Il
matrimonio, qui, è metafora antichissima di una ricerca di armonia
e perfezione universale. Il testo poetico ebraico del Lecha dodì
(Vieni, o caro, incontro alla sposa, canto per
linizio del Sabato, scritto dal cabalista Shelomo ha-Levì
Al-Qabez, vissuto a Safed nel XVI sec.) si dipana lungo tutto lo spettacolo,
cantato nello stile Dhrupad (lo stile classico e sacro
del nord India) dalla voce di Amelia Cuni, accompagnata da un'orchestra
d'archi, sulla partitura di Claudio Ronco, che intreccia i modi musicali
classici hindostani (Raga e Tala) allarmonia e al
contrappunto della tradizione classica europea.
Nella Pièce il gruppo di ballerini e la scena diventano corpi che si vestono per lo sposalizio. Il corpo di ballo, intrecciando emozioni e passioni, compie l'atto di tessere l'abito bianco della sposa, e ne veste la scena; la scena, a sua volta, accoglie il balletto come amante, lo avvolge, lo riveste dell'algido abito matrimoniale.
L'abito si manifesta e concretizza negli elementi fabbricati dai ballerini, scomposti e ricomposti a vestire la scena, e ritorna come scena che si scompone vestendo così i ballerini. È fatto di veli trasparenti e ricchissimi di merletti e frange, trafori e ricami; la luce vi si riflette o li attraversa riversandosi poi addolcita sulla scena.
Quel multiforme abito, tuttavia, è fatto solamente di fragilissima carta velina, pieghettata e ritagliata in armoniosi disegni traforati, ritorta in sottilissime frange, intrecciata in merletti preziosi: quell'abito si straccia, a volte, ed altre si apre e amplifica inaspettatamente. Esso copre, carezza, protegge, nasconde con immacolata pudicizia la paura, la abolisce e annulla. Ciò che appare tessuto, cucito e vestito sulla scena è l'abito di Amore.
Claudio
Ronco,
Venezia 8 giugno 2001
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