La visione.

 

 

 

...Ma quel violoncello l'avevo lasciato chiuso nella sua custodia, dopo due notti in quell'albergo ginevrino, dormendo al suo fianco, guardando quella cassa coricandomi e alzandomi, senza capire perché mai rimandavo sempre al domani il semplice atto di far scattare tre serrature, aprire quella cassa e guardarlo di nuovo, e magari provarne il suono...
Il mattino del terzo giorno telefonai al numero che era ancora scritto sul tovagliolo e conservato fra i miei documenti nel portafogli. Nessuno rispondeva, e io avevo un posto prenotato sul treno del primo pomeriggio. Riprovai la sera, arrivato a Torino, inutilmente: Ahasvero doveva aver lasciato Ginevra per qualche giorno; rimandai la telefonata ai giorni successivi.
Quella notte, però, misi in ordine la casa, disfeci con cura le valigie e disposi tutte le cose che erano state a Ginevra sul mio letto, come per cercarvi qualcosa di perduto o di introvabile; poi preparai l'unica poltrona che possedevo con una soffice coperta di lana color carminio, il tavolino rotondo a treppiede sul fianco, col portacenere, la pipa carica, i fiammiferi e un bicchiere di vino rosso, piazzando il tutto di fronte al mio letto.
Portai poi quella pesante cassa nera accanto alla poltrona; la aprii, rimasi un poco ad osservare l'inusuale rivestimento interno di seta viola, dall'aspetto più prezioso che funereo, e infine presi fra le mani il violoncello; lo soppesai nuovamente, lo carezzai, lo distesi sul materasso, ne ammirai le fascie, le scrutai inginocchiandomi e girandoci intorno, e finalmente lo appoggiai al muro: per guardarlo ritto in piedi, come la statua d'un eroe, d'una solenne divinità dell'amore, della bellezza, della gloria risonante attraverso i secoli e i millenni.
Era meraviglioso: la sua vernice emanava luce ambrata, screziata di rosso intenso, e aveva ombreggiature variegate, di giallo paglierino, di terra di Siena, di verde scuro e d'un chiaro verde rame, luminosità d'oro antico e di rubino; era perfetto il nero oleoso dell'ebano, il bianco ingiallito dei piccoli punti d'avorio sulle chiavi di bosso scurito ad arte con l'acido nitrico, la bella cordiera slanciata in un pezzo di palissandro denso e rossastro, i fori armonici tagliati da mano nobile, sicura nell'eleggere linee e convergenze, quasi rappresentando ancora il gesto stesso della mano dell'artefice alla guida del coltello affilatissimo, muovendolo dentro a quella materia viva con divina grazia e perfezione. La tavola era tagliata come a imitare i profili di certi vasi antichi, simili alle linee sinuose di mitologici serpenti, per formare disegni di assoluta simmetria, eppure geometricamente inesatti, come le due metà di un volto.
La venatura dell'abete mostrava come una impalpabile vibrazione, per le lievi deviazioni simultanee nelle righe rette e parallele delle sue nervature scure. Il ponticello era forse troppo sottile, ma appariva forte nell'equilibrio perfetto del suo disegno, somigliante a un guerriero arcaico nell'atto eroico di sostenere su di sé l'irradiante centro del mondo. Tutto era una vertigine di linee curve, di rimandi, di riflessi, di sensualità sublimi, e là dove tutto si interrompeva, salendo con gli occhi, la delicata chiocciola del riccio sembrava raccogliere lo sguardo, risucchiarlo al suo interno, per conservarne in eterno lo splendore.
Mi addormentai sulla poltrona, quella notte, e sognai Sophia: diventata bellissima, sorridente, si muoveva in un vento leggero, e fra i capelli portava piccoli fiori azzurri e bianchi.
Io stavo coricato nell'erba e guardavo danzare i suoi piedi nudi, mentre Sophia si moltiplicava; ed erano tre, delicate, quasi trasparenti, aeree: il vento le risucchiava in piccoli vortici, poi le restituiva al mio piacere, in carezze, nei baci teneri dei loro capezzoli, delle estremità fresche delle loro dita, dei loro sguardi azzurri, delle loro labbra inebrianti.

 


 

 

 

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