sappi che colui che conosce il segreto del grado superiore e dell'emanazione
delle Sephirot, secondo il segreto dell'espandente e del ricevente,
secondo il segreto della terra e del cielo e del cielo e della terra,
conoscerà il segreto del legame di tutte le Sephirot e il segreto
di tutte le creazioni dell'universo: come le une ricevono le altre e
come si nutrono le une con le altre.
Tutte ricevono potenza emanativa, alimentazione, sussistenza e vitalità
da parte del Nome, sia egli benedetto.
Colui che conosce questa via conoscerà quanto è grande
la potenza dell'uomo: sia dove egli compie i 613 comandamenti, riparando
così i canali, tutto espandendo e ricevendo, sia dove egli danneggia
i canali e interrompe gli influssi. (...)
R. Joseph ben Abraham Gikatilla, Medinaceli, Castiglia, 1248 - 1325
ca.; inizio de: "Il segreto del matrimonio di Davide e Betsabea".
|