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Roland Barthes scriveva: «Il musicista è sempre folle,» -intendendo per "follia" una qualità inafferrabile, o, per così dire, "inarrestabile o indomabile" dell'esperienza musicale- «al contrario dello scrittore, che non può mai esserlo, perché è condannato al senso.» (R. Barthes, Rasch, 1975, in aa.vv., Langue, discours, société. Pour É. Benveniste, Seuil, Paris).
Ma quello che Barthes sapeva bene è che quella condanna al senso si aggira, si inganna, si cavalca come un cavallo alato, sfuggendola mentre la si usa. Né più né meno di quel che fa il poeta con la parola e col senso della parola: è esattamente questo, in musica, che rende l'interprete accorto. Ma nella "scelta" della parola, poeta e compositore hanno la stessa responsabilità, ed è una responsabilità immensa: quella parola è "creata" alla vita, quindi si immette nel mondo un essere vivente che può essere positivo o negativo, che può dirigere il mondo a una trasformazione, così come a una distruzione. Quel "scegliere" la parola è piuttosto un "eleggere" una parola.

C.R.

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