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Viaggio a Kandahar
di
Mohsen Makhmalbaf Iran Una giornalista afgana emigrata in Canada torna in patria per dissuadere la sorella dall’intenzione di suicidarsi dopo la morte del padre. Due destini separati fin dall’infanzia: alla sorella rimasta a casa la sorte aveva riservato la perdita delle gambe per l’esplosione di una mina ed un’esistenza di disperazione e di solitudine nella condivisione della drammatica vita delle donne afgane. Iniziata la traversata, la giornalista percorre sentieri noti alle sue viscere, ma non alla sua mente. Senza stupore dunque, ma con molta determinazione, la donna si apre la strada con l’aiuto di pochi dollari, tra bambini, anziani, mogli velate dai burka, filantropi; contempla l’Afghanistan deturpato, afflitto; trasmette emozioni evocate da toni che narrano di miserie, violenze, nostalgia di libertà. Intrigati dai colori pastello e dai fondi chiari, dagli sguardi densi, dai dialoghi e dai motivi ripetuti come antiche nenie, restiamo a mirare padri e spose da generazioni tesi a scolpir nella mente moti e credenze essenziali, inequivocabili. Arsi e poveri, vagamente furfanti, uomini attaccati alla vita, gli afgani, si direbbero aver trovato libertà nella “Legge” svelata dagli occhi profondi, dalle rughe appesantite dal sole, dalla poca acqua, dal poco cibo e dal molto cammino. Occhi, i loro, abituati a guardar lontano, all’orizzonte, dove il deserto si confonde col cielo. Così
come Van Gogh dipinge la fame e Rembrandt la morte, paiono persino incantevoli
certi tratti nel pennello del regista, come sono attraenti certe emozioni nelle
parole dei poeti, anche quando parlano di dolore, di solitudine, di morte. Il
film, presentato a Cannes, ha avuto critiche contrastanti, in particolare è
stato accusato di un eccesso di estetismo. Sicuramente non sarebbe passato
inosservato, ma con altrettanta certezza gli eventi degli ultimi due mesi lo
hanno messo in luce regalandogli un successo di critica e di pubblico più che
generoso.
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